Riccardo Venturini
ALTRUISMO E PROSOCIALITÀ: un approccio interculturale
1. La riflessione sui fondamenti e la pedagogia delle condotte prosociali rende necessario, anche ai fini di un più efficace intervento, un riesame dei fondamenti stessi della morale. La psicologia e la psichiatria si sono in passato interessate più dello studio dell’aggressività e delle personalità e condotte antisociali che della solidarietà e delle condotte prosociali. Tuttavia, le ricerche in questa direzione sono certamente andate aumentando negli ultimi anni e ci consentono di qualificare come prosociali quelle condotte che esprimono la presenza di vissuti di empatia, di interesse ai bisogni dell’altro, di senso di responsabilità: qualità che sono al centro di ogni elaborazione dell’etica o filosofia morale. In questo campo, lo scenario che ci si presenta è tradizionalmente occupato, da un lato, dall’etica o meglio dalle etiche religiose, dall’altro, dalla cosiddetta etica laica.
1.1. Le etiche religiose sono costituite da comandamenti, eteronomi rispetto alla volontà umana, basati sul sentimento della creaturalità, quel sentimento di rapporto con un “totalmente altro”, che Rudolf Otto aveva definito misterium tremendum, misterium fascinans. Carattere delle etiche religiose è di seguire il destino delle fedi e delle culture a cui sono connesse, garantendo un controllo sociale in molti casi efficace. I precetti, emanati da qualche autorità che si definisce interprete di volontà divine, tendono tuttavia a essere trasgrediti quando vengono avvertiti come limitativi della libera espansione individuale e, quanto ai contenuti, una norma eteronoma non può automaticamente garantire la tolleranza, il dialogo, il rispetto dei diritti umani, come esige una coscienza attenta allo sviluppo interiore. Sono davanti a noi i numerosi esempi di repressioni e di conflitti religiosi del passato e assistiamo oggi a stragi e genocidi che si dicono compiuti in nome di Dio o espressi sotto copertura religiosa. Vedremo più avanti il diverso posto che va assegnato alle etiche originate da dottrine di vita proprie di alcune grandi tradizioni spirituali non più legate a determinate etnie e culture, ma che si pongono in una prospettiva universalistica.
1.2. L’etica laica, a differenza di quella religiosa, è sì basata sulla libera volontà dell’uomo, ma proprio per questo si rivela in difficoltà a offrire un valido fondamento all’azione morale. Secondo questo punto di vista, ciò che è (tecnicamente) fattibile tende a essere per ciò stesso considerato eticamente accettabile e i richiami alla coerenza kantiana o alla innata bontà non sembrano uscire da una giustificazione basata sul puro “gusto del bene” o sull’utilità che si può avere nel moderare un comportamento considerato troppo autoaffermativo ed egoistico. Si tratta spesso di punti di vista riduzionistici, che eventualmente cercano nella biologia la base dei comportamenti altruistici, o meglio di un egoismo allargato, che finisce per svalutare proprio quelle esigenze di autosviluppo che dovrebbero caratterizzare un’etica dell’autonomia. Va poi da sé che non vengano, riduzionisticamente, riconosciute dignità e autenticità alle esigenze religiose e spirituali, interpretate come condotte immature o patologiche.
2. Negli ultimi decenni, nel dibattito sull’etica vediamo emergere un nuovo interlocutore, rappresentato dalle scienze umane e, in particolare, dalle psicologie dette (rispetto a psicoanalisi e behaviorismo) della terza o quarta forza, rappresentate rispettivamente dalla psicologia umanistica e dalla psicologia transpersonale, le quali sono partite proprio da un riesame della tassonomia dei bisogni (Box 1 e 2).
Secondo la psicologia transpersonale, i bisogni specificamente umani sono rappresentati proprio dalle domande di orientamento, significato, devozione, bisogni che devono essere soddisfatti per risolvere la contraddizione esistenziale fondamentale che vede l’uomo solo e contrapposto al mondo, e che, incapace di sopportare tale frattura, è spinto a cercare innumerevoli modi e vie di realizzazione della relazione e dell’unità: possiamo leggere gran parte della storia della cultura come la storia dei sempre rinnovati tentativi di dare una risposta a tale esigenza. Benché gran parte degli sforzi di ciascuno siano tesi a definire la propria identità personale, indispensabile interfaccia per assicurare validi scambi col mondo sociale, la soddisfazione dei bisogni specificamente umani necessita della costruzione di una più ampia identità, che chiamiamo identità transpersonale, realizzabile attraverso la ristrutturazione dell’ordinario assetto dualistico-egocentrico dei sistemi psicologici, ristrutturazione orientata verso una diversa configurazione, anegoica e transpersonale. La realizzazione di una trascendenza non metafisica, ma psicologica, attraverso quella che è stata chiamata arte, cioè una pratica, della trascendenza, è infatti ciò che la philosophia perennis ha costantemente insegnato. Se analizziamo le differenti dottrine di vita che le diverse culture hanno espresso in risposta alla domanda esistenziale fondamentale sul senso della vita, e quindi anche della sofferenza e della morte, osserviamo che esse sono concordi nell’indicare la necessità – per usare l’espressione di William James – di “portare in campo l’infinito”.
Autotrascendenza è dunque il termine col quale possiamo designare l’obiettivo dei diversi percorsi di autodistanziamento e ancoraggio all’infinito, nel quale risiedono, a un tempo, le possibilità di risposta alla domanda di senso e le basi di una condotta prosociale e altruistica, che veda la solidarietà autorealizzativa non come forma di gratuito e sentimentalistico buonismo, ma come stile di condotta dell’individuo autorealizzato.
Benché quello dell’autotrascendenza sia un insegnamento fondamentale della filosofia perenne, la cultura della modernità ne ha operato, nell’epoca dell’utopismo scientifico e politico, una profonda rimozione. Tuttavia, nel periodo che stiamo attraversando (postmodernità), varie correnti di pensiero sono tornate a confrontarsi con questa tematica e la già trionfante secolarizzazione sembra avere lasciato il campo a un atteggiamento caratterizzato dal riemergere del sacro e da una nuova esigenza di spiritualità (postsecolarizzazione).
Possiamo citare in proposito una voce laica, quella di Arnold Toynbee, lo storico inglese autore di Storia e religione (1984), che ha scritto in proposito:
Il ruolo dell’ego-centrismo nella vita sulla terra è ambivalente. Anzitutto, l’egocentrismo è evidentemente proprio dell’essenza della vita terrestre. La creatura che vive si potrebbe in verità definire un frammento minore e subordinato dell’universo che, grazie anche a un tour de force, si è parzialmente svincolato dall’inerzia e si è costituito come forza autonoma che lotta, ai limiti delle sue capacità, per asservire il resto dell’universo ai suoi fini egoistici. In altre parole, ogni essere vivente è teso a farsi centro dell’universo e, in questo sforzo, entra in conflitto con ogni altra creatura, con l’universo stesso, e con l’energia che crea e sostiene l’universo, vale a dire la Realtà assoluta sottesa ai fenomeni transitori. Questa posizione egocentrica è, per ogni creatura vivente, una necessità di vita, in quanto è indispensabile alla sua esistenza. Una totale rinuncia alla centralità del sé comporterebbe, per una creatura vivente, la completa estinzione della potenzialità insita in quel particolare veicolo di vita, in quel luogo e in quel tempo (anche se non significherebbe l’estinzione della vita); l’intuizione di questa verità psicologica è il punto di partenza dell’itinerario intellettuale del buddhismo [...]. L’egocentrismo è dunque una necessità di vita, ma questa necessità è anche una colpa. L’ego-centrismo infatti è un errore intellettuale, perché nessuna creatura vivente è in verità il centro dell’universo; ed è un errore morale, perché nessuna creatura vivente ha diritto di agire come se fosse il centro dell’universo. Non ha diritto di trattare le creature sue simili, l’universo e Dio o la Realtà assoluta come se esistessero semplicemente per soddisfare le richieste di una creatura ego-centrica. Persistere in questa erronea fede e agire in base a essa è appunto la colpa che nel linguaggio della psicologia greca è chiamata hybris; e hybris è anche l’orgoglio smodato, criminale e suicida che conduce Lucifero alla caduta (come la tragedia di vivere è presentata nel mito cristiano).
Dato dunque che l’ego-centrismo è sia una necessità di vita sia, ad un tempo, un peccato che comporta una nèmesi, ogni creatura vivente si trova in un dilemma per tutta la durata della sua esistenza. Una creatura vivente può mantenersi in vita solo se, e fino a che, riesce a evitare il suicidio tramite la auto-affermazione, e l’eutanasia grazie alla rinuncia al sé.
La via mediana tra i due rischi è stretta come la lama di un rasoio e il viandante deve mantenere l’equilibrio resistendo costantemente alla fortissima tensione di due poli che lo attraggono verso l’abisso, tra i quali deve a fatica aprirsi la via (p. 18 s.).
La via di mezzo sembra dunque, nonostante la difficoltà di percorrerla, quella che consente di rimanere vivi, evitando, da un lato, il suicidio della dismisura e, dall’altro, l’eutanasia della rinuncia.
3. Nel percorrere la via del proprio sviluppo, l’uomo vive i progressivi distacchi e le situazioni di separatezza come laceranti ferite. La psicologia transpersonale, riesaminando le psicologie spirituali incorporate nelle dottrine di vita delle religioni universalistiche (psicologie che sono in grande misura già “pronte” per essere tradotte nei termini della psicologia occidentale), sta operando, per usare una espressione di Jung, come un mediatore gnostico collettivo, capace di offrire una strada con cui la saggezza eterna può fare nuovamente il suo ingresso per infondere e magari trasformare la cultura occidentale (Walsh).
3.1. Tra le dottrine di vita al centro di questa svolta culturale, una grande attenzione viene oggi rivolta a quelle di origine orientale. Non va certo negato che, in questo, possa giocare un certo peso la seduzione della novità e delle mode, ma l’esigenza dell’incontro con le dottrine orientali ha ben altro spessore. Esso sembra infatti sostenuto da profonde insoddisfazioni e da fondate speranze. L’insoddisfazione è per le rimozioni o per il tipo di risposte offerte dalla nostra cultura, dall’unilateralità della visione guidaico-cristiana e delle sue eredità secolarizzate (scientifico-positivistiche e politico-utopistiche, oggi difficilmente riproponibili), dalla presenza di perversioni fondamentalistiche nelle religioni monoteiste, dalla stessa “dimenticanza” delle pratiche spirituali proprie della tradizione ascetica cristiana a fronte dell’importanza assegnata dalla spiritualità orientale alla pratica e alla disciplina spirituale come strumenti di trasformazione interiore. Dall’altro lato, sembrano scorgersi molti elementi di affinità tra le culture orientali e talune delle più vive esigenze dell’Occidente post-moderno, come quella della costruzione di un nuovo e più armonioso rapporto con l’ambiente, il bisogno di attuare una ecologia della mente fondata su una psicologia spirituale capace di fornire articolate pratiche di autocontrollo, un corretto lavoro sulle emozioni e un uso controllato dell’immaginario: in altre parole, l’esigenza di giungere a un’autorealizzazione che consenta un benessere da vivere qui e ora e non dopo la morte o in un mondo futuro.
Parlando di Oriente, dobbiamo domandarci se ci sia un denominatore comune ai vari Orienti coi quali veniamo a confrontarci, non tanto quelli geografici, ma gli Orienti del pensiero. Per quanto sia difficile rispondere affermativamente a tale domanda, un denominatore comune possiamo individuarlo nello stile di risposta alla domanda di costruzione della identità transpersonale, cioè nel modo in cui si configura il rapporto con la Realtà assoluta e nella concezione e nel peso che vengono assegnati all’io individuale, caratterizzati da un depotenziamento del centrismo egoico a vantaggio di un poli- o onni-centrismo. L’obiettivo di ogni disciplina trasformativa, indipendentemente da metodi, terminologie e interpretazioni, è infatti individuabile nella trasformazione della coscienza del praticante, realizzata con la scomparsa o meglio – se mi si consente l’impiego di un ossimoro – con una riduzione espansiva del piccolo io, ottenuta scalzando l’io dalla mente (Box 3).
Se è nella coscienza che si produce la separazione originaria (la lontananza da Dio nella tradizione giudaico-cristiana) sarà proprio nella trasformazione della coscienza che la ferita potrà essere curata. La coscienza dualistica e discriminante, che del principio di individuazione è espressione evolutiva e strumento indispensabile al servizio della sopravvivenza, non è più di aiuto di fronte al vissuto di sofferenza originato dalla separatezza né è in grado di dare significato alla condizione di bisogno come condizione costitutiva del vivente. Occorre, per questo, operare un grande cambiamento, una rottura di livello per cui la coscienza del limite si apre all’infinito, il frutto della sofferenza diviene il nutrimento della liberazione e la coscienza dell’ignoranza (avida) la condizione di illuminazione di una mente oscurata. Questa trasformazione è quella che le tradizioni spirituali hanno sempre sottolineato, indicando l’obiettivo della costruzione di un uomo nuovo, che esca dalle angustie del proprio io “separato” e possa quindi (ri)trovare la sua profonda unità con la natura, con gli altri, con la totalità del reale. L’io empirico apre la sua limitata identità biografica a una identità transpersonale, ritrova la sua “solidarietà” col mondo e con gli altri, scopre il suo legame con la grande forza della Vita universale, di cui vive e per cui vive: nella coscienza così trasformata, la separazione si fa unità, la mancanza pienezza, la miseria ricchezza.
Come veniva ben sottolineato dall’insegnamento di Gurdjieff, il piccolo e limitante “sé” della vita quotidiana, il sé che insiste sui suoi diritti personali e nel suo isolamento, non è più lì a separarci da tutto il resto, e in sua assenza si viene accolti in un ordine estremamente più vasto di esistenza, che è comune a tutti i viventi. La separazione è terminata e, mentre il clamore del pensiero interno si spegne nel silenzio interiore, emerge un soverchiante senso di “essere” (Walker, 1976, p. 34).
L’ego, è bene ricordarlo, nella prospettiva del pensiero orientale viene ridimensionato non attraverso la lontananza della trascendenza, ma proprio mediante un rapporto di partecipazione che svolge un ruolo antidistacco. La speculazione indiana, che ha posto al centro della sua attenzione la domanda “Chi sono io?”, ha cercato per secoli di darle una risposta non in termini di “astratta” filosofia, ma in termini di pratica di vita e, potremmo dire, di psicologia: di qui l’attuale interesse per le risposte che questa tradizione può suggerire. La ben nota formula vedantico-upanishadica:Tat Tvam Asi [Tu sei Quello], indica la via dell’autorealizzazione nella dilatazione degli orizzonti della coscienza, nel salto di livello al di là della singola, biografica, determinata e circoscritta individualità. Nella consapevolezza della nuova più profonda identità si esprime la coincidenza tra il Sé, il noumeno in noi, e il Quello, la Realtà ultima, una e assoluta. Le scritture esprimono questa (ri)trovata unità con l’Uno (cui si dà il neutro nome di Quello) e la raggiunta pienezza ottenuta dalla coscienza di essere Lui. L’autotrascendenza, il raggiunto atteggiamento anegoico, viene celebrata nell’atteggiamento di una matura equanimità, che può forse ricordarci la dottrina dell’“atarassia” delle scuole post-aristoteliche, rispetto alla quale non vanno tuttavia sottovalutate le notevoli differenze.
3.1.1. In uno dei più grandi testi non solo della tradizione hindu, ma della spiritualità orientale in genere, la Bhagavad-Gita [Il canto del glorioso Signore], leggiamo le parole con cui il dio Krsna si rivolge al guerriero Arjuna:
Se un uomo ha soggiogato sé stesso ed è in pace, il suo supremo Sé è in perfetto raccoglimento, indifferente a freddo e caldo, piacere e dolore, e così pure a onore e disonore. Con l’animo appagato dalla conoscenza e dalla consapevolezza, saldo sulla vetta, i sensi domati, lo yogin è chiamato “consapevole e attento”: sono uguali per lui una zolla, un sasso o un pezzo d’oro. Egli tutto sovrasta, e considera in modo equanime persone affezionate, amiche, nemiche, indifferenti, neutrali, odiose, parenti, e anche buoni e malvagi [...]. Così soggiogando costantemente sé stesso e controllando la propria mente, lo yogin attinge infine quella pace che in me ha il suo compimento e che rappresenta il momento più alto del nirvana (VI, 7-9, 15).
In Krsna, fondamento di ogni cosa, convergono e si ritrovano i due principî essenziali della fede hindu: l’unica Realtà, Verità assoluta e indicibile Legge cosmica, da un lato; norma universale e quindi anche norma del comportamento umano, dall’altro:
Io sono infatti il supporto del Brahman inalterabile e immortale, e del perenne Dharma e della perfetta felicità (XIV, 27).
La via attraverso la quale realizzare la liberazione è qui individuata nello bhakti yoga, lo yoga devozionale, caratterizzato dal non-attaccamento al frutto delle azioni, tratto peculiare di questo insegnamento. Infatti, non è l’azione a essere male, ma l’attaccamento. Nella devozione a Krsna, le azioni sono compiute senza nessun “interesse” personale, ma agite come per conto di terzi e tutte sono offerte al dio. Così Krsna, esortando il devoto, dice:
Grazie a questo legame d’amore, egli mi riconosce quale realmente sono e scopre quanto grande io sono: dopo avermi così conosciuto secondo verità, egli subito penetra in me. Se un uomo prende in me rifugio, pur continuando a compiere azioni di qualsiasi tipo, per mia grazia ottiene l’inalterabile meta perenne. Spogliandoti in cuor tuo di tutte le azioni per offrirle a me, in me assorto, trovando rifugio in quello yoga che è fatto di consapevolezza, abbi sempre il pensiero rivolto a me (XVIII, 55-57).
“Distaccandosi da tutte le azioni” (XII, 6) per offrirle alla divinità, il guerriero Arjuna, come anche ogni “guerriero” del quotidiano, può – secondo le parole di Krsna – rimanere puro e imperturbato:
Deponendo in me tutte le azioni, con l’animo raccolto in quella Realtà che si manifesta nel Sé, privo di speranza e di ogni idea di possesso, combatti libero dall’angoscia (III, 30); consacra interamente a me il tuo agire (XII, 10); nel pieno dominio di te stesso, abbandona il frutto di tutte le azioni (XII, 11).
3.1.2. È opportuno, a questo punto, passare a esaminare un altro fondamentale orientamento della spiritualità orientale, il Buddhadharma (l’insegnamento buddhista), che sembra essere quello maggiormente idoneo a venire assimilato dalla mentalità occidentale, come peraltro è testimoniato dalla sua crescente penetrazione culturale. Esso, sul comune sottofondo dottrinale e yogico dell’India antica, ha introdotto la dottrina della vacuità. Non si insisterà mai abbastanza sulla differenza tra vuoto o vacuità e nulla (differenza che anche i due caratteri cinesi, impiegati per rappresentare questi concetti, sottolineano; Box 4), il vuoto riferendosi, in questo contesto, non alla esistenza dei fenomeni, ma alla loro intima natura. I fenomeni, secondo la visione buddhista del mondo, sono infatti connotati da tre fondamentali caratteri: vacuità (anatta) o assenza del sé o dell’ego, impermanenza (anicca), insufficienza o insoddisfacenza, imperfezione, sofferenza (dukkha). Ciò che è impermanente è soggetto a sofferenza, perché oppresso dal sorgere e decadere, e ciò che è impermanente e insoddisfacente si rivela privo di un sé non essendo in grado di controllare e superare né il suo divenire né la sua insufficienza/sofferenza.
Per proteggersi dal dolore l’uomo costruisce la casa del suo io separato, cementandola con l’illusione di un sé reale e indipendente che cerca di affermarsi in un mondo ritenuto anch’esso reale e indipendente. Ma la casa che dovrebbe proteggerlo è anche la casa della brama, della follia, la prigione dell’ignoranza e degli attaccamenti da cui occorre liberarsi. Il Buddha scopre finalmente l’“inganno” e in questa scoperta è la liberazione:
Lungo innumerevoli esistenze ho corso, cercando il costruttore della casa [...]. O costruttore! sei stato scoperto, non farai di nuovo la casa! Tutte le travi sono spezzate, la capriata è crollata; lo spirito, cancellata ogni concezione, ha estinto la sete (Canone buddhista, Dhp.).
Estinta la brama è raggiunta la pace del nirvana, al di là del dualismo delle emozioni e del dualismo delle concezioni: è venuta meno la condizione della rinascita, è condotto a termine il tirocinio brahmico, è compiuto quanto doveva essere compiuto, non vi sarà più luogo per questo o quello (Canone buddhista, M.N.).
Quando la tradizione buddhista sottolinea che la mente individuale è contaminata dall’ignoranza e dagli attaccamenti, ma rimane in sé – come gli illuminati comprendono – eterna, immutabile e immacolata, ci assicura che è proprio nella profondità della coscienza che possiamo trovare la via di uscita dalla contraddizione esistenziale fondamentale.
Comprendendo la fondamentale verità del mondo dei fenomeni e dell’esistenza umana, e cioè che essi essendo sostanziati di vacuità sono privi di esistenza inerente e pertanto completamente interdipendenti, comprendiamo anche che vivere in armonia con gli altri e con la natura è il modo di vivere che coincide con la verità della natura profonda della realtà e non con le ragioni dell’io egoistico. È importante osservare che, con questa così comprensiva visione egualitaria, il buddhismo offre il più ampio fondamento per estendere a tutto l’universo, e non soltanto agli altri esseri umani, il nostro comportamento di rispetto e di benevolenza. Buddha, in questo senso, è il luogo ove il Dharma (che, letteralmente, dalla sua radice dhr significa ciò che sorregge e sostiene il mondo), ossia la Grande legge della Vita universale, vera radice di tutti i fenomeni, realizza la sua autocoscienza. In altre parole, anche se gli individui singoli sembrano vivere una esistenza separata, fondamentalmente ciascuno è manifestazione della Vita universale e tutti sono uniti da una basilare solidarietà.
Cuore dinamico del reale, la Vacuità deve essere essa stessa negata per porsi come genuina Vacuità, realizzando così la vacuità della Vacuità. Una Vacuità svuotata significa pienezza e il Vuoto viene così a coincidere col mondo della molteplicità fenomenica. Dice il Sutra del cuore della perfezione di saggezza: “La forma è vacuità; la vacuità è forma. La vacuità è niente altro che forma e la forma è niente altro che vacuità”.
“Chi sono io?” “Chi sta domandando sulla natura di Buddha?” Inseguendo il nostro io con una tecnica incalzante che non consente di fuggire, finiamo per scoprire che nulla resta di cui si possa dire che ci è proprio, che giustifichi l’illusione di essere un’entità autonoma, immutabile, autoconsistente... L’io si dilata ed esplode nella Vacuità: proprio la consapevolezza della sua inconsistenza rivela la sua vera realtà, la sua più profonda identità, la coincidenza con la natura buddhica presente al fondo di ogni fenomeno. Risiedendo nell’interrogazione senza tregua, nell’essere puro testimone costantemente vigile, senza attaccamenti e avversioni, l’interrogante si rivela intimamente coincidente con la Realtà ultima. Applicando la coscienza-testimone a tutto ciò che è stato utilizzato per definire l’identità personale, a tutto ciò con cui ci si è identificati, a poco a poco, attraverso l’opposto processo di autodistanziamento e di disidentificazione, lasciando andare, abbandonando, “sacrificando” ciò che è me e non-me, l’io convenzionale viene progressivamente “ridotto” e infine espulso; della personalità, che ha attraversato emozioni, pensieri, relazioni, resta la pura soggettività dell’osservare, di cui non può più darsi proprietà, perché nasce in me ed è più di me.
Lentamente, – scrive Ken Wilber – in questa terapia di dis-identificazione, scoprirete che il vostro sé individuale [...], per cui avete finora lottato per difenderlo e proteggerlo, inizia a diventare trasparente e a scomparire. [...] Iniziate a sentire che ciò che succede al vostro sé personale – desideri, speranze, auspici, dolori – non è questione di vita o di morte, perché nel vostro intimo esiste un sé più importante non toccato da queste fluttuazioni periferiche, da onde superficiali, che turbano parecchio, ma sono di scarsa consistenza. [...] L’interno che sente il dolore è senza dolore; ciò che sente la paura è senza paura; ciò che percepisce la tensione è senza tensione. Testimoniare questi stati significa trascenderli.
Colui che riuscirà a essere veramente disidentificato sentirà il dolore della storia individuale, ma potrà non soffrire di soffrire, distanziandosi anche dalla sofferenza perché neppure la sofferenza gli appartiene fino in fondo! Dall’io personale si passa all’io transpersonale. “Tu sei Quello”, “Tu sei Buddha”, “Tu sei Tutto”: il “totalmente altro” si rivela ora come il “totalmente dentro”. Liberandoci “dall’abbagliata coscienza dell’Io, colpevole della dolorosa illusione del mondo, [possiamo] giungere a quell’altro polo spirituale, in cui il mondo è abolito come illusione” (Jung) e divenire consapevoli di dimorare nel cuore stesso dell’Assoluto.
Quando, per il misterioso concorrere di cause esterne e interne, l’individuo sente di non poter fare a meno di indirizzare tutte le sue energie verso il Buddha e il Buddha si volge verso l’individuo, si determina quel risveglio della mente che aspira all’illuminazione (bodhicitta) e spinge a seguire la via del Buddha, a intraprendere il cammino di disciplina spirituale: è il momento della “conversione” o grande risoluzione, in cui l’essere che aspira all’illuminazione (bodhisattva), sostenuto dalla fede, pronuncia i grandi voti, è pronto a intraprendere il suo cammino e a iniziare il viaggio nella pratica dei comportamenti virtuosi (o palamita).
La concezione del nirvana, ponendosi nella dottrina della Via di mezzo o del Grande Veicolo (Mahayana) come liberazione da ogni tipo di dualismo (compresi quelli di bene/male e piacere/dolore: dualismi fondati sul dualismo radicale io/non-io), comporta che la liberazione venga in sostanza a consistere nella liberazione dall’egocentrismo, cioè nella liberazione dall’illusione dell’io separato e contrapposto al non-io. L’ideale di perfezione non è più dunque quello dell’asceta isolato, distaccato dal mondo, ma quello del bodhisattva che vive nel mondo e si pone al servizio degli altri. Egli non dimora nel deserto del suo orgoglio spirituale, insensibile alla sofferenza dei non illuminati: l’affanno degli esseri nella miseria e nell’illusione bordeggia e circoscrive la sua illuminazione soggettiva, preme sul suo cuore, che ha scelto la via dell’assoluto non dualismo e lo spinge all’azione compassionevole. Lungi dal godere di una felicità separata, il bodhisattva soffre di una “sofferenza vicaria”, con gli altri e al posto degli altri.
La missione del bodhisattva, purificatore del mondo inquinato dall’ignoranza e dall’egoismo, è quella di prendere su di sé la sofferenza degli altri per purificarla senza lasciarsene contaminare, come il fiore del loto che ha le radici nel fango ma si conserva assolutamente pulito. Come afferma Saicho, fondatore (nell’anno 806) della Scuola Tendai giapponese:
Prendere il male su di sé e dare bene agli altri, dimenticare sé stessi e lavorare a beneficio degli altri, questo è l’obiettivo ultimo della compassione.
Il concetto della comune natura buddhica e la rassicurazione ripetutamente fatta dal Buddha che tutti potranno raggiungere l’illuminazione non restano pure affermazioni teoriche, ma divengono la vivente realtà della pratica dei bodhisattva. La natura compassionevole del Dharma si riflette dunque nella compassione che diviene il centro della pratica e dà significato al cammino di purificazione spirituale. Se diveniamo profondamente convinti della comune natura buddhica, cioè dell’essenza sacra di tutti gli esseri, ci sarà più facile capire che, al pari di noi stessi, tutti gli esseri senzienti desiderano esseri felici. Anche se nelle forme meno condivisibili, anche se con i comportamenti più offensivi verso noi o gli altri, ciascuno è, a ben guardare, spinto dal comune desiderio di raggiungere la felicità. Riflettendo su questa universale motivazione, in cui si esprime la spinta vitale di tutti gli esseri senzienti, sarà dunque sempre possibile trovare motivi di solidarietà e fraternità. Per questo, il filosofo e santo buddhista Santideva (VII/VIII sec. d.C), nel suo Bodhicaryavatara [Il cammino verso l’illuminazione] scrive un magnifico inno alla compassione, compassione che trova il suo fondamento nella comune aspirazione degli esseri senzienti:
Dovrei prima di lutto sforzarmi di meditare sull’eguaglianza di me e degli altri, Io dovrei proteggere tutti gli esseri come faccio con me stesso perché siamo eguali nel desiderare il piacere e nell’evitare il dolore.
Sul viale d’ingresso del tempio zen Daihonzan-Soji-ji, in Yokohama, un grande mestolo accoglie i visitatori, ricordando la compassione di chi, umilmente – come un mestolo – si consuma, giorno dopo giorno, al servizio degli altri. La compassione, quando ha il sapore della Vacuità, in quanto fatta di equanimità e di dono stesso del dono, rende possibile la liberazione, nella misura in cui è capace di operare un salto di livello che purifica e illumina, cambia significato alla sofferenza, fa uscire dal negativo, vissuto come “disgrazia” individuale, dando di ogni miseria una lettura transpersonale. Attraverso questo salto di livello, il “liberato” non soffre (depressivamente) di soffrire, come non gode (narcisisticamente) di gioire, tutto accogliendo e riportando oltre il dualismo e oltre sé. Con altre parole, scriveva Simone Weil:
Si finisce per raggiungere qualche cosa che non è più la tribolazione, che non è più la gioia; non è che l’essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, ed è lo stesso amore di Dio.
4. Le prospettive esaminate ci indicano dunque una possibile coincidenza di autosviluppo e condotta morale, ove questa, nella sua forma di solidarietà autorealizzativa, si configura come costante e operante espressione del percorso di perfezionamento spirituale. Vorrei ora concludere con una considerazione di tipo applicativo pedagogico. Ho ricordato come la psicologia umanistica abbia preso, quale suo punto di partenza, la condizione umana, considerandola da un punto di vista che viene in gran parte a coincidere con la visione del mondo delle più grandi tradizioni spirituali orientali. L’uomo, come essere impermanente e privo di esistenza autonoma, è dipendente da relazioni, cause e condizioni: compare nel mondo senza che lo desideri e lo approvi, ed egualmente senza desiderarlo né approvarlo ne è allontanato. Proprio da questa incertezza e indominabilità, il Buddha ricavò l’insegnamento dell’assenza dell’ego (o della esistenza inerente). Ma l’uomo, a differenza degli animali, osserva Erich Fromm,
essendo dotato di ragione e di immaginazione, non può accontentarsi della passiva condizione di creatura, di dado gettato fuori dal bossolo. Egli è mosso dallo stimolo di trascendere il suo stato di creatura e l’accidentalità e passività della sua esistenza, diventando “creatore”.
Cosciente di essere creato e di poter creare, per farsi partecipe della grande catena della vita universale l’uomo crea vita, oggetti, arte, idee:
nell’atto creativo – scrive ancora Fromm – trascende sé stesso come creatura, eleva sé stesso al di sopra della passività e accidentalità della sua esistenza entro il regno della volontà creativa e della libertà. Nel bisogno umano di trascendenza risiede una delle radici dell’amore, come anche dell’arte, della religione e della produzione materiale.
Se vogliamo lavorare per lo sviluppo di abilità prosociali e prevenire i rischi dei comportamenti antisociali, l’educazione all’autotrascendenza, prima di offrire espressione a un desiderio maturo di autorealizzazione spirituale, nell’età evolutiva mi pare si possa configurare proprio come educazione alla creatività. La creazione presuppone attività, interessamento, amore; è questo un modo di riscoprire e riaffermare quell’amore e quella difesa della vita, di cui oggi si parla spesso in modo retorico se non addirittura equivoco. Giustamente Fromm si domanda e osserva:
Come potrebbe allora l’uomo risolvere il problema di trascendere sé stesso se non fosse capace di creare, se non potesse amare? C’è un’altra risposta a questo bisogno di trascendenza: se io non posso creare la vita, posso distruggerla. Anche distruggere la vita fa sì che io la trascenda. Effettivamente che l’uomo sia capace di distruggere al vita è miracoloso quanto il fatto che egli sia in grado di crearla, perché la vita è il miracolo, l’inesplicabile. Nell’atto di distruzione l’uomo mette sé stesso al di sopra della vita, trascende sé stesso in quanto creatura [...]. Creazione e distruzione, amore e odio non sono due istinti indipendenti l’uno dall’altro. Entrambi sono risposte allo stesso bisogno di trascendenza e la volontà di distruzione deve sorgere quando non si sia potuto soddisfare la volontà di creazione.
La distruttività esprime dunque una difesa contro l’odio e il disprezzo di sé allorquando all’individuo manchi la possibilità di sentirsi amato. Rinchiudendosi sempre più in sé e sempre più separandosi, egli diviene prigioniero di una spirale di sofferenza, non riesce ad autotrascendersi e a scoprire dentro di sé la grande forza della Vita cosmica e a vivere la propria vita come partecipazione all’opera di creazione universale. Educare all’amore e al rispetto della vita significa allora educare a partecipare al processo creativo e a concrete abilità di autotrascendenza, uscendo dalla separatezza dell’io individuale. Vorrei ricordare due frasi, direi quasi due slogan, che mi sembra possano bene condensare le considerazioni fin qui svolte. Il primo, il più vicino a noi nel tempo, è quello lanciato dal poeta mito del Sessantotto, Allen Ginsberg: “Allargate l’area della coscienza”. È un messaggio che ci riporta, quasi a rimarcare quella continuità della philosophia perennis a cui mi riferivo all’inizio, alla espressione, di qualche millennio precedente, del profeta Isaia che così esortava: “Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga i cordami, rinforza i pioli” (Is., 54, 2). Entrambe, queste esortazioni costituiscono non un effimero invito, ma un forte richiamo a individuare nell’autotrascendenza e nella costruzione di un io universalizzato i soli veri e non effimeri strumenti di guarigione spirituale dalle angustie dell’egoismo.
Per approfondimento:
Bhagavad-Gita (Il canto del glorioso Signore) , tr. it., Cinisello Balsamo, Edizioni S. Paolo, 1994.
Canone buddhista, tr. it., Torino, UTET, 1976.
A. Catemario, La contraddizione culturale nelle società complesse: l’etica universale, Roma, Kappa, 1990.
E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea, tr. it., Milano, Edizioni di Comunità, 1976.
R. Venturini, Coscienza e cambiamento, II ed., Assisi, Cittadella Editrice, 1998.
J. Welwood, L’incontro delle vie, tr. it., Roma, Astrolabio, 1991.
Relazione tenuta al convegno Abilità prosociali e prevenzione del rischio, promosso dal Centro interuniversitario per la ricerca sulla genesi e sullo sviluppo delle motivazioni prosociali e antisociali e dalla Fondazione Cristina Mazzotti presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano) il 13 ottobre 1997
Pubb. in Dharma, I, n.1, ott. 1999
Box 1
LE MOTIVAZIONI UMANE
Motivazioni di sopravvivenza e sicurezza (motivazioni carenziali)
Motivazioni di soddisfazione e stimolazione (motivazioni di abbondanza) RELATIVE ALLA CORPOREITÀ
evitare situazioni di fame, sete, mancanza di ossigeno, estremi di temperatura, fatica, malattia e altri stati costrittivi; ottenere esperienze sensoriali gradevoli, piacere sessuale, benessere fisico, movimenti liberi.
RELATIVE AL RAPPORTO CON L’AMBIENTE
evitare oggetti (e situazioni) pericolosi e disgustosi; ricercare oggetti necessari alla sopravvivenza e alla sicurezza; conservare un ambiente sicuro, stabile, confortevole; ottenere oggetti e beni; comprendere l’ambiente, risolvere problemi; giocare, divertirsi; ricercare ambienti nuovi e stimolanti, avventura, conoscenza, movimento, affermazione.
RELATIVE AI RAPPORTI INTERPERSONALI
evitare conflitti interpersonali e rapporti ostili; conservare stato sociale, prestigio, appartenenza a un gruppo; adeguarsi ai valori e agli standard di gruppo; ricevere aiuto e cure da parte di altri; ottenere potere su altri; esser capaci di offrire amore; godere della compagnia di altri; aiutare e curare altri; essere indipendente; socialità; affermazione.
RELATIVE AL RAPPORTO CON SÉ STESSI
evitare sentimenti di inferiorità nei confronti degli altri e del sé ideale, sentimenti di colpa, paura, vergogna, ansia; avere fiducia in sé; esprimersi; essere soddisfatti; trovare un significato per la propria vita.
Box 2
BISOGNI “UMANI”, secondo FROMM
Correlazione (contro narcisismo)
amore come bisogno di unione con qualcuno o qualche cosa, al di fuori di sé stessi, trascendendo la propria esistenza individualizzata e sentendosi portatori di quei poteri attivi che costituiscono l’atto di amare; la sollecitudine e la responsabilità denotano il fatto che l’amore è un’attività, non una passione da cui si è sopraffatti, non un affetto da cui si è “affetti”.
Trascendenza (contro distruttività)
bisogno di trascendere lo stato di creatura passiva (è anche la base della risposta distruttiva).
Radicamento (fraternità contro incesto)
bisogno di sostituire le radici naturali con nuove radici umane
Identità (contro indistinzione)
bisogno di dire “io sono io”, di essere soggetto delle proprie azioni; preoccupazione di raggiungere uno status e di appartenere a un gruppo (è anche la base dell’individualità illusoria e del conformismo).
Orientamento (contro irrazionalità e disorientamento)
bisogno di avere un orientamento nel mondo, interpretando e correlando la molteplicità dei fenomeni in modo razionale (senza proiezioni e razionalizzazioni).
Devozione (contro mancanza di significato e dedizione)
la comprensione intellettuale del mondo per essere soddisfacente deve contenere anche elementi sensoriali e affettivi, espressi nel rapporto con un oggetto di devozione, che dia significato alla esistenza e alla posizione nel mondo.
Box 3 IL CAMMINO DI AUTOSVILUPPO
L’AUTOREALIZZAZIONE, COME (RE)INTEGRAZIONE NEL MONDO, RICHIEDE
lo stato di coscienza transpersonale si realizza mediante una pratica, rappresentata da una via (o sentiero, cammino, etc.) di purificazione (o di liberazione, perfezione, individuazione, etc.).
Box 3
Caratteri cinesi per Nulla e Vacuità
ALTRUISMO E PROSOCIALITÀ: un approccio interculturale
1. La riflessione sui fondamenti e la pedagogia delle condotte prosociali rende necessario, anche ai fini di un più efficace intervento, un riesame dei fondamenti stessi della morale. La psicologia e la psichiatria si sono in passato interessate più dello studio dell’aggressività e delle personalità e condotte antisociali che della solidarietà e delle condotte prosociali. Tuttavia, le ricerche in questa direzione sono certamente andate aumentando negli ultimi anni e ci consentono di qualificare come prosociali quelle condotte che esprimono la presenza di vissuti di empatia, di interesse ai bisogni dell’altro, di senso di responsabilità: qualità che sono al centro di ogni elaborazione dell’etica o filosofia morale. In questo campo, lo scenario che ci si presenta è tradizionalmente occupato, da un lato, dall’etica o meglio dalle etiche religiose, dall’altro, dalla cosiddetta etica laica.
1.1. Le etiche religiose sono costituite da comandamenti, eteronomi rispetto alla volontà umana, basati sul sentimento della creaturalità, quel sentimento di rapporto con un “totalmente altro”, che Rudolf Otto aveva definito misterium tremendum, misterium fascinans. Carattere delle etiche religiose è di seguire il destino delle fedi e delle culture a cui sono connesse, garantendo un controllo sociale in molti casi efficace. I precetti, emanati da qualche autorità che si definisce interprete di volontà divine, tendono tuttavia a essere trasgrediti quando vengono avvertiti come limitativi della libera espansione individuale e, quanto ai contenuti, una norma eteronoma non può automaticamente garantire la tolleranza, il dialogo, il rispetto dei diritti umani, come esige una coscienza attenta allo sviluppo interiore. Sono davanti a noi i numerosi esempi di repressioni e di conflitti religiosi del passato e assistiamo oggi a stragi e genocidi che si dicono compiuti in nome di Dio o espressi sotto copertura religiosa. Vedremo più avanti il diverso posto che va assegnato alle etiche originate da dottrine di vita proprie di alcune grandi tradizioni spirituali non più legate a determinate etnie e culture, ma che si pongono in una prospettiva universalistica.
1.2. L’etica laica, a differenza di quella religiosa, è sì basata sulla libera volontà dell’uomo, ma proprio per questo si rivela in difficoltà a offrire un valido fondamento all’azione morale. Secondo questo punto di vista, ciò che è (tecnicamente) fattibile tende a essere per ciò stesso considerato eticamente accettabile e i richiami alla coerenza kantiana o alla innata bontà non sembrano uscire da una giustificazione basata sul puro “gusto del bene” o sull’utilità che si può avere nel moderare un comportamento considerato troppo autoaffermativo ed egoistico. Si tratta spesso di punti di vista riduzionistici, che eventualmente cercano nella biologia la base dei comportamenti altruistici, o meglio di un egoismo allargato, che finisce per svalutare proprio quelle esigenze di autosviluppo che dovrebbero caratterizzare un’etica dell’autonomia. Va poi da sé che non vengano, riduzionisticamente, riconosciute dignità e autenticità alle esigenze religiose e spirituali, interpretate come condotte immature o patologiche.
2. Negli ultimi decenni, nel dibattito sull’etica vediamo emergere un nuovo interlocutore, rappresentato dalle scienze umane e, in particolare, dalle psicologie dette (rispetto a psicoanalisi e behaviorismo) della terza o quarta forza, rappresentate rispettivamente dalla psicologia umanistica e dalla psicologia transpersonale, le quali sono partite proprio da un riesame della tassonomia dei bisogni (Box 1 e 2).
Secondo la psicologia transpersonale, i bisogni specificamente umani sono rappresentati proprio dalle domande di orientamento, significato, devozione, bisogni che devono essere soddisfatti per risolvere la contraddizione esistenziale fondamentale che vede l’uomo solo e contrapposto al mondo, e che, incapace di sopportare tale frattura, è spinto a cercare innumerevoli modi e vie di realizzazione della relazione e dell’unità: possiamo leggere gran parte della storia della cultura come la storia dei sempre rinnovati tentativi di dare una risposta a tale esigenza. Benché gran parte degli sforzi di ciascuno siano tesi a definire la propria identità personale, indispensabile interfaccia per assicurare validi scambi col mondo sociale, la soddisfazione dei bisogni specificamente umani necessita della costruzione di una più ampia identità, che chiamiamo identità transpersonale, realizzabile attraverso la ristrutturazione dell’ordinario assetto dualistico-egocentrico dei sistemi psicologici, ristrutturazione orientata verso una diversa configurazione, anegoica e transpersonale. La realizzazione di una trascendenza non metafisica, ma psicologica, attraverso quella che è stata chiamata arte, cioè una pratica, della trascendenza, è infatti ciò che la philosophia perennis ha costantemente insegnato. Se analizziamo le differenti dottrine di vita che le diverse culture hanno espresso in risposta alla domanda esistenziale fondamentale sul senso della vita, e quindi anche della sofferenza e della morte, osserviamo che esse sono concordi nell’indicare la necessità – per usare l’espressione di William James – di “portare in campo l’infinito”.
Autotrascendenza è dunque il termine col quale possiamo designare l’obiettivo dei diversi percorsi di autodistanziamento e ancoraggio all’infinito, nel quale risiedono, a un tempo, le possibilità di risposta alla domanda di senso e le basi di una condotta prosociale e altruistica, che veda la solidarietà autorealizzativa non come forma di gratuito e sentimentalistico buonismo, ma come stile di condotta dell’individuo autorealizzato.
Benché quello dell’autotrascendenza sia un insegnamento fondamentale della filosofia perenne, la cultura della modernità ne ha operato, nell’epoca dell’utopismo scientifico e politico, una profonda rimozione. Tuttavia, nel periodo che stiamo attraversando (postmodernità), varie correnti di pensiero sono tornate a confrontarsi con questa tematica e la già trionfante secolarizzazione sembra avere lasciato il campo a un atteggiamento caratterizzato dal riemergere del sacro e da una nuova esigenza di spiritualità (postsecolarizzazione).
Possiamo citare in proposito una voce laica, quella di Arnold Toynbee, lo storico inglese autore di Storia e religione (1984), che ha scritto in proposito:
Il ruolo dell’ego-centrismo nella vita sulla terra è ambivalente. Anzitutto, l’egocentrismo è evidentemente proprio dell’essenza della vita terrestre. La creatura che vive si potrebbe in verità definire un frammento minore e subordinato dell’universo che, grazie anche a un tour de force, si è parzialmente svincolato dall’inerzia e si è costituito come forza autonoma che lotta, ai limiti delle sue capacità, per asservire il resto dell’universo ai suoi fini egoistici. In altre parole, ogni essere vivente è teso a farsi centro dell’universo e, in questo sforzo, entra in conflitto con ogni altra creatura, con l’universo stesso, e con l’energia che crea e sostiene l’universo, vale a dire la Realtà assoluta sottesa ai fenomeni transitori. Questa posizione egocentrica è, per ogni creatura vivente, una necessità di vita, in quanto è indispensabile alla sua esistenza. Una totale rinuncia alla centralità del sé comporterebbe, per una creatura vivente, la completa estinzione della potenzialità insita in quel particolare veicolo di vita, in quel luogo e in quel tempo (anche se non significherebbe l’estinzione della vita); l’intuizione di questa verità psicologica è il punto di partenza dell’itinerario intellettuale del buddhismo [...]. L’egocentrismo è dunque una necessità di vita, ma questa necessità è anche una colpa. L’ego-centrismo infatti è un errore intellettuale, perché nessuna creatura vivente è in verità il centro dell’universo; ed è un errore morale, perché nessuna creatura vivente ha diritto di agire come se fosse il centro dell’universo. Non ha diritto di trattare le creature sue simili, l’universo e Dio o la Realtà assoluta come se esistessero semplicemente per soddisfare le richieste di una creatura ego-centrica. Persistere in questa erronea fede e agire in base a essa è appunto la colpa che nel linguaggio della psicologia greca è chiamata hybris; e hybris è anche l’orgoglio smodato, criminale e suicida che conduce Lucifero alla caduta (come la tragedia di vivere è presentata nel mito cristiano).
Dato dunque che l’ego-centrismo è sia una necessità di vita sia, ad un tempo, un peccato che comporta una nèmesi, ogni creatura vivente si trova in un dilemma per tutta la durata della sua esistenza. Una creatura vivente può mantenersi in vita solo se, e fino a che, riesce a evitare il suicidio tramite la auto-affermazione, e l’eutanasia grazie alla rinuncia al sé.
La via mediana tra i due rischi è stretta come la lama di un rasoio e il viandante deve mantenere l’equilibrio resistendo costantemente alla fortissima tensione di due poli che lo attraggono verso l’abisso, tra i quali deve a fatica aprirsi la via (p. 18 s.).
La via di mezzo sembra dunque, nonostante la difficoltà di percorrerla, quella che consente di rimanere vivi, evitando, da un lato, il suicidio della dismisura e, dall’altro, l’eutanasia della rinuncia.
3. Nel percorrere la via del proprio sviluppo, l’uomo vive i progressivi distacchi e le situazioni di separatezza come laceranti ferite. La psicologia transpersonale, riesaminando le psicologie spirituali incorporate nelle dottrine di vita delle religioni universalistiche (psicologie che sono in grande misura già “pronte” per essere tradotte nei termini della psicologia occidentale), sta operando, per usare una espressione di Jung, come un mediatore gnostico collettivo, capace di offrire una strada con cui la saggezza eterna può fare nuovamente il suo ingresso per infondere e magari trasformare la cultura occidentale (Walsh).
3.1. Tra le dottrine di vita al centro di questa svolta culturale, una grande attenzione viene oggi rivolta a quelle di origine orientale. Non va certo negato che, in questo, possa giocare un certo peso la seduzione della novità e delle mode, ma l’esigenza dell’incontro con le dottrine orientali ha ben altro spessore. Esso sembra infatti sostenuto da profonde insoddisfazioni e da fondate speranze. L’insoddisfazione è per le rimozioni o per il tipo di risposte offerte dalla nostra cultura, dall’unilateralità della visione guidaico-cristiana e delle sue eredità secolarizzate (scientifico-positivistiche e politico-utopistiche, oggi difficilmente riproponibili), dalla presenza di perversioni fondamentalistiche nelle religioni monoteiste, dalla stessa “dimenticanza” delle pratiche spirituali proprie della tradizione ascetica cristiana a fronte dell’importanza assegnata dalla spiritualità orientale alla pratica e alla disciplina spirituale come strumenti di trasformazione interiore. Dall’altro lato, sembrano scorgersi molti elementi di affinità tra le culture orientali e talune delle più vive esigenze dell’Occidente post-moderno, come quella della costruzione di un nuovo e più armonioso rapporto con l’ambiente, il bisogno di attuare una ecologia della mente fondata su una psicologia spirituale capace di fornire articolate pratiche di autocontrollo, un corretto lavoro sulle emozioni e un uso controllato dell’immaginario: in altre parole, l’esigenza di giungere a un’autorealizzazione che consenta un benessere da vivere qui e ora e non dopo la morte o in un mondo futuro.
Parlando di Oriente, dobbiamo domandarci se ci sia un denominatore comune ai vari Orienti coi quali veniamo a confrontarci, non tanto quelli geografici, ma gli Orienti del pensiero. Per quanto sia difficile rispondere affermativamente a tale domanda, un denominatore comune possiamo individuarlo nello stile di risposta alla domanda di costruzione della identità transpersonale, cioè nel modo in cui si configura il rapporto con la Realtà assoluta e nella concezione e nel peso che vengono assegnati all’io individuale, caratterizzati da un depotenziamento del centrismo egoico a vantaggio di un poli- o onni-centrismo. L’obiettivo di ogni disciplina trasformativa, indipendentemente da metodi, terminologie e interpretazioni, è infatti individuabile nella trasformazione della coscienza del praticante, realizzata con la scomparsa o meglio – se mi si consente l’impiego di un ossimoro – con una riduzione espansiva del piccolo io, ottenuta scalzando l’io dalla mente (Box 3).
Se è nella coscienza che si produce la separazione originaria (la lontananza da Dio nella tradizione giudaico-cristiana) sarà proprio nella trasformazione della coscienza che la ferita potrà essere curata. La coscienza dualistica e discriminante, che del principio di individuazione è espressione evolutiva e strumento indispensabile al servizio della sopravvivenza, non è più di aiuto di fronte al vissuto di sofferenza originato dalla separatezza né è in grado di dare significato alla condizione di bisogno come condizione costitutiva del vivente. Occorre, per questo, operare un grande cambiamento, una rottura di livello per cui la coscienza del limite si apre all’infinito, il frutto della sofferenza diviene il nutrimento della liberazione e la coscienza dell’ignoranza (avida) la condizione di illuminazione di una mente oscurata. Questa trasformazione è quella che le tradizioni spirituali hanno sempre sottolineato, indicando l’obiettivo della costruzione di un uomo nuovo, che esca dalle angustie del proprio io “separato” e possa quindi (ri)trovare la sua profonda unità con la natura, con gli altri, con la totalità del reale. L’io empirico apre la sua limitata identità biografica a una identità transpersonale, ritrova la sua “solidarietà” col mondo e con gli altri, scopre il suo legame con la grande forza della Vita universale, di cui vive e per cui vive: nella coscienza così trasformata, la separazione si fa unità, la mancanza pienezza, la miseria ricchezza.
Come veniva ben sottolineato dall’insegnamento di Gurdjieff, il piccolo e limitante “sé” della vita quotidiana, il sé che insiste sui suoi diritti personali e nel suo isolamento, non è più lì a separarci da tutto il resto, e in sua assenza si viene accolti in un ordine estremamente più vasto di esistenza, che è comune a tutti i viventi. La separazione è terminata e, mentre il clamore del pensiero interno si spegne nel silenzio interiore, emerge un soverchiante senso di “essere” (Walker, 1976, p. 34).
L’ego, è bene ricordarlo, nella prospettiva del pensiero orientale viene ridimensionato non attraverso la lontananza della trascendenza, ma proprio mediante un rapporto di partecipazione che svolge un ruolo antidistacco. La speculazione indiana, che ha posto al centro della sua attenzione la domanda “Chi sono io?”, ha cercato per secoli di darle una risposta non in termini di “astratta” filosofia, ma in termini di pratica di vita e, potremmo dire, di psicologia: di qui l’attuale interesse per le risposte che questa tradizione può suggerire. La ben nota formula vedantico-upanishadica:Tat Tvam Asi [Tu sei Quello], indica la via dell’autorealizzazione nella dilatazione degli orizzonti della coscienza, nel salto di livello al di là della singola, biografica, determinata e circoscritta individualità. Nella consapevolezza della nuova più profonda identità si esprime la coincidenza tra il Sé, il noumeno in noi, e il Quello, la Realtà ultima, una e assoluta. Le scritture esprimono questa (ri)trovata unità con l’Uno (cui si dà il neutro nome di Quello) e la raggiunta pienezza ottenuta dalla coscienza di essere Lui. L’autotrascendenza, il raggiunto atteggiamento anegoico, viene celebrata nell’atteggiamento di una matura equanimità, che può forse ricordarci la dottrina dell’“atarassia” delle scuole post-aristoteliche, rispetto alla quale non vanno tuttavia sottovalutate le notevoli differenze.
3.1.1. In uno dei più grandi testi non solo della tradizione hindu, ma della spiritualità orientale in genere, la Bhagavad-Gita [Il canto del glorioso Signore], leggiamo le parole con cui il dio Krsna si rivolge al guerriero Arjuna:
Se un uomo ha soggiogato sé stesso ed è in pace, il suo supremo Sé è in perfetto raccoglimento, indifferente a freddo e caldo, piacere e dolore, e così pure a onore e disonore. Con l’animo appagato dalla conoscenza e dalla consapevolezza, saldo sulla vetta, i sensi domati, lo yogin è chiamato “consapevole e attento”: sono uguali per lui una zolla, un sasso o un pezzo d’oro. Egli tutto sovrasta, e considera in modo equanime persone affezionate, amiche, nemiche, indifferenti, neutrali, odiose, parenti, e anche buoni e malvagi [...]. Così soggiogando costantemente sé stesso e controllando la propria mente, lo yogin attinge infine quella pace che in me ha il suo compimento e che rappresenta il momento più alto del nirvana (VI, 7-9, 15).
In Krsna, fondamento di ogni cosa, convergono e si ritrovano i due principî essenziali della fede hindu: l’unica Realtà, Verità assoluta e indicibile Legge cosmica, da un lato; norma universale e quindi anche norma del comportamento umano, dall’altro:
Io sono infatti il supporto del Brahman inalterabile e immortale, e del perenne Dharma e della perfetta felicità (XIV, 27).
La via attraverso la quale realizzare la liberazione è qui individuata nello bhakti yoga, lo yoga devozionale, caratterizzato dal non-attaccamento al frutto delle azioni, tratto peculiare di questo insegnamento. Infatti, non è l’azione a essere male, ma l’attaccamento. Nella devozione a Krsna, le azioni sono compiute senza nessun “interesse” personale, ma agite come per conto di terzi e tutte sono offerte al dio. Così Krsna, esortando il devoto, dice:
Grazie a questo legame d’amore, egli mi riconosce quale realmente sono e scopre quanto grande io sono: dopo avermi così conosciuto secondo verità, egli subito penetra in me. Se un uomo prende in me rifugio, pur continuando a compiere azioni di qualsiasi tipo, per mia grazia ottiene l’inalterabile meta perenne. Spogliandoti in cuor tuo di tutte le azioni per offrirle a me, in me assorto, trovando rifugio in quello yoga che è fatto di consapevolezza, abbi sempre il pensiero rivolto a me (XVIII, 55-57).
“Distaccandosi da tutte le azioni” (XII, 6) per offrirle alla divinità, il guerriero Arjuna, come anche ogni “guerriero” del quotidiano, può – secondo le parole di Krsna – rimanere puro e imperturbato:
Deponendo in me tutte le azioni, con l’animo raccolto in quella Realtà che si manifesta nel Sé, privo di speranza e di ogni idea di possesso, combatti libero dall’angoscia (III, 30); consacra interamente a me il tuo agire (XII, 10); nel pieno dominio di te stesso, abbandona il frutto di tutte le azioni (XII, 11).
3.1.2. È opportuno, a questo punto, passare a esaminare un altro fondamentale orientamento della spiritualità orientale, il Buddhadharma (l’insegnamento buddhista), che sembra essere quello maggiormente idoneo a venire assimilato dalla mentalità occidentale, come peraltro è testimoniato dalla sua crescente penetrazione culturale. Esso, sul comune sottofondo dottrinale e yogico dell’India antica, ha introdotto la dottrina della vacuità. Non si insisterà mai abbastanza sulla differenza tra vuoto o vacuità e nulla (differenza che anche i due caratteri cinesi, impiegati per rappresentare questi concetti, sottolineano; Box 4), il vuoto riferendosi, in questo contesto, non alla esistenza dei fenomeni, ma alla loro intima natura. I fenomeni, secondo la visione buddhista del mondo, sono infatti connotati da tre fondamentali caratteri: vacuità (anatta) o assenza del sé o dell’ego, impermanenza (anicca), insufficienza o insoddisfacenza, imperfezione, sofferenza (dukkha). Ciò che è impermanente è soggetto a sofferenza, perché oppresso dal sorgere e decadere, e ciò che è impermanente e insoddisfacente si rivela privo di un sé non essendo in grado di controllare e superare né il suo divenire né la sua insufficienza/sofferenza.
Per proteggersi dal dolore l’uomo costruisce la casa del suo io separato, cementandola con l’illusione di un sé reale e indipendente che cerca di affermarsi in un mondo ritenuto anch’esso reale e indipendente. Ma la casa che dovrebbe proteggerlo è anche la casa della brama, della follia, la prigione dell’ignoranza e degli attaccamenti da cui occorre liberarsi. Il Buddha scopre finalmente l’“inganno” e in questa scoperta è la liberazione:
Lungo innumerevoli esistenze ho corso, cercando il costruttore della casa [...]. O costruttore! sei stato scoperto, non farai di nuovo la casa! Tutte le travi sono spezzate, la capriata è crollata; lo spirito, cancellata ogni concezione, ha estinto la sete (Canone buddhista, Dhp.).
Estinta la brama è raggiunta la pace del nirvana, al di là del dualismo delle emozioni e del dualismo delle concezioni: è venuta meno la condizione della rinascita, è condotto a termine il tirocinio brahmico, è compiuto quanto doveva essere compiuto, non vi sarà più luogo per questo o quello (Canone buddhista, M.N.).
Quando la tradizione buddhista sottolinea che la mente individuale è contaminata dall’ignoranza e dagli attaccamenti, ma rimane in sé – come gli illuminati comprendono – eterna, immutabile e immacolata, ci assicura che è proprio nella profondità della coscienza che possiamo trovare la via di uscita dalla contraddizione esistenziale fondamentale.
Comprendendo la fondamentale verità del mondo dei fenomeni e dell’esistenza umana, e cioè che essi essendo sostanziati di vacuità sono privi di esistenza inerente e pertanto completamente interdipendenti, comprendiamo anche che vivere in armonia con gli altri e con la natura è il modo di vivere che coincide con la verità della natura profonda della realtà e non con le ragioni dell’io egoistico. È importante osservare che, con questa così comprensiva visione egualitaria, il buddhismo offre il più ampio fondamento per estendere a tutto l’universo, e non soltanto agli altri esseri umani, il nostro comportamento di rispetto e di benevolenza. Buddha, in questo senso, è il luogo ove il Dharma (che, letteralmente, dalla sua radice dhr significa ciò che sorregge e sostiene il mondo), ossia la Grande legge della Vita universale, vera radice di tutti i fenomeni, realizza la sua autocoscienza. In altre parole, anche se gli individui singoli sembrano vivere una esistenza separata, fondamentalmente ciascuno è manifestazione della Vita universale e tutti sono uniti da una basilare solidarietà.
Cuore dinamico del reale, la Vacuità deve essere essa stessa negata per porsi come genuina Vacuità, realizzando così la vacuità della Vacuità. Una Vacuità svuotata significa pienezza e il Vuoto viene così a coincidere col mondo della molteplicità fenomenica. Dice il Sutra del cuore della perfezione di saggezza: “La forma è vacuità; la vacuità è forma. La vacuità è niente altro che forma e la forma è niente altro che vacuità”.
“Chi sono io?” “Chi sta domandando sulla natura di Buddha?” Inseguendo il nostro io con una tecnica incalzante che non consente di fuggire, finiamo per scoprire che nulla resta di cui si possa dire che ci è proprio, che giustifichi l’illusione di essere un’entità autonoma, immutabile, autoconsistente... L’io si dilata ed esplode nella Vacuità: proprio la consapevolezza della sua inconsistenza rivela la sua vera realtà, la sua più profonda identità, la coincidenza con la natura buddhica presente al fondo di ogni fenomeno. Risiedendo nell’interrogazione senza tregua, nell’essere puro testimone costantemente vigile, senza attaccamenti e avversioni, l’interrogante si rivela intimamente coincidente con la Realtà ultima. Applicando la coscienza-testimone a tutto ciò che è stato utilizzato per definire l’identità personale, a tutto ciò con cui ci si è identificati, a poco a poco, attraverso l’opposto processo di autodistanziamento e di disidentificazione, lasciando andare, abbandonando, “sacrificando” ciò che è me e non-me, l’io convenzionale viene progressivamente “ridotto” e infine espulso; della personalità, che ha attraversato emozioni, pensieri, relazioni, resta la pura soggettività dell’osservare, di cui non può più darsi proprietà, perché nasce in me ed è più di me.
Lentamente, – scrive Ken Wilber – in questa terapia di dis-identificazione, scoprirete che il vostro sé individuale [...], per cui avete finora lottato per difenderlo e proteggerlo, inizia a diventare trasparente e a scomparire. [...] Iniziate a sentire che ciò che succede al vostro sé personale – desideri, speranze, auspici, dolori – non è questione di vita o di morte, perché nel vostro intimo esiste un sé più importante non toccato da queste fluttuazioni periferiche, da onde superficiali, che turbano parecchio, ma sono di scarsa consistenza. [...] L’interno che sente il dolore è senza dolore; ciò che sente la paura è senza paura; ciò che percepisce la tensione è senza tensione. Testimoniare questi stati significa trascenderli.
Colui che riuscirà a essere veramente disidentificato sentirà il dolore della storia individuale, ma potrà non soffrire di soffrire, distanziandosi anche dalla sofferenza perché neppure la sofferenza gli appartiene fino in fondo! Dall’io personale si passa all’io transpersonale. “Tu sei Quello”, “Tu sei Buddha”, “Tu sei Tutto”: il “totalmente altro” si rivela ora come il “totalmente dentro”. Liberandoci “dall’abbagliata coscienza dell’Io, colpevole della dolorosa illusione del mondo, [possiamo] giungere a quell’altro polo spirituale, in cui il mondo è abolito come illusione” (Jung) e divenire consapevoli di dimorare nel cuore stesso dell’Assoluto.
Quando, per il misterioso concorrere di cause esterne e interne, l’individuo sente di non poter fare a meno di indirizzare tutte le sue energie verso il Buddha e il Buddha si volge verso l’individuo, si determina quel risveglio della mente che aspira all’illuminazione (bodhicitta) e spinge a seguire la via del Buddha, a intraprendere il cammino di disciplina spirituale: è il momento della “conversione” o grande risoluzione, in cui l’essere che aspira all’illuminazione (bodhisattva), sostenuto dalla fede, pronuncia i grandi voti, è pronto a intraprendere il suo cammino e a iniziare il viaggio nella pratica dei comportamenti virtuosi (o palamita).
La concezione del nirvana, ponendosi nella dottrina della Via di mezzo o del Grande Veicolo (Mahayana) come liberazione da ogni tipo di dualismo (compresi quelli di bene/male e piacere/dolore: dualismi fondati sul dualismo radicale io/non-io), comporta che la liberazione venga in sostanza a consistere nella liberazione dall’egocentrismo, cioè nella liberazione dall’illusione dell’io separato e contrapposto al non-io. L’ideale di perfezione non è più dunque quello dell’asceta isolato, distaccato dal mondo, ma quello del bodhisattva che vive nel mondo e si pone al servizio degli altri. Egli non dimora nel deserto del suo orgoglio spirituale, insensibile alla sofferenza dei non illuminati: l’affanno degli esseri nella miseria e nell’illusione bordeggia e circoscrive la sua illuminazione soggettiva, preme sul suo cuore, che ha scelto la via dell’assoluto non dualismo e lo spinge all’azione compassionevole. Lungi dal godere di una felicità separata, il bodhisattva soffre di una “sofferenza vicaria”, con gli altri e al posto degli altri.
La missione del bodhisattva, purificatore del mondo inquinato dall’ignoranza e dall’egoismo, è quella di prendere su di sé la sofferenza degli altri per purificarla senza lasciarsene contaminare, come il fiore del loto che ha le radici nel fango ma si conserva assolutamente pulito. Come afferma Saicho, fondatore (nell’anno 806) della Scuola Tendai giapponese:
Prendere il male su di sé e dare bene agli altri, dimenticare sé stessi e lavorare a beneficio degli altri, questo è l’obiettivo ultimo della compassione.
Il concetto della comune natura buddhica e la rassicurazione ripetutamente fatta dal Buddha che tutti potranno raggiungere l’illuminazione non restano pure affermazioni teoriche, ma divengono la vivente realtà della pratica dei bodhisattva. La natura compassionevole del Dharma si riflette dunque nella compassione che diviene il centro della pratica e dà significato al cammino di purificazione spirituale. Se diveniamo profondamente convinti della comune natura buddhica, cioè dell’essenza sacra di tutti gli esseri, ci sarà più facile capire che, al pari di noi stessi, tutti gli esseri senzienti desiderano esseri felici. Anche se nelle forme meno condivisibili, anche se con i comportamenti più offensivi verso noi o gli altri, ciascuno è, a ben guardare, spinto dal comune desiderio di raggiungere la felicità. Riflettendo su questa universale motivazione, in cui si esprime la spinta vitale di tutti gli esseri senzienti, sarà dunque sempre possibile trovare motivi di solidarietà e fraternità. Per questo, il filosofo e santo buddhista Santideva (VII/VIII sec. d.C), nel suo Bodhicaryavatara [Il cammino verso l’illuminazione] scrive un magnifico inno alla compassione, compassione che trova il suo fondamento nella comune aspirazione degli esseri senzienti:
Dovrei prima di lutto sforzarmi di meditare sull’eguaglianza di me e degli altri, Io dovrei proteggere tutti gli esseri come faccio con me stesso perché siamo eguali nel desiderare il piacere e nell’evitare il dolore.
Sul viale d’ingresso del tempio zen Daihonzan-Soji-ji, in Yokohama, un grande mestolo accoglie i visitatori, ricordando la compassione di chi, umilmente – come un mestolo – si consuma, giorno dopo giorno, al servizio degli altri. La compassione, quando ha il sapore della Vacuità, in quanto fatta di equanimità e di dono stesso del dono, rende possibile la liberazione, nella misura in cui è capace di operare un salto di livello che purifica e illumina, cambia significato alla sofferenza, fa uscire dal negativo, vissuto come “disgrazia” individuale, dando di ogni miseria una lettura transpersonale. Attraverso questo salto di livello, il “liberato” non soffre (depressivamente) di soffrire, come non gode (narcisisticamente) di gioire, tutto accogliendo e riportando oltre il dualismo e oltre sé. Con altre parole, scriveva Simone Weil:
Si finisce per raggiungere qualche cosa che non è più la tribolazione, che non è più la gioia; non è che l’essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, ed è lo stesso amore di Dio.
4. Le prospettive esaminate ci indicano dunque una possibile coincidenza di autosviluppo e condotta morale, ove questa, nella sua forma di solidarietà autorealizzativa, si configura come costante e operante espressione del percorso di perfezionamento spirituale. Vorrei ora concludere con una considerazione di tipo applicativo pedagogico. Ho ricordato come la psicologia umanistica abbia preso, quale suo punto di partenza, la condizione umana, considerandola da un punto di vista che viene in gran parte a coincidere con la visione del mondo delle più grandi tradizioni spirituali orientali. L’uomo, come essere impermanente e privo di esistenza autonoma, è dipendente da relazioni, cause e condizioni: compare nel mondo senza che lo desideri e lo approvi, ed egualmente senza desiderarlo né approvarlo ne è allontanato. Proprio da questa incertezza e indominabilità, il Buddha ricavò l’insegnamento dell’assenza dell’ego (o della esistenza inerente). Ma l’uomo, a differenza degli animali, osserva Erich Fromm,
essendo dotato di ragione e di immaginazione, non può accontentarsi della passiva condizione di creatura, di dado gettato fuori dal bossolo. Egli è mosso dallo stimolo di trascendere il suo stato di creatura e l’accidentalità e passività della sua esistenza, diventando “creatore”.
Cosciente di essere creato e di poter creare, per farsi partecipe della grande catena della vita universale l’uomo crea vita, oggetti, arte, idee:
nell’atto creativo – scrive ancora Fromm – trascende sé stesso come creatura, eleva sé stesso al di sopra della passività e accidentalità della sua esistenza entro il regno della volontà creativa e della libertà. Nel bisogno umano di trascendenza risiede una delle radici dell’amore, come anche dell’arte, della religione e della produzione materiale.
Se vogliamo lavorare per lo sviluppo di abilità prosociali e prevenire i rischi dei comportamenti antisociali, l’educazione all’autotrascendenza, prima di offrire espressione a un desiderio maturo di autorealizzazione spirituale, nell’età evolutiva mi pare si possa configurare proprio come educazione alla creatività. La creazione presuppone attività, interessamento, amore; è questo un modo di riscoprire e riaffermare quell’amore e quella difesa della vita, di cui oggi si parla spesso in modo retorico se non addirittura equivoco. Giustamente Fromm si domanda e osserva:
Come potrebbe allora l’uomo risolvere il problema di trascendere sé stesso se non fosse capace di creare, se non potesse amare? C’è un’altra risposta a questo bisogno di trascendenza: se io non posso creare la vita, posso distruggerla. Anche distruggere la vita fa sì che io la trascenda. Effettivamente che l’uomo sia capace di distruggere al vita è miracoloso quanto il fatto che egli sia in grado di crearla, perché la vita è il miracolo, l’inesplicabile. Nell’atto di distruzione l’uomo mette sé stesso al di sopra della vita, trascende sé stesso in quanto creatura [...]. Creazione e distruzione, amore e odio non sono due istinti indipendenti l’uno dall’altro. Entrambi sono risposte allo stesso bisogno di trascendenza e la volontà di distruzione deve sorgere quando non si sia potuto soddisfare la volontà di creazione.
La distruttività esprime dunque una difesa contro l’odio e il disprezzo di sé allorquando all’individuo manchi la possibilità di sentirsi amato. Rinchiudendosi sempre più in sé e sempre più separandosi, egli diviene prigioniero di una spirale di sofferenza, non riesce ad autotrascendersi e a scoprire dentro di sé la grande forza della Vita cosmica e a vivere la propria vita come partecipazione all’opera di creazione universale. Educare all’amore e al rispetto della vita significa allora educare a partecipare al processo creativo e a concrete abilità di autotrascendenza, uscendo dalla separatezza dell’io individuale. Vorrei ricordare due frasi, direi quasi due slogan, che mi sembra possano bene condensare le considerazioni fin qui svolte. Il primo, il più vicino a noi nel tempo, è quello lanciato dal poeta mito del Sessantotto, Allen Ginsberg: “Allargate l’area della coscienza”. È un messaggio che ci riporta, quasi a rimarcare quella continuità della philosophia perennis a cui mi riferivo all’inizio, alla espressione, di qualche millennio precedente, del profeta Isaia che così esortava: “Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga i cordami, rinforza i pioli” (Is., 54, 2). Entrambe, queste esortazioni costituiscono non un effimero invito, ma un forte richiamo a individuare nell’autotrascendenza e nella costruzione di un io universalizzato i soli veri e non effimeri strumenti di guarigione spirituale dalle angustie dell’egoismo.
Per approfondimento:
Bhagavad-Gita (Il canto del glorioso Signore) , tr. it., Cinisello Balsamo, Edizioni S. Paolo, 1994.
Canone buddhista, tr. it., Torino, UTET, 1976.
A. Catemario, La contraddizione culturale nelle società complesse: l’etica universale, Roma, Kappa, 1990.
E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea, tr. it., Milano, Edizioni di Comunità, 1976.
R. Venturini, Coscienza e cambiamento, II ed., Assisi, Cittadella Editrice, 1998.
J. Welwood, L’incontro delle vie, tr. it., Roma, Astrolabio, 1991.
Relazione tenuta al convegno Abilità prosociali e prevenzione del rischio, promosso dal Centro interuniversitario per la ricerca sulla genesi e sullo sviluppo delle motivazioni prosociali e antisociali e dalla Fondazione Cristina Mazzotti presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano) il 13 ottobre 1997
Pubb. in Dharma, I, n.1, ott. 1999
Box 1
LE MOTIVAZIONI UMANE
Motivazioni di sopravvivenza e sicurezza (motivazioni carenziali)
Motivazioni di soddisfazione e stimolazione (motivazioni di abbondanza) RELATIVE ALLA CORPOREITÀ
evitare situazioni di fame, sete, mancanza di ossigeno, estremi di temperatura, fatica, malattia e altri stati costrittivi; ottenere esperienze sensoriali gradevoli, piacere sessuale, benessere fisico, movimenti liberi.
RELATIVE AL RAPPORTO CON L’AMBIENTE
evitare oggetti (e situazioni) pericolosi e disgustosi; ricercare oggetti necessari alla sopravvivenza e alla sicurezza; conservare un ambiente sicuro, stabile, confortevole; ottenere oggetti e beni; comprendere l’ambiente, risolvere problemi; giocare, divertirsi; ricercare ambienti nuovi e stimolanti, avventura, conoscenza, movimento, affermazione.
RELATIVE AI RAPPORTI INTERPERSONALI
evitare conflitti interpersonali e rapporti ostili; conservare stato sociale, prestigio, appartenenza a un gruppo; adeguarsi ai valori e agli standard di gruppo; ricevere aiuto e cure da parte di altri; ottenere potere su altri; esser capaci di offrire amore; godere della compagnia di altri; aiutare e curare altri; essere indipendente; socialità; affermazione.
RELATIVE AL RAPPORTO CON SÉ STESSI
evitare sentimenti di inferiorità nei confronti degli altri e del sé ideale, sentimenti di colpa, paura, vergogna, ansia; avere fiducia in sé; esprimersi; essere soddisfatti; trovare un significato per la propria vita.
Box 2
BISOGNI “UMANI”, secondo FROMM
Correlazione (contro narcisismo)
amore come bisogno di unione con qualcuno o qualche cosa, al di fuori di sé stessi, trascendendo la propria esistenza individualizzata e sentendosi portatori di quei poteri attivi che costituiscono l’atto di amare; la sollecitudine e la responsabilità denotano il fatto che l’amore è un’attività, non una passione da cui si è sopraffatti, non un affetto da cui si è “affetti”.
Trascendenza (contro distruttività)
bisogno di trascendere lo stato di creatura passiva (è anche la base della risposta distruttiva).
Radicamento (fraternità contro incesto)
bisogno di sostituire le radici naturali con nuove radici umane
Identità (contro indistinzione)
bisogno di dire “io sono io”, di essere soggetto delle proprie azioni; preoccupazione di raggiungere uno status e di appartenere a un gruppo (è anche la base dell’individualità illusoria e del conformismo).
Orientamento (contro irrazionalità e disorientamento)
bisogno di avere un orientamento nel mondo, interpretando e correlando la molteplicità dei fenomeni in modo razionale (senza proiezioni e razionalizzazioni).
Devozione (contro mancanza di significato e dedizione)
la comprensione intellettuale del mondo per essere soddisfacente deve contenere anche elementi sensoriali e affettivi, espressi nel rapporto con un oggetto di devozione, che dia significato alla esistenza e alla posizione nel mondo.
Box 3 IL CAMMINO DI AUTOSVILUPPO
L’AUTOREALIZZAZIONE, COME (RE)INTEGRAZIONE NEL MONDO, RICHIEDE
- la ristrutturazione dell’assetto (dualistico/ego-centrico) e
- il superamento dei confini dei sottosistemi psicologici come si presentano nella loro configurazione ordinaria.
lo stato di coscienza transpersonale si realizza mediante una pratica, rappresentata da una via (o sentiero, cammino, etc.) di purificazione (o di liberazione, perfezione, individuazione, etc.).
Box 3
Caratteri cinesi per Nulla e Vacuità