Riccardo Venturini: Sulle orme di Ossendowski: buddhismo e storia della Mongolia del Novecento
Ritorna in libreria, dovremmo dire torna ancora una volta in libreria, il libro di Ossendowsky: Bestie, uomini, dèi. La spiegazione di questo ritorno non è difficile perché il libro possiede molteplici motivi di interesse e più di un ingrediente che lo rende appetibile a molti palati.
Innanzitutto, l'autore: chi era Ferdinand Antoni Ossendowski? Nato a Vitebsk nel 1871, dopo aver studiato chimica e fisica alla Sorbona, O. prese parte alla Esposizione universale del 1900 come esperto della sezione di chimica; specializzatosi in mineralogia, ben presto fu considerato un'autorità in fatto di miniere di carbone ed era ritenuto conoscitore di numerose miniere d'oro siberiane. Durante la guerra russo-giapponese fu alto commissario addetto ai combustibili, agli ordini del generale Kuropatkin; divenne poi consulente scientifico del consiglio superiore della marina e, nel corso della I guerra mondiale, fu inviato in missione speciale in Mongolia, paese di cui ebbe in tal modo l'occasione di apprendere la lingua. Tra i suoi "protettori", troviamo Alexandr Vasilevich Kolchak, l'ammiraglio russo comandante della flotta del Mar Nero durante la I guerra mondiale. Nel 1917, allo scoppio della rivoluzione, Kolchak si dimise dal suo incarico e organizzò in Siberia un esercito controrivoluzionario insediato a Omsk, fondando addirittura un governo che riuscì a porre sotto il suo controllo la Siberia fino agli Urali. Ed ecco che troviamo Ossendowski chiamato come professore al Politecnico di Omsk e, come esperto, a far parte del ministero delle finanze e dell'agricoltura di questo governo siberiano. Dopo qualche successo, Kolchak dovette però registrare una serie di sconfitte, per cui si ritirò a Irkusk, ove nel '21 fu catturato e ucciso dai bolscevichi.
Ossendowski non poteva non rimanere coinvolto nelle alterne vicende di Kolchak. All'inizio del 1920, lo troviamo a Krasnoiarks, in Siberia, e, un giorno, mentre si era recato in visita di un amico, la sua casa fu circondata da soldati rossi, inviati per catturarlo. Fu perciò costretto a una fuga precipitosa: indossata una vecchia tenuta da caccia dell'amico e acquistati strada facendo «un fucile, trecento cartucce, un'ascia, un coltello, un cappotto di montone, tè, sale, gallette e un bollitore», iniziò una incredibile, rischiosissima peregrinazione. Dopo un infelice tentativo di raggiungere l'Oceano Indiano attraverso il Tibet, egli dovette trascorrere molti mesi confrontandosi con gli orrori della violenza e della paura, lottando per sopravvivere e fuggendo attraverso Siberia, Tibet, Mongolia, Manciuria. Giunto finalmente a Pechino, nel giugno 1921, poté successivamente tornare in Polonia, ove, tra il 1921 e il 1922, riordinò i suoi appunti di viaggio e scrisse il racconto delle sue straordinarie vicissitudini, racconto che sarebbe stato rapidamente tradotto e pubblicato in varie lingue. Per concludere sulla sua biografia, va ricordato che, ripreso l'insegnamento, visitò varie regioni dell'Africa (tra cui Senegal, Guinea, Sudan, Costa d'Avorio) dalle quali riportò numerosi esemplari di animali e molteplici oggetti al fine di arricchire le collezioni universitarie. Morì poi a Zólwin, nel 1945, quando il suo Paese si liberava dal giogo nazista per cadere sotto quello sovietico. Oltre a Bestie, uomini e dèi, scrisse L'uomo e il mistero in Asia, Dalla presidenza alla prigione, Fuoco nel deserto, Lenin, etc.
Basterebbe la descrizione dei paesaggi, della natura misteriosa e avversa, dei duri costumi degli abitanti, degli incontri straordinari per far apprezzare il libro, racconto avvincente di avventure e rara testimonianza sulla vita di una delle regioni che restano ancora tra le più impervie, naturalisticamente, culturalmente e linguisticamente: la Mongolia. Anche ai pochi che, come chi scrive, hanno avuto l'occasione di visitarla in tempi più recenti, le parole di O. continuano a suonare veritiere e suggestive:
Nel cuore dell'Asia si trova la sconfinata, misteriosa e ricca Mongolia. Dalle pendici innevate dei Tien Shan e dalle sabbie roventi della Zungaria occidentale ai boscosi contrafforti dei Monti Saiani e alla grande Muraglia Cinese, essa si estende su un'enorme porzione dell'Asia centrale. Culla di innumerevoli popoli, storie e leggende; patria di sanguinari conquistatori che vi hanno lasciato le loro capitali coperte ormai dalle sabbie del Gobi, i loro misteriosi anelli e le antiche leggi dei nomadi; terra di monaci e di dèmoni maligni, di tribù erranti amministrate dai Khan, principi discendenti di Gengis Khan e di Kublai Khan: tale è la Mongolia.
Misteriosa contrada dei culti di Rama, Sakiamuni, Djonkapa e Paspa, culti custoditi dal Buddha vivente, Buddha incarnato nella persona divina del terzo dignitario della religione lamaista, Bogdo Ghenghen a Ta Kure o Urga; terra di misteriosi guaritori, profeti, stregoni, indovini e streghe; patria del simbolo della svastica; paese che non ha obliato i pensieri dei grandi potentati che un tempo regnarono in Asia e metà Europa: tale è la Mongolia.
Terra di nude montagne, di pianure arroventate dal sole e gelate dal freddo, ove regnano le malattie del bestiame e degli uomini, la peste, l'antrace e il vaiolo; terra di sorgenti bollenti e di valichi montani custoditi dai dèmoni, di laghi brulicanti di pesci; terra di lupi, rare specie di cervi e di mufloni, di milioni di marmotte, cavalli, asini e cammelli selvaggi, animali tutti che mai han conosciuto la briglia, terra di cani feroci e di uccelli rapaci che divorano i cadaveri che quel popolo abbandona nelle pianure: tale è la Mongolia.
Patria di genti che stanno scomparendo e guardano biancheggiare al sole le ossa calcinate degli antenati, genti che conquistarono la Cina, il Siam, l'India settentrionale e la Russia, e i cui petti si scontrarono con le lance di ferro dei cavalieri polacchi che difendevano allora la Cristianità dall'invasione della nomade e selvaggia Asia: tale è la Mongolia.
Terra di grandi ricchezze naturali che pure non produce nulla, ha bisogno di tutto, e pare di soffrire di tutti i mali e cataclismi del mondo: tale è la Mongolia (p. 91 s.).
Ma un altro motivo di interesse del libro è costituto dalla cronaca degli avvenimenti politici e dai ritratti dei personaggi che compongono lo scenario sul cui sfondo si disegna il reportagedi O. Non possiamo certo avere la pretesa di riassumere qui la millenaria storia mongola, ma va ricordato che la regione, soggetta da alcuni secoli al dominio della dinastia cinese Qing, nel 1911, allorquando in Cina venne proclamata la Repubblica, i principi mongoli, che non si erano sentiti mai molto legati all'impero cinese, si proclamarono indipendenti. Si venne in quegli anni a delineare un diverso destino per le regioni dell'Asia centrale oggetto delle conquiste manciù: la Mongolia meridionale sarebbe rimasta inglobata nello stato cinese (a costituire la cosiddetta Mongolia interna) al pari dello Xinjiang (Turkestan cinese), mentre la Mongolia esterna conquistava la sua indipendenza (indipendenza che si sarebbe mostrata poi stabile nei successivi decenni) divenendo la repubblica della Mongolia; un terzo gruppo mongolo, più a Nord, rappresentato dagli abitanti della Buriatia, era da tempo assuefatto al dominio russo, appartenendo la Buriatia all'impero siberiano zarista, e la Buriatia sarebbe divenuta regione autonoma della Repubblica federativa sovietica russa e oggi della Russia (in situazione simile alle attigue regioni dell'Altai e di Tuva). Il governo nazionale costituito a Urga, la capitale mongola, ebbe come capo dello Stato una sorta di papa-re: l'influente capo della comunità monastica, l'ottavo Bogdo Khan (1869-1924), di cui diremo oltre. Il Tibet, per parte sua, nel 1913 vedeva il ritorno del XIII Dalai Lama (che si era dovuto recare in esilio, prima in Mongolia e poi in India) e poté procedere alla proclamazione della completa indipendenza dalla Cina.
Sebbene la Cina non rinunciasse alle sue pretese di sovranità, nel 1915 un trattato firmato da Mongolia, Russia e Cina riconosceva l'indipendenza della Mongolia esterna. L'esistenza di uno stato mongolo indipendente poggiava quindi, da un lato, sulla fermezza della popolazione khalkha (la tribù più importante), intransigentemente nazionalistica e orgogliosa del suo passato; dall'altro, sulla posizione di equilibrio trovata nel corso degli anni tra le due grandi potenze rivali, Cina e Russia. Va poi detto che in quegli anni anche un altro fattore si rivelò determinante: la colonizzazione cinese della regione mongola, praticata come ostacolo alla penetrazione russa, aveva finito per portare a una marcata soggezione dei mongoli nei confronti dei cinesi. L'esempio di quanto accadeva nella Mongolia interna rendeva pertanto i khalkha della Mongolia esterna sempre più insofferenti nei confronti dei cinesi, spingendoli verso la Russia, che rappresentava, dopo tutto, un pericolo minore per l'indipendenza della regione. I russi, benché procedessero con molta cautela per la conservazione degli equilibri, concessero prestiti, stipularono accordi militari, fondarono la Banca nazionale mongola e operarono, durante la guerra mondiale, ingenti acquisti di bestiame per l'esercito. Era in quel periodo, come abbiamo detto, che si era svolta la missione di Ossendowski in Mongolia su mandato russo.
La rivoluzione scoppiata in Russia nel 1917 rischiava ora di compromettere seriamente quanto era stato concordato e, infatti, l'Asia centrale vedeva mongoli, cinesi, russi bianchi e russi bolscevichi gli uni contro gli altri in conflitto armato, con opposti, mutevoli, ristretti interessi, ciascuno tessendo intrighi, esercitando violenze e violando accordi. In quei giorni, infatti, i mongoli stavano protestando con grandi agitazioni contro la politica cinese nel loro Paese; i cinesi, pieni di rabbia, intimavano ai mongoli di pagare le imposte per tutto il periodo compreso dal giorno in cui l'autonomia era stata strappata a Pechino; i coloni russi, che si erano stabiliti anni prima nei pressi della città e nelle vicinanze dei grandi monasteri o presso tribù nomadi, si erano divisi in fazioni che si combattevano aspramente (p. 93).
In tale clima, cruento e imprevedibile, O. incontrò alcuni personaggi di indubbio interesse storico e politico, presentati in una forma che ha fatto pensare a una realtà ingenuamente "romanzata", che invece le successive indagini e conoscenze hanno mostrato più attendibile di quanto si potesse immaginare negli anni Venti in Europa.
Uno dei personaggi di rilievo era il barone e generale dell'armata zarista Roman Ungern von Sternberg, custode della tradizione, nemico spietato della sovversione e, per ciò stesso, della rivoluzione russa. Inseritosi nei disordini controrivoluzionari in Siberia e in Asia centrale, egli svolse un'azione decisiva per impedire che la Mongolia esterna facesse la stessa fine di quella interna. Sentendosi una sorta di reincarnazione di Gengis Khan, egli sperava di guidare un movimento nazionalista panmongolo alla liberazione e alla unificazione di tutti i territori abitati dai mongoli, per organizzare poi una sorta di crociata antibolscevica, volta alla liberazione della Russia e all'affermazione dei valori della "tradizione". Costretto a ritirarsi di fronte ai rossi, passò in Mongolia, ove, a capo di un'armata di russi bianchi e di elementi locali, conquistò la capitale Urga, liberò il Bodgo Khan, tenuto agli "arresti domiciliari" dai cinesi, e ne restaurò il potere.
O., conquistatane la fiducia, ricevette da Ungern un aiuto determinante per poter raggiungere Pechino e tornare in patria. Raccogliendone confidenze e propositi, egli ci ha così reso possibile conoscere alcuni aspetti inediti del buddhismo vissuto nell'Asia centrale in quegli anni. Ungern, nel racconto che fa a O., dichiara infatti di avere conosciuto e abbracciato il buddhismo («mio nonno ci fece conoscere il buddhismo di ritorno dall'India e mio padre e io ne facemmo la nostra religione»), praticandolo in modo a dir poco originale:
Ho consacrato la mia vita alla guerra e allo studio del buddhismo [? e] in Transbaikalia ho cercato di istituire l'Ordine militare buddhista per combattere implacabilmente la depravazione rivoluzionaria. [?] Stabilii l'obbligo del celibato, la rinuncia assoluta alla donna, alle comodità della vita, al superfluo, secondo gli insegnamenti della Fede Gialla; e affinché la Russia potesse col tempo dimenticare o domare i suoi istinti, introdussi un uso illimitato di alcool, hashish ed oppio. Adesso, come sapete, non esito ad impiccare ufficiali e soldati che abusano di alcool; ma allora bevevamo fino alla "febbre bianca", il delirium tremens. Mi fu impossibile organizzare un simile Ordine, ma raccolsi intorno a me trecento uomini che ero riuscito a rendere di un'audacia prodigiosa e d'una ferocia senza pari. Poi si comportarono da eroi durante la guerra con la Germania e successivalente nella lotta con i bolshevichi, ma ormai ne sono rimasti ben pochi (pp. 184, 188).
Di grande suggestione "cinematografica" le immagini del generale che, nella notte, sfreccia a bordo di «una enorme Fiat con i grandi fari accesi», tra cavalieri mongoli, buriati e tibetani, soldati russi e, sullo sfondo, nel buio, gli occhi brillanti dei lupi:
Ci ritrovammo nella pianura nella nostra auto che filava come una freccia, con il vento che sibilava e scompigliava i nostri capelli e faceva svolazzare le falde dei nostri pesanti cappotti. Ma il barone Ungern, seduto a occhi chiusi, ripeteva: «Più veloce! Più veloce!» (p. 186 s.).
Benché avesse dotato Urga di una rete di illuminazione, del telefono e di una stazione telegrafica, di un servizio di autobus, creato ospedali, aperto scuole e protetto il commercio, il regime di terrore da lui imposto, e che gli valse il soprannome di "barone sanguinario", finì per alienargli le simpatie del popolo, per cui fu presto sconfitto (1921) da forze congiunte di russi sovietici e di rivoluzionari mongoli, e (come alcune "profezie" gli avevano preannunciato) ucciso, a Novonikolaevsk (Novosibirsk). Nello stesso anno, anche ciò che restava delle forze militari "bianche" in Mongolia fu definitivamente sconfitto e annientato. Ricerche storiografiche recenti hanno portato alla publicazione di indagini e di una biografia di Ungern (scritta da L. Iouzéfovitch) e confermato cose che nelle memorie di O. potevano sembrare frutto di incontrollata fantasia.
Non meno interessante, per capire il mondo culturale e religioso del periodo, è un'altra singolare e misteriosa figura che giocò un importante ruolo, nella storia della autonomia della Mongolia degli anni 1911-19: quella del cosiddetto "lama vendicatore" Luvsan Dambidjantsan o Dja Lama. Il "lama vendicatore" comparve a O. indossando un banale cappotto di montone e un berretto con paraorecchi di pelle di daino e, appeso alla cintura, un grande pugnale; ma il banale soprabito celava una
meravigliosa tunica di seta, gialla come oro zecchino e stretta in vita da una fascia d'un blu brillante. Il suo volto accuratamente rasato, i capelli corti, il rosario di corallo rosso nella mano sinistra e la sua veste gialla, dimostravano chiaramente che eravamo al cospetto di un lama di "alto rango" con una Colt infilata nella fascia blu (p. 99).
Il Dja Lama era un calmucco russo [cioè appartenente al gruppo mongolo migrato verso occidente e stabilitosi negli Urali e sulle rive del Volga], che a causa della sua attività a favore dell'indipendenza del popolo calmucco, aveva conosciuto molte prigioni russe sotto lo zar e, per la stessa ragione, era stato incluso nel libro nero dei bolscevichi. Era fuggito in Mongolia e presto s'era conquistato una posizione di grande influenza tra i mongoli. Non c'era di che meravigliarsi, perché era amico intimo e pupillo del Dalai Lama che viveva nel suo palazzo di Lhasa, il Potala, era il più dotto dei lamaisti, un vero sapiente, e un famoso dottore e taumaturgo. [?] Il suo potere era irresistibile, basato su una scienza misteriosa e segreta [?e] in gran parte sul terrore che ispirava ai mongoli. Chiunque disobbediva ai suoi ordini periva. Il malcapitato non sapeva mai il giorno o l'ora in cui, nella sua yurta o mentre galoppava nelle pianure, sarebbe apparso il potente e misterioso amico del Dalai Lama. Una coltellata, una pallottola o dita d'acciaio che gli stingevano il collo in una morsa facevano giustizia secondo i piani di quell'operatore di miracoli (p. 100 s.).
Con qualche sconcerto, O. assistette a una sorta di seduta di ipnosi da spettacolo in cui il lama, per pura dimostrazione dei suoi "poteri", piantò un coltello nel petto di un malcapitato pastore, il quale stramazzò a terra coperto di sangue, mentre nel torace aperto si potevano osservare i polmoni che respiravano e il cuore che palpitava. Dopo di ché tutto tornò in ordine, col pastore che dormiva tranquillamente e il lama che «seduto immobile davanti al braciere, fumava la pipa e fissava le braci immerso in profondi pensieri» (p. 102). O. offre la sua modesta interpretazione "razionale" in termini di suggestione, ma non sarebbe stato quello il solo dei fenomeni "paranormali" che lo avrebbero coinvolto nel suo errare in quella terra ricca di "bestie, uomini e dèi".
Il Dja Lama viene descritto circondato da timore e profonda venerazione, capace di legare a sé ricchi e poveri con i suoi miracoli e profezie. Per questo, la leggenda voleva che egli fosse stato capace, al tempo dell'insurrezione (1911-12), di guidare alla vittoria i mongoli male armati e male organizzati, facendo visualizzare loro uno stato di eterna beatitudine dopo la morte. Nel corso di una furiosa battaglia essi morirono sì a centinaia, ma annientarono e uccisero tutti i cinesi, mettendo così fine alla loro dominazione e liberando anche il Bodgo Khan, il quale dette al Dja Lama il titolo di "Principe della religione". Il "paradiso" mongolo-buddhista presentato dal lama vendicatore, coerente con le sue affermazioni sui "poteri", ci offre materiale di riflessione sulla inculturazione del buddhismo in Paesi in cui lo sciamanismo restava (e forse resta tuttora) una presenza viva e significativa. Secondo le parole del "lama vendicatore",
Voi europei non volete ammettere che noi nomadi ignoranti possediamo i poteri della scienza del mistero. Se solo poteste vedere i miracoli e il potere del Santissimo Tashi Lama, allorché al suo comando lampade e candele davanti all'antica statua del Buddha si accendono da sole e le icone degli dèi cominciano a parlare e profetizzare! (p. 102).
Nonostante queste sue convinzioni e i suoi poteri fuori del comune, il Lama si stava avviando a una infausta fine. La storica russa Inessa Lomakina, quasi a protestare contro la pressoché totale cancellazione del nome del Dja Lama dalla storia mongola, ha recentemente (1995) pubblicato un volume sul personaggio, fornendo molte notizie su di lui e, in particolare, sul compimento del suo tragico destino. Inviso ai russi, che malvedevano l'apparizione di questo eroe nazionale, egli fu arrestato e inviato ad Astrakhan, da dove riuscì tuttavia a fuggire e a tornare di nuovo in Mongolia, forse sperando di riappropriarsi delle terre e dei titoli di cui era stato privato. Ma, ormai superato dagli eventi, egli fu presto costretto a ritirarsi in una sorta di fortezza nel deserto di Gobi, ove gli agenti comunisti gli tesero un tranello, riuscendo ad assassinarlo nel 1922-23. La sua testa, mummificata, in cima a una picca fu esibita in giro per la Mongolia, per convincere tutti che il leggendario e invincibile lama era stato finalmente sconfitto e ucciso. Vladimir Kazakievitc, un orientalista russo, buon conoscitore della realtà cinese e mongola, riuscì a trasportare la testa a San Pietroburgo, prima di essere egli stesso processato e assassinato poi dal regime, nel 1937, sospettato di spionaggio in favore del movimento panmongolo fomentato da Tsiben Djamtsarano (buriata, anch'egli giustiziato nel 1938 sotto l'accusa di essere una spia al servizio dei giapponesi). La Lomakina, avuto, sia pure con difficoltà e per brevissimo tempo, accesso agli archivi del KGB, ha potuto ricostruire questi avvenimenti e vedere la testa mummificata nel Museo etnografico di San Pietroburgo.
L'ultimo dei grandi personaggi incontrati da O. su cui vorrei ora soffermarmi, fu l'ottavo Bogdo Khan, la personalità guida del buddhismo mongolo, nel periodo che stiamo considerando.
I rapporti tra i buddhisti tibetani e mongoli sono stati, come è noto, assai stretti nel corso del tempo e il sistema del riconoscimento delle reincarnazioni ha portato a reciproci accreditamenti e scambi tra i leader religiosi delle due etnie. Il titolo stesso di Dalai (cioè "Oceano", in mongolo: Ta-le) Lama, va ricordato, fu dato a Sonam Gyatso (1543-1588), leader dell'ordine Gelukpa, dal mongolo Altan Khan, discendente di Gengis Khan. D'altra parte, era riconosciuto che lama reincarnati fossero nati in Mongolia, come nel luminoso esempio di Javsandamba Zanabazar (1635-1723). Questo, a 15 anni, si recò a Lhasa ove fu discepolo del primo Panchen Lama e successivamente riconosciuto, dal quinto Dalai Lama, reincarnazione dell'Hutukhtu [cioè capo spirituale; titolo simile a quello di un vescovo cattolico] Jebtsun Damba. Zanabazar (chiamato dal popolo Undur Gheghen, cioè Grande santo), scultore e diplomatico, è a buon diritto considerato fondatore dell'arte mongola e, ancora oggi, a Ulan Bator è possibile ammirare un'eccellente raccolta delle sue opere.
La vita dell'VIII Bodgo Khan non fu quella che si può dire una vita tranquilla. Egli era tibetano, proveniente
da una famiglia povera dei dintorni di Sakkia Kure, nel Tibet occidentale. Sin dalla prima giovinezza palesò una natura tempestosa e poco equilibrata. Era infiammato dall'idea dell'indipendenza mongola e ardeva dal desiderio di rendere nuovamente gloriosi i discendenti di Gengis Khan. Ciò gli guadagnò grande influenza sui lama, i principi e i Khan della Mongolia, e destò anche l'interesse del governo russo che cercò sempre di averlo dalla sua parte (p. 220).
Secondo le testimonianze e le confidenze raccolte da O., la politica autonomistica del Bodgo Khan gli valse l'ostilità non solo dei cinesi, ma anche del Dalai Lama: nell'uno e nell'altro caso ci sarebbero stati complotti e tentativi di avvelenamento, risoltisi invece, grazie a un'attenta e sempre attiva vigilanza della corte, con la morte degli attentatori. Il Bodgo Khan, scrive O.,
viene immediatamente a conoscenza anche della più insignificante cospirazione ordita ai suoi danni e di solito la persona che l'ha in tal modo offeso viene amabilmente invitata ad Urga, da cui non riparte più viva (p. 221).
Questo era dunque, al tempo della permanenza di O., il "Buddha vivente", che viveva nel suo palazzo di Urga (il cosiddetto "Palazzo d'inverno del Bodgo Khan"), attorniato da 60.000 monaci, di ogni età e di ogni rango, e da «folle di taumaturghi minori, profeti, stregoni e medici miracolosi» (p. 179). Grande visionario e nazionalista, ma personalità discutibile (secondo O. era divenuto padre con l'intento di assicurare un discendente al sacro trono di Gengis Khan; dedito al sesso e all'alcool, al pari di «sua moglie che beveva come lui e riceveva in sua vece numerose delegazioni e inviati speciali», p. 199); reso quasi cieco dall'alcool o dalla sifilide; responsabile "a detta di O." della eliminazione dei lama che, alla fine, avevano progettato di avvelenarlo per insediare al suo posto un altro Buddha incarnato. Pur nella difficoltà di procedere a serie verifiche storiche di queste affermazioni, i resoconti di O. ci offrono l'occasione di riflettere sul sistema del "riconoscimento" e della successione dei reincarnati/Buddha viventi, nonché sugli intrighi delle corti teocratiche, sia per quanto riguarda la Mongolia sia per il Tibet, e la stessa sequenza dei Dalai Lama tibetani (ricordando le vicende del VI, «poeta e libertino», come scrive S. Batchelor, e quelle dei successivi IX, X, XI, XII, tutti morti bambini o adolescenti, probabilmente avvelenati).
Sul sottofondo sciamanico sul quale si è venuto costruendo l'impianto culturale buddhista si colloca il fenomeno della divinazione e degli oracoli, presente ancora oggi nel buddhismo dell'Asia centrale, fenomeno poco noto in Occidente, nonostante la diaspora tibetana. O. ci dà informazioni di prima mano di varie divinazioni e delle capacità oracolari e delle "trance" dello stesso Bogdo Khan. Anche in questo caso, per assolvere il libro di O. dall'accusa di offrirci una realtà romanzata, è opportuno rimandare, oltre a quanto possiamo leggere nell'Encyclopædia Universalis francese e nell'Encyclopædia Britannica, alle dirette testimonianze che J. F. Avedon (1985) e A. Terrone (1995-96) ci offrono sulla vita e sulle possessioni dei più recenti oracoli tibetani. In Bestie, uomini, dèi, O. racconta di una "seduta" (del 17 maggio 1921) nella quale il Bodgo Khan, dopo essere uscito dal suo "santuario privato", riferì della sua enigmatica "visione" affidandola solennemente all'interpretazioni dei suoi, con queste parole:
Io, Bodgo Utuktu Khan, questo ho visto parlando con il grande e saggio Buddha, circondato dai dèmoni buoni e da quelli maligni! Saggi Lama, Hutuktu, Kampo [abate o laico di alto rango religioso], Maramba [dottori in "teologia"], e Santi Gheghen [giusto, santo], date il vostro responso sulla mia visione (p. 223).
Questa e altre simili "profezie" risultano ovviamente o così ambigue da essere lasciate alle motivazioni e alla fantasia dei vari interpreti o, più esplicitamente, contengono ammonimenti o previsioni di sciagure (Fatima e Medjugorje insegnano!): in ogni caso, si tratta di fenomeni che, pur dovendosi certamente riportare al contesto culturale in cui si producono, rappresentano forme di spiritualità che non possono non apparire "arcaiche" rispetto all'insegnamento del Buddha e alla pratica della focalizzazione sul vissuto presente, senza fughe nel passato o nel futuro.
Ancor più stupefacenti sono le connessioni che O. ci rivela tra questi modi di inculturazione del buddhismo in Mongolia e la tradizione di un misterioso centro iniziatico situato in un Regno sotterraneo (posto nell'Asia centrale, in Tibet, in Mongolia, nel deserto di Gobi?), sviluppantesi attraverso una rete planetaria di gallerie e a capo del quale è collocato il cosiddetto Re del mondo. In risposta alle richieste di informazioni, Gelong Lama diceva a O.:
Più di sessantamila anni fa un santo scomparve nel sottosuolo con un'intera tribù e non riapparvero mai sulla faccia della Terra. Tuttavia, da allora, molte persone hanno visitato quel regno: Sakismuni, Undur Gheghen, Khan Baber e altri ancora. Nessuno sa dove si trovi questo luogo. Alcuni dicono in Afghanistan, altri in India. Tutti coloro che vivono nel regno sotterraneo sono salvi dal Male ed entro i suoi confini il crimine non alligna. La scienza ha potuto svilupparsi pacificamente e non esiste minaccia di distruzione. Il popolo sotterraneo ha raggiunto le vette della conoscenza. Oggi è un grande regno popolato da milioni di uomini e il Re del mondo è il loro sovrano. Egli conosce tutte le forze della natura, legge in tutte le anime umane e nel grande libro del loro destino. Egli governa non visto ottocento milioni di uomini sulla superficie della Terra ed essi seguono ogni suo ordine (p. 228).
Il lama bibliotecario del Bogdo Khan precisava poi che il Re del mondo è colui che sta al cospetto di Dio, ne vede il volto e, quando i tempi saranno maturi, si paleserà a tutti per guidare i buoni contro i cattivi; ma questo tempo non è ancora giunto perché il più malvagio degli umani non è ancora nato. Eccoci dunque in presenza di un vero racconto escatologico, in cui trova posto anche la figura di un qualche misterioso "anticristo" (buddhista?). E il libro si conclude proprio con il racconto, fatto dall'Hutuktu di Narabanchi, di una profezia lasciata dal Re del mondo nel 1890 (sic!), riguardante il mezzo secolo che cominciava allora: dopo la previsione delle sciagure (che in verità non sono mancate nella prima metà del Novecento!), viene l'annuncio di una nuova vita sulla Terra purificata dalle distruzioni, finché poi «le genti di Agharti lasceranno le loro caverne e appariranno sulla superficie della Terra» (p. 237).
Un frutto insperato che il libro di O. produsse, e che non può non essere qui ricordato, fu quello rappresentato dall'interesse che, nel 1924 (data della edizione francese, pubblicata a Parigi dalla Librairie Plon), il libro suscitò in René Guénon (1886-1951), al quale il racconto sul "mistero dei misteri" non passò inosservato. Guénon, filosofo studioso di esoterismo e di "metafisica tradizionale", comprese che dietro le estemporanee narrazioni di O. (veritiere, ma, non dobbiamo dimenticare, opera di una persona in fuga con la preoccupazione primaria di salvare la propria vita: «egli era sicuramente incapace di andare di là dalla lettera e di vedere in quanto gli veniva detto qualcosa di più del significato più immediato», secondo le parole di Guénon, p. 70) si intravedeva un'antica dottrina "tradizionale", di cui si trovano espressioni diverse in differenti contesti culturali. Se per "tradizione" intendiamo la trasmissione (orale/scritta/rituale) di un insieme di mezzi consacrati che promuovano/facilitino la presa di coscienza di principî di carattere universale, è possibile individuare alcune grandi forme tradizionali, limitate nel numero anche se espresse con numerose varianti. Guénon, su questa base, compose un saggio di grande interesse, Le Roi du Monde, il cui obiettivo era quello di riannodare i lacci che legano la memoria del regno sotterraneo chiamato Agarttha o Agarthi (cioè imprendibile, inaccessibile, inviolabile) con molte altre espressioni mitiche e simboliche della stessa "realtà": il Monte Meru, il Monte Olimpo, Atlantide, il Paradiso (dal sanscrito Paradesha, col significato di contrada suprema), Shambhala, la Terra pura, la Terra santa, nonché il mozzo immobile del Dharmachakra, l'Albero della vita o del mondo, il Tabernacolo, il Tempio, il Graal, etc. Carattere comune è la perdita o la scomparsa, come quella del Regno divenuto nascosto e sotterrano 6000 anni fa, all'inizio del Kali-Yuga o dell'Età del ferro, e che tornerà a palesarsi al termine di tale età di oscuramento, confusione e perdita della tradizione: di qui attesa, itinerari iniziatici volti al ritrovamento, etc. Guénon, in questo saggio, che oggi potremmo chiamare di psicologia archetipica, conclude, dall'esame delle diverse tradizioni, che esiste un "prototipo" di centro spirituale (una Terra santa per eccellenza) a cui tutti gli altri sono subordinati e che ha trovato espressioni simboliche spaziali (sanscrito: loka; latino: locus) o temporali (cicli successivi):
per noi i fatti geografici [corrispondenti a un simbolismo spaziale] e quelli storici [corrispondenti a un simbolismo temporale] hanno, come tutti gli altri, un valore simbolico che, del resto, non toglie nulla della loro realtà propria in quanto fatti, e anzi conferisce loro, oltre a questa realtà immediata, un significato superiore (p. 110).
L'ambigua oscillazione tra il realistico e il simbolico non può certo essere sciolta qui, ma la testimonianza di quanto la tradizione del re del mondo (la cui "realtà" era vista certificata da reliquie, prodigi, "apparizioni"?) fosse centrale e viva per i semplici pastori, per i lama e per lo stesso Bogdo Khan, fa capire che la dottrina e i simboli buddhisti finissero per essere "ai loro occhi" solo un'immagine di quella del mondo occulto: del resto, la funzione ordinatrice e regolatrice attribuita al Re, ove rex è parola che ha la stessa radice di regere, non coincide forse con quella del Dharma, la cui radice dhri esprime l'idea di reggere e sostenere?
Conclusa la lettura del libro di O., sorge la domanda sul seguito dell'avventura: cosa accadde in Mongolia dopo che, finalmente, O. poté raggiungere Pechino? Che ne è stato del buddhismo in quella terra?
Abbiamo visto come il barone Ungern von Sternberg avesse guidato vittoriosamente l'armata bianca contro i cinesi; ben presto, tuttavia, il dominio russo si rivelò non meno brutale di quello cinese, per cui i gruppi nazionalisti, liberali e rivoluzionari videro con favore l'avanzare dei russi bolscevichi che conquistarono la capitale nel luglio 1921, dando luogo alla formazione di un governo "popolare", conservando, almeno formalmente, il Bogdo Khan come capo dello Stato. Alla morte del Bogdo Khan Zavzandamba (1924), fu però proclamata la Repubblica popolare mongola e il Partito del popolo divenne il Partito popolare rivoluzionario mongolo. Il nuovo potere vietò che si procedesse al riconoscimento di nuovi reincarnati e la Mongolia divenne il primo Paese, dopo la Unione sovietica, in cui fu instaurato un regime comunista. Si avviò così la triste sequenza di totalitarismo, collettivizzazioni, carestie e persecuzioni, purghe degli stessi capi rivoluzionari: si calcola che sotto il regime sia stato eliminato il 3% della popolazione, tra cui varie decine di migliaia di monaci (20.000 assassinati e molte altre migliaia imprigionati o inviati in campi di lavoro da cui non fecero più ritorno): il ritrovamento di fosse comuni ha purtroppo confermato quello che era già conosciuto o sospettato. Ad es., in una fossa scoperta a Mörön, vicina al confine con l'ex-URSS, sono stati ritrovati i resti di circa 5.000 monaci e, in una intervista (della BBC) al capo della squadra di sterminio dell'epoca, questo ha raccontato: «Li facevo ammucchiare su un camion e li facevo stendere, mentre venivano passati per le armi. Non c'era giustizia in Mongolia allora: la maggioranza di quelli giustiziati non aveva commesso alcun crimine». Tutto ciò ha fatto sì che in pochi decenni il buddhismo fosse quasi completamente sradicato. Se Damdiny Sukhebatar (1893-1923, liberatore della capitale Urga, che in suo onore fu chiamata Ulaan Baatar o Ulan Bator, cioè "eroe rosso"), era detto il "Lenin mongolo", dopo la sua morte (prematura, forse per veleno dei controrivoluzionari), il suo successore come segretario del Partito, Tseren-Ochiryn Dambadorj, fu esiliato a Mosca e, nel 1928, su pressione sovietica la leadership passò a Khorloghin Choibalsan (1873-1952), considerato lo "Stalin mongolo". Muovendosi nell'orbita sovietica, la Mongolia fu certamente protetta da una possibile invasione giapponese nel 1941, e nel dopoguerra ha dovuto faticare per vedere riconosciuta la sua indipendenza, che fu poi internazionalmente sancita dall'ammisione alle Nazioni Unite nel 1961. Sovietizzata pesantemente sul piano politico, militare, economico e culturale, con la caduta dell'impero sovietico la Mongolia ha cominciato un lento processo di democratizzazione e liberalizzazione. Come molti altri paesi ex-comunisti, anche la Mongolia ha visto alternarsi i successi elettorali della Coalizione democratica (comprendente il Partito nazionale democratico mongolo e il Partito socialdemocratico mongolo) e degli ex-comunisti del PPRM, tanto che nelle ultime elezioni (luglio 2000) questi ultimi hanno conquistato il 50,2% dei voti e il 94,7% dei seggi.
Dopo gli anni della repressione è cominciata anche una nuova fioritura della vita religiosa, che ha visto la riapertura e la ricostruzione di monasteri e centri religiosi. Se confrontiamo i dati del 1921 (100.000 lama e 700 monasteri) con quelli attuali, le differenze sono davvero sconcertanti (1000 lama e 90 templi e monasteri, alcuni consistenti semplicemente in una yurta). Il monastero di Gandantegchinlen a Ulan Bator è il maggiore esistente, vi risiedono circa 150 monaci e vi opera una sorta di Università buddhista. Nell'ambito di questo risveglio va ricordato che esistono oggi anche una moschea (esiste una minoranza islamica di kazaki nella provincia occidentale di Bayan Ulgii), alcuni luoghi di culto Bahai e varie chiese cristiane (con circa 15.000 convertiti al cristianesimo).
Dopo la morte dell'VIII Bogdo Khan, a seguito del divieto di riconoscere altri reincarnati, si dovette attendere il 1991 perché il Dalai Lama proclamasse Sonom Dargia IX Djebtsun Damba o Bogdo Khan. Si tratta ancora una volta di un tibetano, la cui identità era rimasta segreta dall'epoca del suo riconoscimento come reicarnato (all'età di 4 anni); oggi egli ha l'età di 30-40 anni e dal 1990 vive a Dharamsala, vicino al Dalai Lama. Un certo imbarazzo ha suscitato una sua recente visita, semiclandestina, in Mongolia, secondo quanto riferisce il World Tibet Network News (04 01 2000), proprio in coincidenza (casuale?) con la visita di Stato del presidente cinese Jiang Zemin. Ci si è domandati: la Mongolia, se il Bogdo Khaan tornasse a risiedervi, dovrebbe di nuovo diventare una monarchia teocratica? Il Dalai Lama, per quanto riguarda il Tibet, ha dichiarato che egli stabilirebbe/accetterebbe un governo democratico nel caso di un ritorno nel suo Paese; ma il Bogdo Khaan è pronto allo stesso passo? A ogni buon conto, il Dalai Lama ha dichiarato di aver richiamato il IX Bogdo Khan a Dharamsala e di non volersi immischiare negli affari interni della Mongolia, tanto più che se, da un lato, il clero e i fedeli buddhisti hanno riservato al Bogdo Khan un'accoglienza entusiastica, dall'altro, una parte dell'opinione pubblica non sembra disposta a riconoscerlo come reincarnato e tanto meno come possibile capo del Paese.
Se cerchiamo, infine, di immaginare il futuro della Mongolia, dopo gli oracoli e le visioni di cui O. ha ampliamente riferito nel suo Bestie, uomini, dèi, possiamo riferirci a una moderna "profezia" o, come sembra più opportuno dire, alla "previsione" dello scrittore e saggista tedesco Hans Magnus Enzensberger: quella secondo la quale le lotte future per la redistribuzione si scateneranno intorno a priorità del tutto diverse dalle attuali:
Scarse, rare e desiderabili nell'epoca dei crescenti consumi non saranno né le veloci automobili né gli orologi d'oro, le cassette di champagne, i pullover di cashmere e così via. Cose che si possono comprare a ogni angolo di strada chic. Lo saranno invece i presupposti elementari della qualità della vita, come l'acqua e l'aria pulita, la tranquillità e i grandi spazi (Corriere della sera, 12 01 1998).
Tempi meno incalzanti, disponibilità di maggiori spazi, assenza della quotidiana guerra civile molecolare, silenzio e serenità, aria pulita e acqua pura? Se, e sono ormai in molti a pensarlo, questo configurerà la fisionomia della nuova opulenza, la Mongolia potrebbe tornare a rappresentare una terra di sogno: questa volta come una realistica, ecologica, postmoderna Shambhala?
BibliografiaIl libro di O. è stato ripubblicato in una nuova edizione, a cura di Gianfranco De Turris e con prefazione di Julius Evola: Ferdinand A. Ossendowski, Bestie, uomini, dèi, tr. it., Roma, Ed. Mediterranee, 2000.
Per il prezioso e dotto libro di Guénon, v.: René Guénon, Il re del mondo, tr. it., Milano, Adelphi, 2000
Per un orientamento generale sulla Mongolia, ottima la guida di Paul Greenway, Robert Storey, Gabriel Lafitte, Mongolia, Hawthorn (Australia), Lonely Planet, 1997.
L'opera classica che celebra i giorni gloriosi della storia mongola al tempo di Gengis Khan, composta da un anonimo estensore del XIII secolo, è la Mongol-un Nigucha Tobchiyan, della quale esiste una traduzione italiana, con introduzione di Fosco Maraini: Storia segreta dei mongoli, tr. it., Parma, Guanda, 1989; una buona panoramica sulla storia dell'Asia centrale è offerta da: Gavin Hambly (a cura di), Asia centrale, tr. id., Milano, Feltrinelli, 1970 ("Storia universale Feltrinelli, vol. 16").
Nel volume: A. t'Serstevens (a cura di), I precursori di Marco Polo, tr. it., Milano, Garzanti, 1962 sono riportati alcuni antichi resoconti di viaggi, tra cui quello del francescano Giovanni da Pian del Carpine, inviato in Asia da Innocenzo IV nel 1245: le sue descrizioni di usanze, abitazioni, cibi risultano di estremo interesse e mostrano quanto essi si siano conservati nel corso dei secoli. Sulla leggenda del prete Gianni, e sui suoi nessi con il mito del regno sotterraneo, preziosa è La lettera del prete Gianni (a cura di G. Zaganelli), Parma, Pratiche Editrice, 1990.
Un reportage recente su peregrinazioni asiatiche (anche in Mongolia) del giornalista-viaggiatore Tiziano Terziani è nel vol. Un indovino mi disse, Milano, Longanesi, 1995, p. 338 s.
Sul buddhismo in Mongolia (e per qualche rimando al Tibet):
Inder L. Malik, Dalai Lamas of Tibet, Succession of Births, New Delhi, New United Process, 1984;
John F. Avedon, In Exile from the Land of Snows, Londra, Wisdom 7Publication, 1985;
Stephen Batchelor, The Tibet Guide, Londra, Wisdom Publication, 1987;
Joseph M. Kitagawa, Mark D. Cummings (a cura di), Buddhism and Asian History, New York, Macmillan Publ. Co., 1989;
Inessa Lomakina, Golova Da-Lamijj [La testa del lama], Ulan-Ude [Buriatia]-San Pietroburgo, Ecoart Agency, 1995;
A. Terrone, gNas Chung, l'oracolo di Stato tibetano, tesi non pubbl., Napoli, Ist. univ. orientale, 1995-96.
Bruno Portigliatti, Mongolia: at the Border of Time, «The Middle Way», 1999, 74, n°3, pp. 159-61.
Sull'opera di Zanabazar, v. la monografia di N. Tsulten, G. Zanabazar, éminent sculpteur mongol, Ulan Bator, Section de la publication d'État, 1982.
Sul canto difonico o armonico, v. il CD: Inédit Mongolie, Maison des cultures du monde, Auvidis, W260009, nonché il vol. di Roberto Laneri, La voce dell'arcobaleno, in corso di pubblicazione.
Tra i molti siti Internet sulla Mongolia, segnalo:
uno di informazioni generali:
http://boojum.com/mongolia.html molto ricco di immagini e link;
quello del Ministero degli esteri del governo mongolo:
http://www.extmin.mn/
un magazine on line:
http://www.mongoliatoday.com/
infine, la home page e il bollettino dell'Association ANDA (Centre d'études mongoles et sibériennes, Université de Paris X):
http://www.anda-mongolie.org/
http://www.anda-mongolie.org/bulletin/index.htm
su Gengis Khan (da J-N Robert):
Inoue Yasushi, Le loup bleu, Éd. Icquier
Paul Pelliot, Histoire de G. K.
Michel Hoang, Gengis Khan, Fayard
René Grousset, Conquérant du monde
BOX: MONGOLIASuperficie (in km2): 1.565.000 (Italia: 301.277) Popolazione (in milioni): 2,41; densità (ab./km2): 1,5 (Italia: 57,19; 189,8) La lingua è il mongolo, appartenente alla famiglia linguistica uralo-altaica (cui appartiene anche il turco). La scrittura tradizionale (Kümün bicic o scrittura umana) è basata su un alfabeto che è stato sostituito dall'alfabeto cirillico esteso (per suoni particolari); la traslitterazione in caratteri latini, fatta secondo criteri diversi, ha portato a risultati grafici differenti che spesso generano incertezze. Come segno di indipendenza culturale dall'influenza russa si è di recente proposto di tornare all'uso dell'antico alfabeto, ma a causa delle difficoltà e dei costi di questa riconversione le cose sono rimaste quasi immutate, con una digrafia che di fatto vede la scrittura in cirillico come scrittura corrente e quella mongola usata con funzione grafica, ornamentale, commemorativa.
ULAN BATOR
Capitale della Mongolia, conta circa 600.000 abitanti. Denominata in passato Takure o Niislel Khüree [grande accampamento/monastero] o Urga [cappio usato dai nomadi], avrebbe avuto questo nome o perché sorge in un cappio formato da tre catene di montagne o in riferimento a una sorta di diritto di prendere con l'urga i cavalli di mandrie altrui da parte dei nomadi. Il nome attuale, Ulaan Baatar o Ulan Bator [eroe rosso], le è stato dato in onore di Sukhebatar.
Per secoli "città nomade", oltre i palazzi governativi di epoca sovietica e le case di abitazione (che ricordano le squallide periferie urbane occidentali) si distendono ancora gli accampamenti costituiti dalle yurte o ger, per cui risulta "une ville de façade" (come mi disse una giornalista europea). Paradossalmente, la "modernizzazione" è avvenuta attraverso l'influenza sovietica e di questa ha conservato traccia indelebile. Il giornalista e viaggiatore Tiziano Terziani scrive in proposito: «Ulan Bator mi apparve una città giocattolo, data come un regalo di Natale da un genitore generoso al figlio per convincerlo del suo amore. E un pò era così. La rivoluzione aveva insegnato anche ai mongoli a disprezzare il loro passato, a vergognarsi della loro vecchia cultura e a sognare di essere "moderni": moderni come i sovietici con i quali la rivoluzione era appunto arrivata. Il simbolo della modernità era la città e quindi anche i mongoli, nomadi, pastori, uomini della steppa, abituati a vivere negli accampamenti di yurte, dovevano averne una. Gliela dettero i sovietici: con le strade enormi, con i grandi palazzi bianchi e gialli, con un mausoleo per l'eroe nazionale, fatto dello stesso marmo e della stessa forma, messo nella stessa posizione di quello di Lenin a Mosca, con un museo, i palazzi pubblici pieni di colonne che non reggono nulla, con un Palazzo della cultura che è una specie di Partenone appoggiato sopra un Colosseo, con le case popolari messe a schiera, e i supermercati dalle vetrine e dagli scaffali vuoti, ma con lo stesso identico odore di quelli sovietici» (1995, p.338 s.).
Sulla grande piazza Sukhbaatar, di fronte alla Casa del Parlamento, nel mausoleo in stile sovietico riposano i resti di Sukhbaatar e di Choibalsan.
Il Museo d'arte Zanabazar contiene un'eccellente collezione di opere di questo famoso artista, mentre nel Museo di storia naturale si possono ammirare, tra i molti reperti, due enormi scheletri di dinosauri provenienti dal Gobi.
Tra i monasteri, oltre al Gandantegchinlen Khiid, di grande interesse sono il Monastero-museo (sotto questa forma fu risparmiato negli anni della repressione) Choijin Lama, dimora del fratello dell'VIII Bogdo Khan (vi sono conservate opere di Zanabazar, thanka e maschere del teatro rituale), e il suggestivo Palazzo d'inverno, residenza del Bogdo Khan, visitando il quale ci si può sforzare di immaginarvi le scene descritte da O.
Un carro armato-monumento è dedicato all'amicizia mongolo-sovietica, cui il Paese deve la recente difesa della sua indipendenza (II conflitto mondiale).
KHARKHORIN o KARAKORUM
Situata a sudovest di Ulan-Bator era la capitale dell'impero di Gengis Khan. Oggi è visitata perché conserva quel che resta del monastero Erdene Zuu Khiid [Monastero dei cento tesori].
GOBI
Il deserto del Gobi non tradisce le aspettative dell'immaginario del visitatore che lo vuole luogo quasi inaccessibile, misterioso e mistico. Occupa circa un terzo della superficie del paese (sud e sud-est della Mongolia, estendendosi poi anche nella Mongolia interna cinese). La parola mongola gobi designa larghi bacini chiusi, con un fondo pietroso. Le dune e le distese sabbiose sono relativamente rare, essendo il territorio prevalentemente costituito da una superficie alluvionale accidentata da rilievi rocciosi e canyon, e dove è possibile incontrare ruscelli e laghetti. Vi vivono numerose specie animali e vegetali. Uova di dinosauri e altri fossili sono di non difficile reperibilità.
Una linea aerea assicura frequenti collegamenti, specie dell'Ömnögov (Gobi-sud) con la capitale. È possibile pernottare in accampamenti di ger (yurte) ricordando che la temperatura scende in inverno sotto i 30°C e che le notti estive sono molto fredde.
VITA
Il cibo tradizionale è da pastori, a base di carne di pecora, capra, montone, formaggio secco salato, etc.; la vita per i vegetariani è difficile; meglio dimenticare il sapore del tè (tsai) cinese o giapponese (quello locale, qualità a parte, è servito salato e col tipo di latte disponibile); apprezzato chiamare la vodka col suo nome mongolo, arkhi.
Caratteristico della Mongolia (e aree limitrofe) è il canto difonico (khoomi), basato sugli armonici (canto che attualmente comincia a essere conosciuto e praticato anche in Occidente).
Ritorna in libreria, dovremmo dire torna ancora una volta in libreria, il libro di Ossendowsky: Bestie, uomini, dèi. La spiegazione di questo ritorno non è difficile perché il libro possiede molteplici motivi di interesse e più di un ingrediente che lo rende appetibile a molti palati.
Innanzitutto, l'autore: chi era Ferdinand Antoni Ossendowski? Nato a Vitebsk nel 1871, dopo aver studiato chimica e fisica alla Sorbona, O. prese parte alla Esposizione universale del 1900 come esperto della sezione di chimica; specializzatosi in mineralogia, ben presto fu considerato un'autorità in fatto di miniere di carbone ed era ritenuto conoscitore di numerose miniere d'oro siberiane. Durante la guerra russo-giapponese fu alto commissario addetto ai combustibili, agli ordini del generale Kuropatkin; divenne poi consulente scientifico del consiglio superiore della marina e, nel corso della I guerra mondiale, fu inviato in missione speciale in Mongolia, paese di cui ebbe in tal modo l'occasione di apprendere la lingua. Tra i suoi "protettori", troviamo Alexandr Vasilevich Kolchak, l'ammiraglio russo comandante della flotta del Mar Nero durante la I guerra mondiale. Nel 1917, allo scoppio della rivoluzione, Kolchak si dimise dal suo incarico e organizzò in Siberia un esercito controrivoluzionario insediato a Omsk, fondando addirittura un governo che riuscì a porre sotto il suo controllo la Siberia fino agli Urali. Ed ecco che troviamo Ossendowski chiamato come professore al Politecnico di Omsk e, come esperto, a far parte del ministero delle finanze e dell'agricoltura di questo governo siberiano. Dopo qualche successo, Kolchak dovette però registrare una serie di sconfitte, per cui si ritirò a Irkusk, ove nel '21 fu catturato e ucciso dai bolscevichi.
Ossendowski non poteva non rimanere coinvolto nelle alterne vicende di Kolchak. All'inizio del 1920, lo troviamo a Krasnoiarks, in Siberia, e, un giorno, mentre si era recato in visita di un amico, la sua casa fu circondata da soldati rossi, inviati per catturarlo. Fu perciò costretto a una fuga precipitosa: indossata una vecchia tenuta da caccia dell'amico e acquistati strada facendo «un fucile, trecento cartucce, un'ascia, un coltello, un cappotto di montone, tè, sale, gallette e un bollitore», iniziò una incredibile, rischiosissima peregrinazione. Dopo un infelice tentativo di raggiungere l'Oceano Indiano attraverso il Tibet, egli dovette trascorrere molti mesi confrontandosi con gli orrori della violenza e della paura, lottando per sopravvivere e fuggendo attraverso Siberia, Tibet, Mongolia, Manciuria. Giunto finalmente a Pechino, nel giugno 1921, poté successivamente tornare in Polonia, ove, tra il 1921 e il 1922, riordinò i suoi appunti di viaggio e scrisse il racconto delle sue straordinarie vicissitudini, racconto che sarebbe stato rapidamente tradotto e pubblicato in varie lingue. Per concludere sulla sua biografia, va ricordato che, ripreso l'insegnamento, visitò varie regioni dell'Africa (tra cui Senegal, Guinea, Sudan, Costa d'Avorio) dalle quali riportò numerosi esemplari di animali e molteplici oggetti al fine di arricchire le collezioni universitarie. Morì poi a Zólwin, nel 1945, quando il suo Paese si liberava dal giogo nazista per cadere sotto quello sovietico. Oltre a Bestie, uomini e dèi, scrisse L'uomo e il mistero in Asia, Dalla presidenza alla prigione, Fuoco nel deserto, Lenin, etc.
Basterebbe la descrizione dei paesaggi, della natura misteriosa e avversa, dei duri costumi degli abitanti, degli incontri straordinari per far apprezzare il libro, racconto avvincente di avventure e rara testimonianza sulla vita di una delle regioni che restano ancora tra le più impervie, naturalisticamente, culturalmente e linguisticamente: la Mongolia. Anche ai pochi che, come chi scrive, hanno avuto l'occasione di visitarla in tempi più recenti, le parole di O. continuano a suonare veritiere e suggestive:
Nel cuore dell'Asia si trova la sconfinata, misteriosa e ricca Mongolia. Dalle pendici innevate dei Tien Shan e dalle sabbie roventi della Zungaria occidentale ai boscosi contrafforti dei Monti Saiani e alla grande Muraglia Cinese, essa si estende su un'enorme porzione dell'Asia centrale. Culla di innumerevoli popoli, storie e leggende; patria di sanguinari conquistatori che vi hanno lasciato le loro capitali coperte ormai dalle sabbie del Gobi, i loro misteriosi anelli e le antiche leggi dei nomadi; terra di monaci e di dèmoni maligni, di tribù erranti amministrate dai Khan, principi discendenti di Gengis Khan e di Kublai Khan: tale è la Mongolia.
Misteriosa contrada dei culti di Rama, Sakiamuni, Djonkapa e Paspa, culti custoditi dal Buddha vivente, Buddha incarnato nella persona divina del terzo dignitario della religione lamaista, Bogdo Ghenghen a Ta Kure o Urga; terra di misteriosi guaritori, profeti, stregoni, indovini e streghe; patria del simbolo della svastica; paese che non ha obliato i pensieri dei grandi potentati che un tempo regnarono in Asia e metà Europa: tale è la Mongolia.
Terra di nude montagne, di pianure arroventate dal sole e gelate dal freddo, ove regnano le malattie del bestiame e degli uomini, la peste, l'antrace e il vaiolo; terra di sorgenti bollenti e di valichi montani custoditi dai dèmoni, di laghi brulicanti di pesci; terra di lupi, rare specie di cervi e di mufloni, di milioni di marmotte, cavalli, asini e cammelli selvaggi, animali tutti che mai han conosciuto la briglia, terra di cani feroci e di uccelli rapaci che divorano i cadaveri che quel popolo abbandona nelle pianure: tale è la Mongolia.
Patria di genti che stanno scomparendo e guardano biancheggiare al sole le ossa calcinate degli antenati, genti che conquistarono la Cina, il Siam, l'India settentrionale e la Russia, e i cui petti si scontrarono con le lance di ferro dei cavalieri polacchi che difendevano allora la Cristianità dall'invasione della nomade e selvaggia Asia: tale è la Mongolia.
Terra di grandi ricchezze naturali che pure non produce nulla, ha bisogno di tutto, e pare di soffrire di tutti i mali e cataclismi del mondo: tale è la Mongolia (p. 91 s.).
Ma un altro motivo di interesse del libro è costituto dalla cronaca degli avvenimenti politici e dai ritratti dei personaggi che compongono lo scenario sul cui sfondo si disegna il reportagedi O. Non possiamo certo avere la pretesa di riassumere qui la millenaria storia mongola, ma va ricordato che la regione, soggetta da alcuni secoli al dominio della dinastia cinese Qing, nel 1911, allorquando in Cina venne proclamata la Repubblica, i principi mongoli, che non si erano sentiti mai molto legati all'impero cinese, si proclamarono indipendenti. Si venne in quegli anni a delineare un diverso destino per le regioni dell'Asia centrale oggetto delle conquiste manciù: la Mongolia meridionale sarebbe rimasta inglobata nello stato cinese (a costituire la cosiddetta Mongolia interna) al pari dello Xinjiang (Turkestan cinese), mentre la Mongolia esterna conquistava la sua indipendenza (indipendenza che si sarebbe mostrata poi stabile nei successivi decenni) divenendo la repubblica della Mongolia; un terzo gruppo mongolo, più a Nord, rappresentato dagli abitanti della Buriatia, era da tempo assuefatto al dominio russo, appartenendo la Buriatia all'impero siberiano zarista, e la Buriatia sarebbe divenuta regione autonoma della Repubblica federativa sovietica russa e oggi della Russia (in situazione simile alle attigue regioni dell'Altai e di Tuva). Il governo nazionale costituito a Urga, la capitale mongola, ebbe come capo dello Stato una sorta di papa-re: l'influente capo della comunità monastica, l'ottavo Bogdo Khan (1869-1924), di cui diremo oltre. Il Tibet, per parte sua, nel 1913 vedeva il ritorno del XIII Dalai Lama (che si era dovuto recare in esilio, prima in Mongolia e poi in India) e poté procedere alla proclamazione della completa indipendenza dalla Cina.
Sebbene la Cina non rinunciasse alle sue pretese di sovranità, nel 1915 un trattato firmato da Mongolia, Russia e Cina riconosceva l'indipendenza della Mongolia esterna. L'esistenza di uno stato mongolo indipendente poggiava quindi, da un lato, sulla fermezza della popolazione khalkha (la tribù più importante), intransigentemente nazionalistica e orgogliosa del suo passato; dall'altro, sulla posizione di equilibrio trovata nel corso degli anni tra le due grandi potenze rivali, Cina e Russia. Va poi detto che in quegli anni anche un altro fattore si rivelò determinante: la colonizzazione cinese della regione mongola, praticata come ostacolo alla penetrazione russa, aveva finito per portare a una marcata soggezione dei mongoli nei confronti dei cinesi. L'esempio di quanto accadeva nella Mongolia interna rendeva pertanto i khalkha della Mongolia esterna sempre più insofferenti nei confronti dei cinesi, spingendoli verso la Russia, che rappresentava, dopo tutto, un pericolo minore per l'indipendenza della regione. I russi, benché procedessero con molta cautela per la conservazione degli equilibri, concessero prestiti, stipularono accordi militari, fondarono la Banca nazionale mongola e operarono, durante la guerra mondiale, ingenti acquisti di bestiame per l'esercito. Era in quel periodo, come abbiamo detto, che si era svolta la missione di Ossendowski in Mongolia su mandato russo.
La rivoluzione scoppiata in Russia nel 1917 rischiava ora di compromettere seriamente quanto era stato concordato e, infatti, l'Asia centrale vedeva mongoli, cinesi, russi bianchi e russi bolscevichi gli uni contro gli altri in conflitto armato, con opposti, mutevoli, ristretti interessi, ciascuno tessendo intrighi, esercitando violenze e violando accordi. In quei giorni, infatti, i mongoli stavano protestando con grandi agitazioni contro la politica cinese nel loro Paese; i cinesi, pieni di rabbia, intimavano ai mongoli di pagare le imposte per tutto il periodo compreso dal giorno in cui l'autonomia era stata strappata a Pechino; i coloni russi, che si erano stabiliti anni prima nei pressi della città e nelle vicinanze dei grandi monasteri o presso tribù nomadi, si erano divisi in fazioni che si combattevano aspramente (p. 93).
In tale clima, cruento e imprevedibile, O. incontrò alcuni personaggi di indubbio interesse storico e politico, presentati in una forma che ha fatto pensare a una realtà ingenuamente "romanzata", che invece le successive indagini e conoscenze hanno mostrato più attendibile di quanto si potesse immaginare negli anni Venti in Europa.
Uno dei personaggi di rilievo era il barone e generale dell'armata zarista Roman Ungern von Sternberg, custode della tradizione, nemico spietato della sovversione e, per ciò stesso, della rivoluzione russa. Inseritosi nei disordini controrivoluzionari in Siberia e in Asia centrale, egli svolse un'azione decisiva per impedire che la Mongolia esterna facesse la stessa fine di quella interna. Sentendosi una sorta di reincarnazione di Gengis Khan, egli sperava di guidare un movimento nazionalista panmongolo alla liberazione e alla unificazione di tutti i territori abitati dai mongoli, per organizzare poi una sorta di crociata antibolscevica, volta alla liberazione della Russia e all'affermazione dei valori della "tradizione". Costretto a ritirarsi di fronte ai rossi, passò in Mongolia, ove, a capo di un'armata di russi bianchi e di elementi locali, conquistò la capitale Urga, liberò il Bodgo Khan, tenuto agli "arresti domiciliari" dai cinesi, e ne restaurò il potere.
O., conquistatane la fiducia, ricevette da Ungern un aiuto determinante per poter raggiungere Pechino e tornare in patria. Raccogliendone confidenze e propositi, egli ci ha così reso possibile conoscere alcuni aspetti inediti del buddhismo vissuto nell'Asia centrale in quegli anni. Ungern, nel racconto che fa a O., dichiara infatti di avere conosciuto e abbracciato il buddhismo («mio nonno ci fece conoscere il buddhismo di ritorno dall'India e mio padre e io ne facemmo la nostra religione»), praticandolo in modo a dir poco originale:
Ho consacrato la mia vita alla guerra e allo studio del buddhismo [? e] in Transbaikalia ho cercato di istituire l'Ordine militare buddhista per combattere implacabilmente la depravazione rivoluzionaria. [?] Stabilii l'obbligo del celibato, la rinuncia assoluta alla donna, alle comodità della vita, al superfluo, secondo gli insegnamenti della Fede Gialla; e affinché la Russia potesse col tempo dimenticare o domare i suoi istinti, introdussi un uso illimitato di alcool, hashish ed oppio. Adesso, come sapete, non esito ad impiccare ufficiali e soldati che abusano di alcool; ma allora bevevamo fino alla "febbre bianca", il delirium tremens. Mi fu impossibile organizzare un simile Ordine, ma raccolsi intorno a me trecento uomini che ero riuscito a rendere di un'audacia prodigiosa e d'una ferocia senza pari. Poi si comportarono da eroi durante la guerra con la Germania e successivalente nella lotta con i bolshevichi, ma ormai ne sono rimasti ben pochi (pp. 184, 188).
Di grande suggestione "cinematografica" le immagini del generale che, nella notte, sfreccia a bordo di «una enorme Fiat con i grandi fari accesi», tra cavalieri mongoli, buriati e tibetani, soldati russi e, sullo sfondo, nel buio, gli occhi brillanti dei lupi:
Ci ritrovammo nella pianura nella nostra auto che filava come una freccia, con il vento che sibilava e scompigliava i nostri capelli e faceva svolazzare le falde dei nostri pesanti cappotti. Ma il barone Ungern, seduto a occhi chiusi, ripeteva: «Più veloce! Più veloce!» (p. 186 s.).
Benché avesse dotato Urga di una rete di illuminazione, del telefono e di una stazione telegrafica, di un servizio di autobus, creato ospedali, aperto scuole e protetto il commercio, il regime di terrore da lui imposto, e che gli valse il soprannome di "barone sanguinario", finì per alienargli le simpatie del popolo, per cui fu presto sconfitto (1921) da forze congiunte di russi sovietici e di rivoluzionari mongoli, e (come alcune "profezie" gli avevano preannunciato) ucciso, a Novonikolaevsk (Novosibirsk). Nello stesso anno, anche ciò che restava delle forze militari "bianche" in Mongolia fu definitivamente sconfitto e annientato. Ricerche storiografiche recenti hanno portato alla publicazione di indagini e di una biografia di Ungern (scritta da L. Iouzéfovitch) e confermato cose che nelle memorie di O. potevano sembrare frutto di incontrollata fantasia.
Non meno interessante, per capire il mondo culturale e religioso del periodo, è un'altra singolare e misteriosa figura che giocò un importante ruolo, nella storia della autonomia della Mongolia degli anni 1911-19: quella del cosiddetto "lama vendicatore" Luvsan Dambidjantsan o Dja Lama. Il "lama vendicatore" comparve a O. indossando un banale cappotto di montone e un berretto con paraorecchi di pelle di daino e, appeso alla cintura, un grande pugnale; ma il banale soprabito celava una
meravigliosa tunica di seta, gialla come oro zecchino e stretta in vita da una fascia d'un blu brillante. Il suo volto accuratamente rasato, i capelli corti, il rosario di corallo rosso nella mano sinistra e la sua veste gialla, dimostravano chiaramente che eravamo al cospetto di un lama di "alto rango" con una Colt infilata nella fascia blu (p. 99).
Il Dja Lama era un calmucco russo [cioè appartenente al gruppo mongolo migrato verso occidente e stabilitosi negli Urali e sulle rive del Volga], che a causa della sua attività a favore dell'indipendenza del popolo calmucco, aveva conosciuto molte prigioni russe sotto lo zar e, per la stessa ragione, era stato incluso nel libro nero dei bolscevichi. Era fuggito in Mongolia e presto s'era conquistato una posizione di grande influenza tra i mongoli. Non c'era di che meravigliarsi, perché era amico intimo e pupillo del Dalai Lama che viveva nel suo palazzo di Lhasa, il Potala, era il più dotto dei lamaisti, un vero sapiente, e un famoso dottore e taumaturgo. [?] Il suo potere era irresistibile, basato su una scienza misteriosa e segreta [?e] in gran parte sul terrore che ispirava ai mongoli. Chiunque disobbediva ai suoi ordini periva. Il malcapitato non sapeva mai il giorno o l'ora in cui, nella sua yurta o mentre galoppava nelle pianure, sarebbe apparso il potente e misterioso amico del Dalai Lama. Una coltellata, una pallottola o dita d'acciaio che gli stingevano il collo in una morsa facevano giustizia secondo i piani di quell'operatore di miracoli (p. 100 s.).
Con qualche sconcerto, O. assistette a una sorta di seduta di ipnosi da spettacolo in cui il lama, per pura dimostrazione dei suoi "poteri", piantò un coltello nel petto di un malcapitato pastore, il quale stramazzò a terra coperto di sangue, mentre nel torace aperto si potevano osservare i polmoni che respiravano e il cuore che palpitava. Dopo di ché tutto tornò in ordine, col pastore che dormiva tranquillamente e il lama che «seduto immobile davanti al braciere, fumava la pipa e fissava le braci immerso in profondi pensieri» (p. 102). O. offre la sua modesta interpretazione "razionale" in termini di suggestione, ma non sarebbe stato quello il solo dei fenomeni "paranormali" che lo avrebbero coinvolto nel suo errare in quella terra ricca di "bestie, uomini e dèi".
Il Dja Lama viene descritto circondato da timore e profonda venerazione, capace di legare a sé ricchi e poveri con i suoi miracoli e profezie. Per questo, la leggenda voleva che egli fosse stato capace, al tempo dell'insurrezione (1911-12), di guidare alla vittoria i mongoli male armati e male organizzati, facendo visualizzare loro uno stato di eterna beatitudine dopo la morte. Nel corso di una furiosa battaglia essi morirono sì a centinaia, ma annientarono e uccisero tutti i cinesi, mettendo così fine alla loro dominazione e liberando anche il Bodgo Khan, il quale dette al Dja Lama il titolo di "Principe della religione". Il "paradiso" mongolo-buddhista presentato dal lama vendicatore, coerente con le sue affermazioni sui "poteri", ci offre materiale di riflessione sulla inculturazione del buddhismo in Paesi in cui lo sciamanismo restava (e forse resta tuttora) una presenza viva e significativa. Secondo le parole del "lama vendicatore",
Voi europei non volete ammettere che noi nomadi ignoranti possediamo i poteri della scienza del mistero. Se solo poteste vedere i miracoli e il potere del Santissimo Tashi Lama, allorché al suo comando lampade e candele davanti all'antica statua del Buddha si accendono da sole e le icone degli dèi cominciano a parlare e profetizzare! (p. 102).
Nonostante queste sue convinzioni e i suoi poteri fuori del comune, il Lama si stava avviando a una infausta fine. La storica russa Inessa Lomakina, quasi a protestare contro la pressoché totale cancellazione del nome del Dja Lama dalla storia mongola, ha recentemente (1995) pubblicato un volume sul personaggio, fornendo molte notizie su di lui e, in particolare, sul compimento del suo tragico destino. Inviso ai russi, che malvedevano l'apparizione di questo eroe nazionale, egli fu arrestato e inviato ad Astrakhan, da dove riuscì tuttavia a fuggire e a tornare di nuovo in Mongolia, forse sperando di riappropriarsi delle terre e dei titoli di cui era stato privato. Ma, ormai superato dagli eventi, egli fu presto costretto a ritirarsi in una sorta di fortezza nel deserto di Gobi, ove gli agenti comunisti gli tesero un tranello, riuscendo ad assassinarlo nel 1922-23. La sua testa, mummificata, in cima a una picca fu esibita in giro per la Mongolia, per convincere tutti che il leggendario e invincibile lama era stato finalmente sconfitto e ucciso. Vladimir Kazakievitc, un orientalista russo, buon conoscitore della realtà cinese e mongola, riuscì a trasportare la testa a San Pietroburgo, prima di essere egli stesso processato e assassinato poi dal regime, nel 1937, sospettato di spionaggio in favore del movimento panmongolo fomentato da Tsiben Djamtsarano (buriata, anch'egli giustiziato nel 1938 sotto l'accusa di essere una spia al servizio dei giapponesi). La Lomakina, avuto, sia pure con difficoltà e per brevissimo tempo, accesso agli archivi del KGB, ha potuto ricostruire questi avvenimenti e vedere la testa mummificata nel Museo etnografico di San Pietroburgo.
L'ultimo dei grandi personaggi incontrati da O. su cui vorrei ora soffermarmi, fu l'ottavo Bogdo Khan, la personalità guida del buddhismo mongolo, nel periodo che stiamo considerando.
I rapporti tra i buddhisti tibetani e mongoli sono stati, come è noto, assai stretti nel corso del tempo e il sistema del riconoscimento delle reincarnazioni ha portato a reciproci accreditamenti e scambi tra i leader religiosi delle due etnie. Il titolo stesso di Dalai (cioè "Oceano", in mongolo: Ta-le) Lama, va ricordato, fu dato a Sonam Gyatso (1543-1588), leader dell'ordine Gelukpa, dal mongolo Altan Khan, discendente di Gengis Khan. D'altra parte, era riconosciuto che lama reincarnati fossero nati in Mongolia, come nel luminoso esempio di Javsandamba Zanabazar (1635-1723). Questo, a 15 anni, si recò a Lhasa ove fu discepolo del primo Panchen Lama e successivamente riconosciuto, dal quinto Dalai Lama, reincarnazione dell'Hutukhtu [cioè capo spirituale; titolo simile a quello di un vescovo cattolico] Jebtsun Damba. Zanabazar (chiamato dal popolo Undur Gheghen, cioè Grande santo), scultore e diplomatico, è a buon diritto considerato fondatore dell'arte mongola e, ancora oggi, a Ulan Bator è possibile ammirare un'eccellente raccolta delle sue opere.
La vita dell'VIII Bodgo Khan non fu quella che si può dire una vita tranquilla. Egli era tibetano, proveniente
da una famiglia povera dei dintorni di Sakkia Kure, nel Tibet occidentale. Sin dalla prima giovinezza palesò una natura tempestosa e poco equilibrata. Era infiammato dall'idea dell'indipendenza mongola e ardeva dal desiderio di rendere nuovamente gloriosi i discendenti di Gengis Khan. Ciò gli guadagnò grande influenza sui lama, i principi e i Khan della Mongolia, e destò anche l'interesse del governo russo che cercò sempre di averlo dalla sua parte (p. 220).
Secondo le testimonianze e le confidenze raccolte da O., la politica autonomistica del Bodgo Khan gli valse l'ostilità non solo dei cinesi, ma anche del Dalai Lama: nell'uno e nell'altro caso ci sarebbero stati complotti e tentativi di avvelenamento, risoltisi invece, grazie a un'attenta e sempre attiva vigilanza della corte, con la morte degli attentatori. Il Bodgo Khan, scrive O.,
viene immediatamente a conoscenza anche della più insignificante cospirazione ordita ai suoi danni e di solito la persona che l'ha in tal modo offeso viene amabilmente invitata ad Urga, da cui non riparte più viva (p. 221).
Questo era dunque, al tempo della permanenza di O., il "Buddha vivente", che viveva nel suo palazzo di Urga (il cosiddetto "Palazzo d'inverno del Bodgo Khan"), attorniato da 60.000 monaci, di ogni età e di ogni rango, e da «folle di taumaturghi minori, profeti, stregoni e medici miracolosi» (p. 179). Grande visionario e nazionalista, ma personalità discutibile (secondo O. era divenuto padre con l'intento di assicurare un discendente al sacro trono di Gengis Khan; dedito al sesso e all'alcool, al pari di «sua moglie che beveva come lui e riceveva in sua vece numerose delegazioni e inviati speciali», p. 199); reso quasi cieco dall'alcool o dalla sifilide; responsabile "a detta di O." della eliminazione dei lama che, alla fine, avevano progettato di avvelenarlo per insediare al suo posto un altro Buddha incarnato. Pur nella difficoltà di procedere a serie verifiche storiche di queste affermazioni, i resoconti di O. ci offrono l'occasione di riflettere sul sistema del "riconoscimento" e della successione dei reincarnati/Buddha viventi, nonché sugli intrighi delle corti teocratiche, sia per quanto riguarda la Mongolia sia per il Tibet, e la stessa sequenza dei Dalai Lama tibetani (ricordando le vicende del VI, «poeta e libertino», come scrive S. Batchelor, e quelle dei successivi IX, X, XI, XII, tutti morti bambini o adolescenti, probabilmente avvelenati).
Sul sottofondo sciamanico sul quale si è venuto costruendo l'impianto culturale buddhista si colloca il fenomeno della divinazione e degli oracoli, presente ancora oggi nel buddhismo dell'Asia centrale, fenomeno poco noto in Occidente, nonostante la diaspora tibetana. O. ci dà informazioni di prima mano di varie divinazioni e delle capacità oracolari e delle "trance" dello stesso Bogdo Khan. Anche in questo caso, per assolvere il libro di O. dall'accusa di offrirci una realtà romanzata, è opportuno rimandare, oltre a quanto possiamo leggere nell'Encyclopædia Universalis francese e nell'Encyclopædia Britannica, alle dirette testimonianze che J. F. Avedon (1985) e A. Terrone (1995-96) ci offrono sulla vita e sulle possessioni dei più recenti oracoli tibetani. In Bestie, uomini, dèi, O. racconta di una "seduta" (del 17 maggio 1921) nella quale il Bodgo Khan, dopo essere uscito dal suo "santuario privato", riferì della sua enigmatica "visione" affidandola solennemente all'interpretazioni dei suoi, con queste parole:
Io, Bodgo Utuktu Khan, questo ho visto parlando con il grande e saggio Buddha, circondato dai dèmoni buoni e da quelli maligni! Saggi Lama, Hutuktu, Kampo [abate o laico di alto rango religioso], Maramba [dottori in "teologia"], e Santi Gheghen [giusto, santo], date il vostro responso sulla mia visione (p. 223).
Questa e altre simili "profezie" risultano ovviamente o così ambigue da essere lasciate alle motivazioni e alla fantasia dei vari interpreti o, più esplicitamente, contengono ammonimenti o previsioni di sciagure (Fatima e Medjugorje insegnano!): in ogni caso, si tratta di fenomeni che, pur dovendosi certamente riportare al contesto culturale in cui si producono, rappresentano forme di spiritualità che non possono non apparire "arcaiche" rispetto all'insegnamento del Buddha e alla pratica della focalizzazione sul vissuto presente, senza fughe nel passato o nel futuro.
Ancor più stupefacenti sono le connessioni che O. ci rivela tra questi modi di inculturazione del buddhismo in Mongolia e la tradizione di un misterioso centro iniziatico situato in un Regno sotterraneo (posto nell'Asia centrale, in Tibet, in Mongolia, nel deserto di Gobi?), sviluppantesi attraverso una rete planetaria di gallerie e a capo del quale è collocato il cosiddetto Re del mondo. In risposta alle richieste di informazioni, Gelong Lama diceva a O.:
Più di sessantamila anni fa un santo scomparve nel sottosuolo con un'intera tribù e non riapparvero mai sulla faccia della Terra. Tuttavia, da allora, molte persone hanno visitato quel regno: Sakismuni, Undur Gheghen, Khan Baber e altri ancora. Nessuno sa dove si trovi questo luogo. Alcuni dicono in Afghanistan, altri in India. Tutti coloro che vivono nel regno sotterraneo sono salvi dal Male ed entro i suoi confini il crimine non alligna. La scienza ha potuto svilupparsi pacificamente e non esiste minaccia di distruzione. Il popolo sotterraneo ha raggiunto le vette della conoscenza. Oggi è un grande regno popolato da milioni di uomini e il Re del mondo è il loro sovrano. Egli conosce tutte le forze della natura, legge in tutte le anime umane e nel grande libro del loro destino. Egli governa non visto ottocento milioni di uomini sulla superficie della Terra ed essi seguono ogni suo ordine (p. 228).
Il lama bibliotecario del Bogdo Khan precisava poi che il Re del mondo è colui che sta al cospetto di Dio, ne vede il volto e, quando i tempi saranno maturi, si paleserà a tutti per guidare i buoni contro i cattivi; ma questo tempo non è ancora giunto perché il più malvagio degli umani non è ancora nato. Eccoci dunque in presenza di un vero racconto escatologico, in cui trova posto anche la figura di un qualche misterioso "anticristo" (buddhista?). E il libro si conclude proprio con il racconto, fatto dall'Hutuktu di Narabanchi, di una profezia lasciata dal Re del mondo nel 1890 (sic!), riguardante il mezzo secolo che cominciava allora: dopo la previsione delle sciagure (che in verità non sono mancate nella prima metà del Novecento!), viene l'annuncio di una nuova vita sulla Terra purificata dalle distruzioni, finché poi «le genti di Agharti lasceranno le loro caverne e appariranno sulla superficie della Terra» (p. 237).
Un frutto insperato che il libro di O. produsse, e che non può non essere qui ricordato, fu quello rappresentato dall'interesse che, nel 1924 (data della edizione francese, pubblicata a Parigi dalla Librairie Plon), il libro suscitò in René Guénon (1886-1951), al quale il racconto sul "mistero dei misteri" non passò inosservato. Guénon, filosofo studioso di esoterismo e di "metafisica tradizionale", comprese che dietro le estemporanee narrazioni di O. (veritiere, ma, non dobbiamo dimenticare, opera di una persona in fuga con la preoccupazione primaria di salvare la propria vita: «egli era sicuramente incapace di andare di là dalla lettera e di vedere in quanto gli veniva detto qualcosa di più del significato più immediato», secondo le parole di Guénon, p. 70) si intravedeva un'antica dottrina "tradizionale", di cui si trovano espressioni diverse in differenti contesti culturali. Se per "tradizione" intendiamo la trasmissione (orale/scritta/rituale) di un insieme di mezzi consacrati che promuovano/facilitino la presa di coscienza di principî di carattere universale, è possibile individuare alcune grandi forme tradizionali, limitate nel numero anche se espresse con numerose varianti. Guénon, su questa base, compose un saggio di grande interesse, Le Roi du Monde, il cui obiettivo era quello di riannodare i lacci che legano la memoria del regno sotterraneo chiamato Agarttha o Agarthi (cioè imprendibile, inaccessibile, inviolabile) con molte altre espressioni mitiche e simboliche della stessa "realtà": il Monte Meru, il Monte Olimpo, Atlantide, il Paradiso (dal sanscrito Paradesha, col significato di contrada suprema), Shambhala, la Terra pura, la Terra santa, nonché il mozzo immobile del Dharmachakra, l'Albero della vita o del mondo, il Tabernacolo, il Tempio, il Graal, etc. Carattere comune è la perdita o la scomparsa, come quella del Regno divenuto nascosto e sotterrano 6000 anni fa, all'inizio del Kali-Yuga o dell'Età del ferro, e che tornerà a palesarsi al termine di tale età di oscuramento, confusione e perdita della tradizione: di qui attesa, itinerari iniziatici volti al ritrovamento, etc. Guénon, in questo saggio, che oggi potremmo chiamare di psicologia archetipica, conclude, dall'esame delle diverse tradizioni, che esiste un "prototipo" di centro spirituale (una Terra santa per eccellenza) a cui tutti gli altri sono subordinati e che ha trovato espressioni simboliche spaziali (sanscrito: loka; latino: locus) o temporali (cicli successivi):
per noi i fatti geografici [corrispondenti a un simbolismo spaziale] e quelli storici [corrispondenti a un simbolismo temporale] hanno, come tutti gli altri, un valore simbolico che, del resto, non toglie nulla della loro realtà propria in quanto fatti, e anzi conferisce loro, oltre a questa realtà immediata, un significato superiore (p. 110).
L'ambigua oscillazione tra il realistico e il simbolico non può certo essere sciolta qui, ma la testimonianza di quanto la tradizione del re del mondo (la cui "realtà" era vista certificata da reliquie, prodigi, "apparizioni"?) fosse centrale e viva per i semplici pastori, per i lama e per lo stesso Bogdo Khan, fa capire che la dottrina e i simboli buddhisti finissero per essere "ai loro occhi" solo un'immagine di quella del mondo occulto: del resto, la funzione ordinatrice e regolatrice attribuita al Re, ove rex è parola che ha la stessa radice di regere, non coincide forse con quella del Dharma, la cui radice dhri esprime l'idea di reggere e sostenere?
Conclusa la lettura del libro di O., sorge la domanda sul seguito dell'avventura: cosa accadde in Mongolia dopo che, finalmente, O. poté raggiungere Pechino? Che ne è stato del buddhismo in quella terra?
Abbiamo visto come il barone Ungern von Sternberg avesse guidato vittoriosamente l'armata bianca contro i cinesi; ben presto, tuttavia, il dominio russo si rivelò non meno brutale di quello cinese, per cui i gruppi nazionalisti, liberali e rivoluzionari videro con favore l'avanzare dei russi bolscevichi che conquistarono la capitale nel luglio 1921, dando luogo alla formazione di un governo "popolare", conservando, almeno formalmente, il Bogdo Khan come capo dello Stato. Alla morte del Bogdo Khan Zavzandamba (1924), fu però proclamata la Repubblica popolare mongola e il Partito del popolo divenne il Partito popolare rivoluzionario mongolo. Il nuovo potere vietò che si procedesse al riconoscimento di nuovi reincarnati e la Mongolia divenne il primo Paese, dopo la Unione sovietica, in cui fu instaurato un regime comunista. Si avviò così la triste sequenza di totalitarismo, collettivizzazioni, carestie e persecuzioni, purghe degli stessi capi rivoluzionari: si calcola che sotto il regime sia stato eliminato il 3% della popolazione, tra cui varie decine di migliaia di monaci (20.000 assassinati e molte altre migliaia imprigionati o inviati in campi di lavoro da cui non fecero più ritorno): il ritrovamento di fosse comuni ha purtroppo confermato quello che era già conosciuto o sospettato. Ad es., in una fossa scoperta a Mörön, vicina al confine con l'ex-URSS, sono stati ritrovati i resti di circa 5.000 monaci e, in una intervista (della BBC) al capo della squadra di sterminio dell'epoca, questo ha raccontato: «Li facevo ammucchiare su un camion e li facevo stendere, mentre venivano passati per le armi. Non c'era giustizia in Mongolia allora: la maggioranza di quelli giustiziati non aveva commesso alcun crimine». Tutto ciò ha fatto sì che in pochi decenni il buddhismo fosse quasi completamente sradicato. Se Damdiny Sukhebatar (1893-1923, liberatore della capitale Urga, che in suo onore fu chiamata Ulaan Baatar o Ulan Bator, cioè "eroe rosso"), era detto il "Lenin mongolo", dopo la sua morte (prematura, forse per veleno dei controrivoluzionari), il suo successore come segretario del Partito, Tseren-Ochiryn Dambadorj, fu esiliato a Mosca e, nel 1928, su pressione sovietica la leadership passò a Khorloghin Choibalsan (1873-1952), considerato lo "Stalin mongolo". Muovendosi nell'orbita sovietica, la Mongolia fu certamente protetta da una possibile invasione giapponese nel 1941, e nel dopoguerra ha dovuto faticare per vedere riconosciuta la sua indipendenza, che fu poi internazionalmente sancita dall'ammisione alle Nazioni Unite nel 1961. Sovietizzata pesantemente sul piano politico, militare, economico e culturale, con la caduta dell'impero sovietico la Mongolia ha cominciato un lento processo di democratizzazione e liberalizzazione. Come molti altri paesi ex-comunisti, anche la Mongolia ha visto alternarsi i successi elettorali della Coalizione democratica (comprendente il Partito nazionale democratico mongolo e il Partito socialdemocratico mongolo) e degli ex-comunisti del PPRM, tanto che nelle ultime elezioni (luglio 2000) questi ultimi hanno conquistato il 50,2% dei voti e il 94,7% dei seggi.
Dopo gli anni della repressione è cominciata anche una nuova fioritura della vita religiosa, che ha visto la riapertura e la ricostruzione di monasteri e centri religiosi. Se confrontiamo i dati del 1921 (100.000 lama e 700 monasteri) con quelli attuali, le differenze sono davvero sconcertanti (1000 lama e 90 templi e monasteri, alcuni consistenti semplicemente in una yurta). Il monastero di Gandantegchinlen a Ulan Bator è il maggiore esistente, vi risiedono circa 150 monaci e vi opera una sorta di Università buddhista. Nell'ambito di questo risveglio va ricordato che esistono oggi anche una moschea (esiste una minoranza islamica di kazaki nella provincia occidentale di Bayan Ulgii), alcuni luoghi di culto Bahai e varie chiese cristiane (con circa 15.000 convertiti al cristianesimo).
Dopo la morte dell'VIII Bogdo Khan, a seguito del divieto di riconoscere altri reincarnati, si dovette attendere il 1991 perché il Dalai Lama proclamasse Sonom Dargia IX Djebtsun Damba o Bogdo Khan. Si tratta ancora una volta di un tibetano, la cui identità era rimasta segreta dall'epoca del suo riconoscimento come reicarnato (all'età di 4 anni); oggi egli ha l'età di 30-40 anni e dal 1990 vive a Dharamsala, vicino al Dalai Lama. Un certo imbarazzo ha suscitato una sua recente visita, semiclandestina, in Mongolia, secondo quanto riferisce il World Tibet Network News (04 01 2000), proprio in coincidenza (casuale?) con la visita di Stato del presidente cinese Jiang Zemin. Ci si è domandati: la Mongolia, se il Bogdo Khaan tornasse a risiedervi, dovrebbe di nuovo diventare una monarchia teocratica? Il Dalai Lama, per quanto riguarda il Tibet, ha dichiarato che egli stabilirebbe/accetterebbe un governo democratico nel caso di un ritorno nel suo Paese; ma il Bogdo Khaan è pronto allo stesso passo? A ogni buon conto, il Dalai Lama ha dichiarato di aver richiamato il IX Bogdo Khan a Dharamsala e di non volersi immischiare negli affari interni della Mongolia, tanto più che se, da un lato, il clero e i fedeli buddhisti hanno riservato al Bogdo Khan un'accoglienza entusiastica, dall'altro, una parte dell'opinione pubblica non sembra disposta a riconoscerlo come reincarnato e tanto meno come possibile capo del Paese.
Se cerchiamo, infine, di immaginare il futuro della Mongolia, dopo gli oracoli e le visioni di cui O. ha ampliamente riferito nel suo Bestie, uomini, dèi, possiamo riferirci a una moderna "profezia" o, come sembra più opportuno dire, alla "previsione" dello scrittore e saggista tedesco Hans Magnus Enzensberger: quella secondo la quale le lotte future per la redistribuzione si scateneranno intorno a priorità del tutto diverse dalle attuali:
Scarse, rare e desiderabili nell'epoca dei crescenti consumi non saranno né le veloci automobili né gli orologi d'oro, le cassette di champagne, i pullover di cashmere e così via. Cose che si possono comprare a ogni angolo di strada chic. Lo saranno invece i presupposti elementari della qualità della vita, come l'acqua e l'aria pulita, la tranquillità e i grandi spazi (Corriere della sera, 12 01 1998).
Tempi meno incalzanti, disponibilità di maggiori spazi, assenza della quotidiana guerra civile molecolare, silenzio e serenità, aria pulita e acqua pura? Se, e sono ormai in molti a pensarlo, questo configurerà la fisionomia della nuova opulenza, la Mongolia potrebbe tornare a rappresentare una terra di sogno: questa volta come una realistica, ecologica, postmoderna Shambhala?
BibliografiaIl libro di O. è stato ripubblicato in una nuova edizione, a cura di Gianfranco De Turris e con prefazione di Julius Evola: Ferdinand A. Ossendowski, Bestie, uomini, dèi, tr. it., Roma, Ed. Mediterranee, 2000.
Per il prezioso e dotto libro di Guénon, v.: René Guénon, Il re del mondo, tr. it., Milano, Adelphi, 2000
Per un orientamento generale sulla Mongolia, ottima la guida di Paul Greenway, Robert Storey, Gabriel Lafitte, Mongolia, Hawthorn (Australia), Lonely Planet, 1997.
L'opera classica che celebra i giorni gloriosi della storia mongola al tempo di Gengis Khan, composta da un anonimo estensore del XIII secolo, è la Mongol-un Nigucha Tobchiyan, della quale esiste una traduzione italiana, con introduzione di Fosco Maraini: Storia segreta dei mongoli, tr. it., Parma, Guanda, 1989; una buona panoramica sulla storia dell'Asia centrale è offerta da: Gavin Hambly (a cura di), Asia centrale, tr. id., Milano, Feltrinelli, 1970 ("Storia universale Feltrinelli, vol. 16").
Nel volume: A. t'Serstevens (a cura di), I precursori di Marco Polo, tr. it., Milano, Garzanti, 1962 sono riportati alcuni antichi resoconti di viaggi, tra cui quello del francescano Giovanni da Pian del Carpine, inviato in Asia da Innocenzo IV nel 1245: le sue descrizioni di usanze, abitazioni, cibi risultano di estremo interesse e mostrano quanto essi si siano conservati nel corso dei secoli. Sulla leggenda del prete Gianni, e sui suoi nessi con il mito del regno sotterraneo, preziosa è La lettera del prete Gianni (a cura di G. Zaganelli), Parma, Pratiche Editrice, 1990.
Un reportage recente su peregrinazioni asiatiche (anche in Mongolia) del giornalista-viaggiatore Tiziano Terziani è nel vol. Un indovino mi disse, Milano, Longanesi, 1995, p. 338 s.
Sul buddhismo in Mongolia (e per qualche rimando al Tibet):
Inder L. Malik, Dalai Lamas of Tibet, Succession of Births, New Delhi, New United Process, 1984;
John F. Avedon, In Exile from the Land of Snows, Londra, Wisdom 7Publication, 1985;
Stephen Batchelor, The Tibet Guide, Londra, Wisdom Publication, 1987;
Joseph M. Kitagawa, Mark D. Cummings (a cura di), Buddhism and Asian History, New York, Macmillan Publ. Co., 1989;
Inessa Lomakina, Golova Da-Lamijj [La testa del lama], Ulan-Ude [Buriatia]-San Pietroburgo, Ecoart Agency, 1995;
A. Terrone, gNas Chung, l'oracolo di Stato tibetano, tesi non pubbl., Napoli, Ist. univ. orientale, 1995-96.
Bruno Portigliatti, Mongolia: at the Border of Time, «The Middle Way», 1999, 74, n°3, pp. 159-61.
Sull'opera di Zanabazar, v. la monografia di N. Tsulten, G. Zanabazar, éminent sculpteur mongol, Ulan Bator, Section de la publication d'État, 1982.
Sul canto difonico o armonico, v. il CD: Inédit Mongolie, Maison des cultures du monde, Auvidis, W260009, nonché il vol. di Roberto Laneri, La voce dell'arcobaleno, in corso di pubblicazione.
Tra i molti siti Internet sulla Mongolia, segnalo:
uno di informazioni generali:
http://boojum.com/mongolia.html molto ricco di immagini e link;
quello del Ministero degli esteri del governo mongolo:
http://www.extmin.mn/
un magazine on line:
http://www.mongoliatoday.com/
infine, la home page e il bollettino dell'Association ANDA (Centre d'études mongoles et sibériennes, Université de Paris X):
http://www.anda-mongolie.org/
http://www.anda-mongolie.org/bulletin/index.htm
su Gengis Khan (da J-N Robert):
Inoue Yasushi, Le loup bleu, Éd. Icquier
Paul Pelliot, Histoire de G. K.
Michel Hoang, Gengis Khan, Fayard
René Grousset, Conquérant du monde
BOX: MONGOLIASuperficie (in km2): 1.565.000 (Italia: 301.277) Popolazione (in milioni): 2,41; densità (ab./km2): 1,5 (Italia: 57,19; 189,8) La lingua è il mongolo, appartenente alla famiglia linguistica uralo-altaica (cui appartiene anche il turco). La scrittura tradizionale (Kümün bicic o scrittura umana) è basata su un alfabeto che è stato sostituito dall'alfabeto cirillico esteso (per suoni particolari); la traslitterazione in caratteri latini, fatta secondo criteri diversi, ha portato a risultati grafici differenti che spesso generano incertezze. Come segno di indipendenza culturale dall'influenza russa si è di recente proposto di tornare all'uso dell'antico alfabeto, ma a causa delle difficoltà e dei costi di questa riconversione le cose sono rimaste quasi immutate, con una digrafia che di fatto vede la scrittura in cirillico come scrittura corrente e quella mongola usata con funzione grafica, ornamentale, commemorativa.
ULAN BATOR
Capitale della Mongolia, conta circa 600.000 abitanti. Denominata in passato Takure o Niislel Khüree [grande accampamento/monastero] o Urga [cappio usato dai nomadi], avrebbe avuto questo nome o perché sorge in un cappio formato da tre catene di montagne o in riferimento a una sorta di diritto di prendere con l'urga i cavalli di mandrie altrui da parte dei nomadi. Il nome attuale, Ulaan Baatar o Ulan Bator [eroe rosso], le è stato dato in onore di Sukhebatar.
Per secoli "città nomade", oltre i palazzi governativi di epoca sovietica e le case di abitazione (che ricordano le squallide periferie urbane occidentali) si distendono ancora gli accampamenti costituiti dalle yurte o ger, per cui risulta "une ville de façade" (come mi disse una giornalista europea). Paradossalmente, la "modernizzazione" è avvenuta attraverso l'influenza sovietica e di questa ha conservato traccia indelebile. Il giornalista e viaggiatore Tiziano Terziani scrive in proposito: «Ulan Bator mi apparve una città giocattolo, data come un regalo di Natale da un genitore generoso al figlio per convincerlo del suo amore. E un pò era così. La rivoluzione aveva insegnato anche ai mongoli a disprezzare il loro passato, a vergognarsi della loro vecchia cultura e a sognare di essere "moderni": moderni come i sovietici con i quali la rivoluzione era appunto arrivata. Il simbolo della modernità era la città e quindi anche i mongoli, nomadi, pastori, uomini della steppa, abituati a vivere negli accampamenti di yurte, dovevano averne una. Gliela dettero i sovietici: con le strade enormi, con i grandi palazzi bianchi e gialli, con un mausoleo per l'eroe nazionale, fatto dello stesso marmo e della stessa forma, messo nella stessa posizione di quello di Lenin a Mosca, con un museo, i palazzi pubblici pieni di colonne che non reggono nulla, con un Palazzo della cultura che è una specie di Partenone appoggiato sopra un Colosseo, con le case popolari messe a schiera, e i supermercati dalle vetrine e dagli scaffali vuoti, ma con lo stesso identico odore di quelli sovietici» (1995, p.338 s.).
Sulla grande piazza Sukhbaatar, di fronte alla Casa del Parlamento, nel mausoleo in stile sovietico riposano i resti di Sukhbaatar e di Choibalsan.
Il Museo d'arte Zanabazar contiene un'eccellente collezione di opere di questo famoso artista, mentre nel Museo di storia naturale si possono ammirare, tra i molti reperti, due enormi scheletri di dinosauri provenienti dal Gobi.
Tra i monasteri, oltre al Gandantegchinlen Khiid, di grande interesse sono il Monastero-museo (sotto questa forma fu risparmiato negli anni della repressione) Choijin Lama, dimora del fratello dell'VIII Bogdo Khan (vi sono conservate opere di Zanabazar, thanka e maschere del teatro rituale), e il suggestivo Palazzo d'inverno, residenza del Bogdo Khan, visitando il quale ci si può sforzare di immaginarvi le scene descritte da O.
Un carro armato-monumento è dedicato all'amicizia mongolo-sovietica, cui il Paese deve la recente difesa della sua indipendenza (II conflitto mondiale).
KHARKHORIN o KARAKORUM
Situata a sudovest di Ulan-Bator era la capitale dell'impero di Gengis Khan. Oggi è visitata perché conserva quel che resta del monastero Erdene Zuu Khiid [Monastero dei cento tesori].
GOBI
Il deserto del Gobi non tradisce le aspettative dell'immaginario del visitatore che lo vuole luogo quasi inaccessibile, misterioso e mistico. Occupa circa un terzo della superficie del paese (sud e sud-est della Mongolia, estendendosi poi anche nella Mongolia interna cinese). La parola mongola gobi designa larghi bacini chiusi, con un fondo pietroso. Le dune e le distese sabbiose sono relativamente rare, essendo il territorio prevalentemente costituito da una superficie alluvionale accidentata da rilievi rocciosi e canyon, e dove è possibile incontrare ruscelli e laghetti. Vi vivono numerose specie animali e vegetali. Uova di dinosauri e altri fossili sono di non difficile reperibilità.
Una linea aerea assicura frequenti collegamenti, specie dell'Ömnögov (Gobi-sud) con la capitale. È possibile pernottare in accampamenti di ger (yurte) ricordando che la temperatura scende in inverno sotto i 30°C e che le notti estive sono molto fredde.
VITA
Il cibo tradizionale è da pastori, a base di carne di pecora, capra, montone, formaggio secco salato, etc.; la vita per i vegetariani è difficile; meglio dimenticare il sapore del tè (tsai) cinese o giapponese (quello locale, qualità a parte, è servito salato e col tipo di latte disponibile); apprezzato chiamare la vodka col suo nome mongolo, arkhi.
Caratteristico della Mongolia (e aree limitrofe) è il canto difonico (khoomi), basato sugli armonici (canto che attualmente comincia a essere conosciuto e praticato anche in Occidente).