Riccardo Venturini
Spiritualità e vita quotidiana
Nel numero 70 (gen.-feb. 2004) della rivista Appunti di viaggio Pierpaolo Patrizi (psicologo, redattore della Rivista, sincero credente, professionalmente impegnato in attività di cura e sostegno sociale) pubblicava una nota di riflessione su spiritualità e disagi nella vita quotidiana. Con la nota che segue, pubblicata sempre in Appunti di viaggio, n. 71 (mar.-apr. 2004), Riccardo Venturini così rispondeva a Pierpaolo Patrizi, uno dei suoi ancients élèves:
Mio caro Pierpaolo, gli anni di colloqui, interrogativi e inquietudini condivise mi spingono a non far cadere nel silenzio le tue riflessioni, rispondendoti, ora che ci troviamo lontani, per iscritto e – se lo riterrai opportuno – in pubblico.
Il tema è sempre il nostro preferito: quello del rapporto tra spiritualità e vita quotidiana o, come abbiamo detto tante volte, tra dimensione orizzontale e dimensione verticale dell’esistenza. Cercando di praticare la via del non-dualismo, nella forma se vogliamo estrema del non-dualismo del dualismo, quando sento affermare che (tua citazione) la dimensione divina del nostro essere “resta all’aperto, al largo, dove non si può gettare l’ancora”, rispettosamente dissento.
Se l’universale è l’Assoluto e l’Assoluto è lo spirituale, la vita spirituale è la vita condotta alla luce dell’Assoluto, non contrapposto al relativo, ma – nella sua assoluta assolutezza – coincidente col fenomeno, il circoscritto, il transeunte. Come è stato detto, “il samsara coincide col nirvana”: verità che considero tra le più rivoluzionarie. Dunque, non una spiritualità separata ma un impegno a vivere il presente alla luce delle cose ultime, in costante riferimento al mondo detto dei “valori”, leggendo l’attuale in funzione del fine, considerando il particolare nel quadro di un più ampio disegno che irradia di eterno il transeunte. Spiritualità come arte della trascendenza dell’io separato.
E il dolore, la malattia, la morte, le nostre incertezze?
Dacché l’Uno ha “deciso” di rivelarsi, sembra non averlo potuto fare che attraverso il molteplice, le cose limitate, insufficienti e interdipendenti. Anche il negativo, il male ha pertanto il suo posto nel mondo, “vuole la sua parte nella vita” e non può essere sempre evitato: a noi il compito “di capire perché le cose stanno così e di trovare il modo di sopportarlo” (Jung). Nel corso dei millenni l’umanità sembra essersi avviata a progressivamente purificare il rapporto con Dio o Assoluto. Non si prega (quasi) più per la pioggia, ma per un orizzonte di senso; si è capita – almeno da molti – la vanità dell’invocazione di un Dio soccorritore e l’opportunità di purificarne l’immagine, in quella di un Dio salvatore. Dio, infatti, non risponde mai, almeno nel senso “orizzontale”, non guasta la struttura del mondo da Lui predisposta: non ha risposto ad Auschwitz, non ha risposto al Figlio che “dai perfidi tratto a morir sul colle, imporporò le zolle del suo sublime altar”. Un Gesù salvato dal Padre avrebbe significato trasformare la tragedia in farsa! Ma proprio nella non-risposta Dio risponde di più.
Ottimismo? La vita è una meraviglioa avventura? Rispose Churcill: “peccato che non sia mai a lieto fine”. E allora? Protetti dalla nostra palpitante individualità, quando ci riconosciamo meno toccati di altri dalle onde della sofferenza osserviamo dall’esterno l’altrui patimento. Pur desiderando essere solidali, dobbiamo ammettere che se il nostro sistema nervoso fosse “in rete” saremmo già stramorti delle malattie degli ammalati, della fame degli affamati, delle torture dei perseguitati. La grande forza della Vita sembra avere messo le cose in tal modo, lasciandoci però un altro compito, quello di riscattare nella creatività positiva (di bene, di bello, di vero) l’incommensurabile martirio che ci bordeggia e ci sostiene. Infine, quando proprio a noi è avvicinato l’amaro calice, prepariamoci a saper offrire il nostro sacrificio nella consapevolezza e nella dignità.
Pessimismo? Fatalismo? Neppure: se abbiamo fame è bene cercare il cibo, se abbiamo un dolore l’analgesico, se umiliati un risarcimento, senza confondere la spiritualità con l’inerzia, il desiderio col peccato, l’impegno con le vane speranze, sforzandoci, realisticamente, di ottenere la più armoniosa soddisfazione dei bisogni, sia di quelli che sono stati chiamati “elementari” che di quelli cosiddetti “superiori”. Tu parli di reincantamento del mondo e del desiderio di un Volto su cui poter reclinare il capo, di una vita che abbracci la Vita, di un Silenzio che riempia la quotidianità. Qualcuno ha promesso un giorno in cui “riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo” (S. Agostino), ma – piccolo particolare! – forse non vivremo. La vita, purtroppo o per fortuna, è altro: il Volto sta nei volti, la Vita nelle vite, il Silenzio nei colloqui e nei rumori, e “questo è il mondo dove i Buddha raggiungono l’illuminazione”. Non so chi possa essere il contabile in grado di far quadrare il bilancio tra (tante) sofferenze e (troppo poca) bellezza, per cui siamo in tanti a domandarci se un sorriso, Platone, Mozart… siano sufficienti per dire di sì al Mondo e alla Vita. La mia risposta cerca di essere positiva, pur sapendo, come diceva Flaiano, che “i giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono cinque o sei. Gli altri fanno volume”; ma voglio anche aggiungere di credere nella (buddhista) nobiltà della sconfitta e nella beatitudine (cristiana) dei poveri e degli umiliati consapevoli. E poi, esercitiamoci anche a vedere che “il bene e il male perdono il loro carattere assoluto” e che “in fondo, non esiste alcun bene dal quale non possa sorgere un male, e nessun male dal quale non possa sorgere un bene” (Jung), specie se spostiamo il centro dell’attenzione dal nostro piccolo io a una Realtà più ampia.
So che lavoriamo insieme per il bene ma anche perché sia dato vivere sofferenze “buone”, per le quali occorre calma, silenzio, compostezza (oggi difficili da trovare perfino nei funerali): e questo, come ho detto un’altra volta, lo possiamo anche chiamare costruzione di sentieri sui quali consapevolezza e compassione possano procedere più speditamente…
Ti abbraccio, sempre con grande affetto, Riccardo
(da Appunti di viaggio, n. 71, 2004, nella rubrica “Fiori di campo”)
Spiritualità e vita quotidiana
Nel numero 70 (gen.-feb. 2004) della rivista Appunti di viaggio Pierpaolo Patrizi (psicologo, redattore della Rivista, sincero credente, professionalmente impegnato in attività di cura e sostegno sociale) pubblicava una nota di riflessione su spiritualità e disagi nella vita quotidiana. Con la nota che segue, pubblicata sempre in Appunti di viaggio, n. 71 (mar.-apr. 2004), Riccardo Venturini così rispondeva a Pierpaolo Patrizi, uno dei suoi ancients élèves:
Mio caro Pierpaolo, gli anni di colloqui, interrogativi e inquietudini condivise mi spingono a non far cadere nel silenzio le tue riflessioni, rispondendoti, ora che ci troviamo lontani, per iscritto e – se lo riterrai opportuno – in pubblico.
Il tema è sempre il nostro preferito: quello del rapporto tra spiritualità e vita quotidiana o, come abbiamo detto tante volte, tra dimensione orizzontale e dimensione verticale dell’esistenza. Cercando di praticare la via del non-dualismo, nella forma se vogliamo estrema del non-dualismo del dualismo, quando sento affermare che (tua citazione) la dimensione divina del nostro essere “resta all’aperto, al largo, dove non si può gettare l’ancora”, rispettosamente dissento.
Se l’universale è l’Assoluto e l’Assoluto è lo spirituale, la vita spirituale è la vita condotta alla luce dell’Assoluto, non contrapposto al relativo, ma – nella sua assoluta assolutezza – coincidente col fenomeno, il circoscritto, il transeunte. Come è stato detto, “il samsara coincide col nirvana”: verità che considero tra le più rivoluzionarie. Dunque, non una spiritualità separata ma un impegno a vivere il presente alla luce delle cose ultime, in costante riferimento al mondo detto dei “valori”, leggendo l’attuale in funzione del fine, considerando il particolare nel quadro di un più ampio disegno che irradia di eterno il transeunte. Spiritualità come arte della trascendenza dell’io separato.
E il dolore, la malattia, la morte, le nostre incertezze?
Dacché l’Uno ha “deciso” di rivelarsi, sembra non averlo potuto fare che attraverso il molteplice, le cose limitate, insufficienti e interdipendenti. Anche il negativo, il male ha pertanto il suo posto nel mondo, “vuole la sua parte nella vita” e non può essere sempre evitato: a noi il compito “di capire perché le cose stanno così e di trovare il modo di sopportarlo” (Jung). Nel corso dei millenni l’umanità sembra essersi avviata a progressivamente purificare il rapporto con Dio o Assoluto. Non si prega (quasi) più per la pioggia, ma per un orizzonte di senso; si è capita – almeno da molti – la vanità dell’invocazione di un Dio soccorritore e l’opportunità di purificarne l’immagine, in quella di un Dio salvatore. Dio, infatti, non risponde mai, almeno nel senso “orizzontale”, non guasta la struttura del mondo da Lui predisposta: non ha risposto ad Auschwitz, non ha risposto al Figlio che “dai perfidi tratto a morir sul colle, imporporò le zolle del suo sublime altar”. Un Gesù salvato dal Padre avrebbe significato trasformare la tragedia in farsa! Ma proprio nella non-risposta Dio risponde di più.
Ottimismo? La vita è una meraviglioa avventura? Rispose Churcill: “peccato che non sia mai a lieto fine”. E allora? Protetti dalla nostra palpitante individualità, quando ci riconosciamo meno toccati di altri dalle onde della sofferenza osserviamo dall’esterno l’altrui patimento. Pur desiderando essere solidali, dobbiamo ammettere che se il nostro sistema nervoso fosse “in rete” saremmo già stramorti delle malattie degli ammalati, della fame degli affamati, delle torture dei perseguitati. La grande forza della Vita sembra avere messo le cose in tal modo, lasciandoci però un altro compito, quello di riscattare nella creatività positiva (di bene, di bello, di vero) l’incommensurabile martirio che ci bordeggia e ci sostiene. Infine, quando proprio a noi è avvicinato l’amaro calice, prepariamoci a saper offrire il nostro sacrificio nella consapevolezza e nella dignità.
Pessimismo? Fatalismo? Neppure: se abbiamo fame è bene cercare il cibo, se abbiamo un dolore l’analgesico, se umiliati un risarcimento, senza confondere la spiritualità con l’inerzia, il desiderio col peccato, l’impegno con le vane speranze, sforzandoci, realisticamente, di ottenere la più armoniosa soddisfazione dei bisogni, sia di quelli che sono stati chiamati “elementari” che di quelli cosiddetti “superiori”. Tu parli di reincantamento del mondo e del desiderio di un Volto su cui poter reclinare il capo, di una vita che abbracci la Vita, di un Silenzio che riempia la quotidianità. Qualcuno ha promesso un giorno in cui “riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo” (S. Agostino), ma – piccolo particolare! – forse non vivremo. La vita, purtroppo o per fortuna, è altro: il Volto sta nei volti, la Vita nelle vite, il Silenzio nei colloqui e nei rumori, e “questo è il mondo dove i Buddha raggiungono l’illuminazione”. Non so chi possa essere il contabile in grado di far quadrare il bilancio tra (tante) sofferenze e (troppo poca) bellezza, per cui siamo in tanti a domandarci se un sorriso, Platone, Mozart… siano sufficienti per dire di sì al Mondo e alla Vita. La mia risposta cerca di essere positiva, pur sapendo, come diceva Flaiano, che “i giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono cinque o sei. Gli altri fanno volume”; ma voglio anche aggiungere di credere nella (buddhista) nobiltà della sconfitta e nella beatitudine (cristiana) dei poveri e degli umiliati consapevoli. E poi, esercitiamoci anche a vedere che “il bene e il male perdono il loro carattere assoluto” e che “in fondo, non esiste alcun bene dal quale non possa sorgere un male, e nessun male dal quale non possa sorgere un bene” (Jung), specie se spostiamo il centro dell’attenzione dal nostro piccolo io a una Realtà più ampia.
So che lavoriamo insieme per il bene ma anche perché sia dato vivere sofferenze “buone”, per le quali occorre calma, silenzio, compostezza (oggi difficili da trovare perfino nei funerali): e questo, come ho detto un’altra volta, lo possiamo anche chiamare costruzione di sentieri sui quali consapevolezza e compassione possano procedere più speditamente…
Ti abbraccio, sempre con grande affetto, Riccardo
(da Appunti di viaggio, n. 71, 2004, nella rubrica “Fiori di campo”)