Setouchi Harumi, Il Monte Hiei, tr. it., Vicenza, Neri-Pozza, 2005, pp. 266, 16 €
Nei decenni passati, l’appartenenza a un impresa affermata e la conseguente possibilità di ascesa sociale nel quadro della crescita economica e del successo del Made in Japan aveva offerto ai giapponesi l’abbaglio di una stabilità personale e familiare che la recessione, la globalizzazione dell’economia e la (di)visione manichea del mondo hanno successivamente rivelato in gran parte illusoria. In questo quadro, trova giustificazione la tendenza che si sta ampliamente manifestando di tornare a cercare nella tradizione spirituale e religiosa del buddhismo una risposta al diffuso sentimento di sfiducia e malessere. Un buddhismo che si vuole semplice e praticabile, a cui ci si rivolge non tanto per soddisfare esigenze conoscitive quanto per trovare un sollievo al disagio, una risposta “dai contorni fluidi a una inquietudine vaga” (Kaoru Takamura), un “buddhismo su misura” e da poter vivere in prima persona. Verrebbe fatto di pensare a una sorta di New Ageasiatica, che si manifesta, oltre alla consolidata affermazione dei “nuovi movimenti religiosi”, in sedute di trascrizione di sutra nei templi, attenzione per la cucina dei monasteri, rinnovato interesse per le pratiche meditative. In questo contesto si colloca certamente il successo di una scrittrice come Harumi Setouchi, di cui in Italia sono state pubblicate le traduzioni, nel 2001, di La virtù femminile e ora, 2005, di Il monte Hiei.>>
Nata nel 1922, Harumi Setouchi ha vissuto una vita movimentata. Decisa fin dall’infanzia a diventare scrittrice, a vent’anni sposa un professore musicologo, col quale passa molti anni in Cina al tempo della guerra, ha una figlia. Ritornata in Giappone, abbandona il marito per vivere una travolgente relazione con un giovane studente. Ha altri amori, si afferma come scrittrice, ma a 50anni decide di farsi monaca buddhista, prende il nome di Jakuchô, pur continuando a scrivere, a tenere conferenze e a partecipare a trasmissioni televisive, anche ora che ha superato gli ottant’anni. Ai fotografi dice: “Potete prendere una foto, ma non dirò ‘cheese’. Io dico sempre ‘Genji’” (Intern. Herald Tribune). Ha, infatti, pubblicato una versione moderna del classico Genji Monogatari, scritto mille anni fa da Murasaki Shikibu, opera diffile per i giapponesi contemporanei e che molti autori, tra cui Tanizaki, hanno riproposto in lingua moderna: oltre due milioni di copie di questo suo adattamento sono state già vendute. “Mi sembra di aver rinunciato a tanto: amore, uomini, bei vestiti, essere graziosa. Ma c’è qualcosa a cui non riesco a rinunciare: la scrittura. Continuo a scrivere e penso che nell’aldilà, di fronte a Buddha, sarà il peccato di cui dovrò chiedere perdono. Buddha, nella sua misericordia, mi perdonerà. Se non potessi scrivere perderei la gioia di vivere. Morirò con la penna in mano” (presentazione a Milano di La virtù femminile). Ha raccontato la vita di Buddha, quella di Dengyo Daishi, ha scritto biografie di donne proto-femministe (come Toshiko Tamura) o anarchiche (Noe Ito o Ayako Tamura) e molti libri che trattano di sessualità femminile, alcuni dei quali tacciati d’immoralità. A una domanda sull’argomento, Harumi ha risposto: “Perché scrivo sull’amore? Ma, signore, non trovate che l’amore sia importante? Non ho mai pensato di scrivere di letteratura erotica, ma quando si grattano un po’ i sentimenti una dimensione sessuale è inevitabile”.>>
La domanda che le viene rivolta più di frequente è certamente quella che riguarda la sua decisione di farsi monaca, della quale, con molta modestia e semplicità, dice: “Mi spiego difficilmente io stessa perché ho deciso di entrare nella vita religiosa … Retrospettivamente, penso che ho vissuto e fatto molte esperienze. Ho amato, ho sofferto, ero celebre, ho potuto fare quel che volevo. E, nello stesso tempo, ho sentito un sentimento di vanità. Monaca, continuo a vivere in questo mondo secolare. Rido e soffro, come tutti. Ma sono distaccata, come se al fondo di me stessa, io fossi già altrove. Senza dubbio è questa ineffabile libertà che cercavo” (Le monde) e “la distanza necessaria per chiamare gatto un gatto” (Intern. Herald Tribune). E ancora: “Avevo visto tutto, fatto tutto, mi mancava l’esperienza della morte. Proprio in quell’epoca si suicidò Yukio Mishima, poi fu la volta di Kawabata: erano entrambi miei cari amici. Poi ci fu un altro scrittore che provò a uccidersi senza riuscirci. Sembrava che il suicidio fosse di moda fra gli scrittori. Pensai: se mi suicido diranno ‘quella mascalzona di Setouchi ha imitato gli altri scrittori’. Mi è venuta un’idea più rivoluzionaria: farmi monaca, morire pur essendo viva … io cercavo di ampliare la mia visione del mondo, cercavo di dare un senso alla mia vita” (presentazione).>>
Il monte Hiei, titolo del libro ma, va ricordato, è il nome della collina nei pressi di Kyoto ove ha sede la “direzione” della prestigiosa scuola Tendai, ci offre la storia del lento arrivare alla quasi improvvisa decisione di lasciare il mondo, decisione che l’autrice narra attraverso il malinconico concludersi (o eroica decisione di interrompere?) una storia d’amore, intensa e senza sbocco, tra la protagonista Toshiko, una scrittrice, e il suo amante, un uomo sposato, rappresentato attraverso tutte le ambiguità maschili, fatte di slanci di passione, piccole meschinità, egoismo e protettività, da lei amato, ci par di capire, proprio in questo intrigo di affetti contraddittori.>>
Il romanzo ci fa seguire Toshiko, che diventa la monaca Shun-ei, attraverso il doloroso passaggio della tonsura (“qualunque donna, anche la più dimessa, è segretamente orgogliosa di una parte del proprio corpo che mostra con fierezza. Per Toshiko erano i capelli”), dell’ordinazione, del noviziato e, infine, di un ritiro di 60 giorni al monte Hiei. Il libro mostra, dall’interno, tutta la durezza di una disciplina che, attraverso gli “eccessi” tipici della formazione della scuola Tendai, produce quelle forzature psicofisiologiche, che sono altrettanti “accessi” a stati diversi di coscienza, e quella purificazione dolorosa del corpo che affranca e rinvigorisce lo spirito. Toshiko “non poteva sperarlo per l’eternità, ma almeno per un istante voleva intravedere quella luminosa dimensione di libertà perfetta”. Almeno per un istante, come quando, nella cerimonia dell’offerta del legno di cedro, “nel fuoco affioravano le figure degli uomini che erano passati nella sua vita, ma svanivano subito. Le loro facce danzavano nelle fiamme come carta sottile, si consumavano come fotografie bruciate, erano esseri viventi che ardevano accartocciandosi”. Anche la purificazione è tuttavia compromessa dall’impermanenza e dagli attaccamenti. Con incredibile schiettezza, Setouchi ci narra come il più elegante ed efficace dei maestri-istruttori del ritiro venisse poi espulso dal monte Hiei e dovesse lasciare anche la famiglia a causa del palesarsi di una relazione non più tollerabile (“È tutto vero. Che ho un’amante e che ogni sera uscivo per andare a trovarla”). E la stessa Schun-ei nella cerimonia conclusiva dei 60 giorni, quando si appresta a tirare a sé la trave per battere la campana, ancora una volta crede di scorgere la figura di lui, in un sussulto che è insieme di nostalgia e di supremo distacco, espressione di un inesausto, anche se purificato, bisogno di riconoscimento e d’amore.>>
Al di là del significato che il successo di questa scrittrice può avere nel Giappone di questi anni, a noi questo romanzo appare doppiamente prezioso perché, da un lato, non sono frequenti i riferimenti espliciti, nella letteratura giapponese contemporanea, alla tradizione spirituale buddhista; dall’altro, perché ci offre pagine semi-autobiografiche del vissuto monastico, di cui ci mostra aspetti di miseria e grandezza, complementari a grandezza e miseria delle figure laiche: ci verrebbe da dire, parafrasando lo psichiatra Ludwig Binswanger, “due forme di esistenza mancate”.>>
Riccardo Venturini
(da Dharma, 2005, n. 20)
Nei decenni passati, l’appartenenza a un impresa affermata e la conseguente possibilità di ascesa sociale nel quadro della crescita economica e del successo del Made in Japan aveva offerto ai giapponesi l’abbaglio di una stabilità personale e familiare che la recessione, la globalizzazione dell’economia e la (di)visione manichea del mondo hanno successivamente rivelato in gran parte illusoria. In questo quadro, trova giustificazione la tendenza che si sta ampliamente manifestando di tornare a cercare nella tradizione spirituale e religiosa del buddhismo una risposta al diffuso sentimento di sfiducia e malessere. Un buddhismo che si vuole semplice e praticabile, a cui ci si rivolge non tanto per soddisfare esigenze conoscitive quanto per trovare un sollievo al disagio, una risposta “dai contorni fluidi a una inquietudine vaga” (Kaoru Takamura), un “buddhismo su misura” e da poter vivere in prima persona. Verrebbe fatto di pensare a una sorta di New Ageasiatica, che si manifesta, oltre alla consolidata affermazione dei “nuovi movimenti religiosi”, in sedute di trascrizione di sutra nei templi, attenzione per la cucina dei monasteri, rinnovato interesse per le pratiche meditative. In questo contesto si colloca certamente il successo di una scrittrice come Harumi Setouchi, di cui in Italia sono state pubblicate le traduzioni, nel 2001, di La virtù femminile e ora, 2005, di Il monte Hiei.>>
Nata nel 1922, Harumi Setouchi ha vissuto una vita movimentata. Decisa fin dall’infanzia a diventare scrittrice, a vent’anni sposa un professore musicologo, col quale passa molti anni in Cina al tempo della guerra, ha una figlia. Ritornata in Giappone, abbandona il marito per vivere una travolgente relazione con un giovane studente. Ha altri amori, si afferma come scrittrice, ma a 50anni decide di farsi monaca buddhista, prende il nome di Jakuchô, pur continuando a scrivere, a tenere conferenze e a partecipare a trasmissioni televisive, anche ora che ha superato gli ottant’anni. Ai fotografi dice: “Potete prendere una foto, ma non dirò ‘cheese’. Io dico sempre ‘Genji’” (Intern. Herald Tribune). Ha, infatti, pubblicato una versione moderna del classico Genji Monogatari, scritto mille anni fa da Murasaki Shikibu, opera diffile per i giapponesi contemporanei e che molti autori, tra cui Tanizaki, hanno riproposto in lingua moderna: oltre due milioni di copie di questo suo adattamento sono state già vendute. “Mi sembra di aver rinunciato a tanto: amore, uomini, bei vestiti, essere graziosa. Ma c’è qualcosa a cui non riesco a rinunciare: la scrittura. Continuo a scrivere e penso che nell’aldilà, di fronte a Buddha, sarà il peccato di cui dovrò chiedere perdono. Buddha, nella sua misericordia, mi perdonerà. Se non potessi scrivere perderei la gioia di vivere. Morirò con la penna in mano” (presentazione a Milano di La virtù femminile). Ha raccontato la vita di Buddha, quella di Dengyo Daishi, ha scritto biografie di donne proto-femministe (come Toshiko Tamura) o anarchiche (Noe Ito o Ayako Tamura) e molti libri che trattano di sessualità femminile, alcuni dei quali tacciati d’immoralità. A una domanda sull’argomento, Harumi ha risposto: “Perché scrivo sull’amore? Ma, signore, non trovate che l’amore sia importante? Non ho mai pensato di scrivere di letteratura erotica, ma quando si grattano un po’ i sentimenti una dimensione sessuale è inevitabile”.>>
La domanda che le viene rivolta più di frequente è certamente quella che riguarda la sua decisione di farsi monaca, della quale, con molta modestia e semplicità, dice: “Mi spiego difficilmente io stessa perché ho deciso di entrare nella vita religiosa … Retrospettivamente, penso che ho vissuto e fatto molte esperienze. Ho amato, ho sofferto, ero celebre, ho potuto fare quel che volevo. E, nello stesso tempo, ho sentito un sentimento di vanità. Monaca, continuo a vivere in questo mondo secolare. Rido e soffro, come tutti. Ma sono distaccata, come se al fondo di me stessa, io fossi già altrove. Senza dubbio è questa ineffabile libertà che cercavo” (Le monde) e “la distanza necessaria per chiamare gatto un gatto” (Intern. Herald Tribune). E ancora: “Avevo visto tutto, fatto tutto, mi mancava l’esperienza della morte. Proprio in quell’epoca si suicidò Yukio Mishima, poi fu la volta di Kawabata: erano entrambi miei cari amici. Poi ci fu un altro scrittore che provò a uccidersi senza riuscirci. Sembrava che il suicidio fosse di moda fra gli scrittori. Pensai: se mi suicido diranno ‘quella mascalzona di Setouchi ha imitato gli altri scrittori’. Mi è venuta un’idea più rivoluzionaria: farmi monaca, morire pur essendo viva … io cercavo di ampliare la mia visione del mondo, cercavo di dare un senso alla mia vita” (presentazione).>>
Il monte Hiei, titolo del libro ma, va ricordato, è il nome della collina nei pressi di Kyoto ove ha sede la “direzione” della prestigiosa scuola Tendai, ci offre la storia del lento arrivare alla quasi improvvisa decisione di lasciare il mondo, decisione che l’autrice narra attraverso il malinconico concludersi (o eroica decisione di interrompere?) una storia d’amore, intensa e senza sbocco, tra la protagonista Toshiko, una scrittrice, e il suo amante, un uomo sposato, rappresentato attraverso tutte le ambiguità maschili, fatte di slanci di passione, piccole meschinità, egoismo e protettività, da lei amato, ci par di capire, proprio in questo intrigo di affetti contraddittori.>>
Il romanzo ci fa seguire Toshiko, che diventa la monaca Shun-ei, attraverso il doloroso passaggio della tonsura (“qualunque donna, anche la più dimessa, è segretamente orgogliosa di una parte del proprio corpo che mostra con fierezza. Per Toshiko erano i capelli”), dell’ordinazione, del noviziato e, infine, di un ritiro di 60 giorni al monte Hiei. Il libro mostra, dall’interno, tutta la durezza di una disciplina che, attraverso gli “eccessi” tipici della formazione della scuola Tendai, produce quelle forzature psicofisiologiche, che sono altrettanti “accessi” a stati diversi di coscienza, e quella purificazione dolorosa del corpo che affranca e rinvigorisce lo spirito. Toshiko “non poteva sperarlo per l’eternità, ma almeno per un istante voleva intravedere quella luminosa dimensione di libertà perfetta”. Almeno per un istante, come quando, nella cerimonia dell’offerta del legno di cedro, “nel fuoco affioravano le figure degli uomini che erano passati nella sua vita, ma svanivano subito. Le loro facce danzavano nelle fiamme come carta sottile, si consumavano come fotografie bruciate, erano esseri viventi che ardevano accartocciandosi”. Anche la purificazione è tuttavia compromessa dall’impermanenza e dagli attaccamenti. Con incredibile schiettezza, Setouchi ci narra come il più elegante ed efficace dei maestri-istruttori del ritiro venisse poi espulso dal monte Hiei e dovesse lasciare anche la famiglia a causa del palesarsi di una relazione non più tollerabile (“È tutto vero. Che ho un’amante e che ogni sera uscivo per andare a trovarla”). E la stessa Schun-ei nella cerimonia conclusiva dei 60 giorni, quando si appresta a tirare a sé la trave per battere la campana, ancora una volta crede di scorgere la figura di lui, in un sussulto che è insieme di nostalgia e di supremo distacco, espressione di un inesausto, anche se purificato, bisogno di riconoscimento e d’amore.>>
Al di là del significato che il successo di questa scrittrice può avere nel Giappone di questi anni, a noi questo romanzo appare doppiamente prezioso perché, da un lato, non sono frequenti i riferimenti espliciti, nella letteratura giapponese contemporanea, alla tradizione spirituale buddhista; dall’altro, perché ci offre pagine semi-autobiografiche del vissuto monastico, di cui ci mostra aspetti di miseria e grandezza, complementari a grandezza e miseria delle figure laiche: ci verrebbe da dire, parafrasando lo psichiatra Ludwig Binswanger, “due forme di esistenza mancate”.>>
Riccardo Venturini
(da Dharma, 2005, n. 20)