Portare in campo l’infinito
(intervista a cura di Roberto Minganti e Fiorella Oldoini)
Riccardo Venturini professore di Psicofisiologia clinica presso l’Università “La Sapienza” di Roma è un punto di riferimento per quanti s’interessano di Buddismo mahayana. Promuove importanti iniziative volte ad attuare il dialogo interreligioso e a realizzare una società pacifica. Conosce a fondo la cultura occidentale e quella buddista, cosa questa che gli consente di essere un vero e proprio “ponte” tra la nostra spiritualità e quella orientale.
Professore come è arrivato a interessarsi di Psicofisiologia?
Quando ero studente, per chi volesse dedicarsi agli studi psicologici, dato che non esisteva una facoltà di psicologia, era necessario passare attraverso gli studi filosofici o medici. La mia scelta è stata quella, certo un po’ faticosa, di non trascurare nessuno dei due campi e quindi di avere tanto una formazione filosofica che una medica. Ciò mi ha permesso di assorbire, da un lato, gli insegnamenti dell’idealismo italiano (di Croce, Gentile e Spirito), dell’esistenzialismo francese e del marxismo gramsciano; dall’altro, soprattutto durante un periodo trascorso in Francia, quelli della psichiatria fenomenologica e della scuola psicoanalitica di Parigi (di Lagache e Lacan). La psicologia fisiologica rappresentava un po’ il punto medio tra questi due approcci, e per me si configurò più precisamente attraverso l’incontro con la grande tradizione fisiologica russa di Secenov, Pavlov, Bykov, Anochin, etc., la quale offriva la possibilità di uno studio scientifico della mente, con la costruzione di una psicologia fondata biologicamente, ma non priva di una prospettiva culturale e filosofica. Inoltre, questo indirizzo di ricerca consentiva, attraverso lo studio della patologia cortico-viscerale, di affrontare il campo della clinica e della psicosomatica in una prospettiva diversa da quella offerta dalla psicosomatica a orientamento psicodinamico.
E il Buddismo quando è arrivato?
Proprio nell’ambito degli studi psicofisiologici applicati alla clinica, il mio interesse era rivolto all’ipnosi, al training autogeno, al biofeedback, ma sentivo che queste tecniche, nell’ambito medico occidentale, erano prive di una prospettiva e di un respiro più ampi, a differenza di quanto accade in Oriente per lo yoga o la meditazione. È stata proprio l’esigenza di un completamento spirituale di queste tecniche di modificazione e controllo della coscienza che mi ha fatto avvicinare al Buddismo.
E la scelta della tradizione mahayana ?
Una volta che si incontra il Buddismo, si conoscono le varie scuole e le varie correnti, orientarsi verso la tradizione Mahayana, soprattutto per chi vive in un ambiente laico occidentale, mi sembra abbastanza conseguente. La tradizione Theravada, come è noto, essendo prevalentemente monastica è orientata verso un distacco dal mondo, poco condivisibile dai laici che vogliono vivere il non-dualismo nell’attualità della vita impegnata nel lavoro e nelle relazioni sociali. Dal punto di vista dottrinale poi, trovo per me molto più soddisfacenti le concezioni che il mahayana ha del triplice gioiello (Budda, Dharma e Sangha), del nirvana e della pratica religiosa che conduce all’illuminazione. Le affermazioni che il nirvana coincide col samsara e che la mente di Budda è la nostra stessa mente quotidiana sono la base della redenzione del mondo impermanente e limitato in cui viviamo.
Negli ultimi tempi lei sta rivolgendo il suo interesse agli studi sulla coscienza. C’entra qualcosa il Buddismo con questo nuovo campo d’indagine?
C’entra molto perché il mio interesse attualmente è quello di vedere quali ponti si possano stabilire, nella nostra cultura occidentale, tra la psicologia, la psicoterapia e la spiritualità. La tradizione religiosa buddista, infatti, ha incorporata in sé una serie di tecniche per il controllo mentale e per la modificazione della condotta che sono di estremo interesse. È stata per me una importante scoperta quella della grande ricchezza di psicologia contenuta negli insegnamenti del Dharma buddista e ritengo che essa sia una fonte preziosa di potenziale arricchimento della cultura occidentale. Voglio ricordare che il Budda si presentava più come medico che come filosofo, evitando sempre di farsi irretire dai discorsi sulle grandi problematiche filosofiche circa la finitezza del mondo o l’esistenza del Tathagata o dell’anima dopo la morte. Questo non per agnosticismo o per una dichiarata incapacità della mente a comprendere la verità, ma perché la verità ultima non si raggiunge e non si esprime con l’intelletto discriminante e dualistico. L’intento dell’insegnamento buddista è quello di liberare l’essere umano dalla sofferenza (è nota la parabola della freccia che occorre estrarre senza indugiare in domande sulla sua natura, provenienza, etc.). In altre parole, non è possibile attardarsi nella pura analisi filosofica dei problemi, dimenticando che l’insegnamento buddista si presenta con il carattere di urgenza di un intervento medico volto a liberare l’essere umano dalla sofferenza. Il Budda è il medico, il Dharma è la medicina e il Sangha una sorta di “sanatorio” dove gli esseri umani possono liberarsi dalla sofferenza.
Però, malgrado questa “urgenza terapeutica”, i filosofi buddisti hanno indugiato a lungo sulla teoria, che, attualmente, sta affascinando gli studiosi occidentali, specialmente gli epistemologi. Come vede lei questo crescente interesse verso l’“epistemologia” buddista?
Penso che queste indagini e interpretazioni siano più che legittime, ma che rientrino nell’ambito dei cosiddetti “mezzi abili” (upaya in sanscrito, hoben in giapponese) o mezzi didattici che il Budda adopera per facilitare la comprensione del Dharma a tutti i suoi interlocutori. Nel nostro contesto culturale si pongono dei problemi nuovi rispetto alla diffusione che il buddhismo ha avuto in Oriente e quindi i problemi dell’epistemologia o della filosofia della storia sono importanti per una fioritura del dharma in Occidente. Ma ciò non deve far dimenticare la prospettiva soteriologica del Buddismo e il costante richiamo alla diretta esperienza personale.
Arriviamo all’oggetto della nostra intervista, vorremmo una sua definizione di mente e di coscienza.
Nella sua accezione più generale, per coscienza intendiamo l’esperienza cosciente, consapevole, quella che nei termini più elementari corrisponde alla cognizione che “qualcosa sta accadendo”. Esperienza cosciente, dunque, come presenza di una vita interiore, di un vissuto. Non parliamo qui della coscienza come “cura” rivolta a qualche cosa o come coscienza morale, quindi siamo fuori dei campi semantici di diligenza/negligenza, responsabilità/disimpegno, etc. In questo senso, l’esperienza cosciente è parte fondamentale dell’attività della mente, ove con mente intendiamo la totalità dei fenomeni psichici: fenomeni psichici in atto o potenziali (gli eventi che sono stati o che diventeranno coscienti), della coscienza soggettivamente sperimentata (i fatti psichici propri) o di altri soggetti (ai quali attribuiamo una attività mentale).
Detto questo, dobbiamo essere consapevoli che non abbiamo però definito la coscienza. La coscienza, infatti, è per la psicologia quello che per la fisica sono alcune grandezze fondamentali che vengono assunte senza essere definite. Infatti, se andiamo a cercare nei dizionari delle definizioni di coscienza, troviamo un gioco di sinonimi come ad esempio: “comprensione”, “essere pronti, essere desti”, “consapevolezza”, “presenza mentale”, “eccitazione”, “essere vigili”. Ma tutto questo non direbbe nulla a chi non avesse una conoscenza esperienziale di cosa è la coscienza come vita interiore. La situazione è, d’altra parte, simile a quella che troviamo in altre discipline, quando parliamo ad es., di grandezze fondamentali della fisica, come la lunghezza, la massa, il tempo, la carica elettrica. Questi concetti non vengono definiti dalla fisica, ma vengono assunti dall’esperienza immediata, e attraverso essi si definiscono poi le altre grandezze, che sono dette grandezza derivate. Non è dunque una stranezza che la psicologia non definisca la coscienza, che è la sua grandezza fondamentale.
La coscienza comunque può essere studiata… Certamente. E anche, in qualche modo, misurata; al pari di quanto fa la fisica con le sue grandezze fondamentali: il tempo, ad es., non è definito, però si misurano gli intervalli di tempo… abbiamo gli orologi per questo. Soprattutto in questi ultimi anni, la coscienza è tornata alla ribalta come oggetto di studio della psicologia dopo essere stata rimossa nei decenni precedenti quando era in auge una psicologia comportamentistica che, per essere fedele al paradigma epistemologico delle scienze naturali, aveva rimosso quell’oggetto scomodo che era la coscienza. Le direzioni di studio della coscienza che si sono rivelate più fruttuose sono state quella che ha approfondito i livelli di vigilanza (cioè la capacità di elaborazione delle informazioni e la conseguente organizzazione delle risposte) e quella che ha studiato gli stati modificati di coscienza, gli stati alterati, nel senso di altri o diversi dagli stati ordinari: e questo è di fondamentale importanza nel campo della psicologia dell’esperienza religiosa.
Qual è stato il percorso della psicologia occidentale nello studio della coscienza?La psicologia, per costituirsi come scienza autonoma, ha cercato di assumere il paradigma delle scienza naturali, preferendo studiare il comportamento piuttosto che l’esperienza cosciente. La coscienza è stata messa da parte perché è un oggetto poco o punto maneggevole secondo i criteri del metodo galileiano: i fatti di coscienza non possono infatti essere osservati allo stesso modo in cui sono osservati i fenomeni naturali. In fondo, l’aspirazione del naturalista è quella di fare delle osservazioni e delle misure e alla fine vedere un ago che si sposta su una scala graduata o leggere un contatore. Ma questo non è possibile con l’esperienza cosciente. Va ricordato, comunque, che l’orientamento comportamentista è stato messo in crisi proprio da ricerche che venivano dalla neurologia, dalla psicofarmacologia, dalla neurochirurgia, per cui la psicologia è stata costretta a riprendere in considerazione la coscienza. Va detto che, in parallelo, la psicoanalisi e la psichiatria, proprio perché a contatto con la realtà umana, non avevano mai abbandonato l’interesse per l’analisi della coscienza, basti pensare al posto assegnato dalla psicoanalisi al problema dell’inconscio o alle indagini dei vissuti della psichiatria fenomenologica. Questo interesse però veniva pagato con una sorta di emarginazione di chi seguiva un cammino laterale rispetto a quello della psicologia scientifica accademica. Ma vorrei anche ricordare il più ampio contesto culturale in cui questo cambiamento è avvenuto. Negli ultimi decenni abbiamo potuto assistere al riemergere di un assai vivo interesse per le tematiche della corporeità, della sessualità, del biografico, che dovevano condurre a un contatto con quanto le grandi tradizioni viventi, i cambiamenti del costume, le discipline antropologiche e storico-religiose offrivano come oggetto per più sapienti ricognizioni e per la costruzione di una nuova geografia della mente. Il bisogno di spezzare le catene della vecchia razionalità occidentale, sentito dapprima da avanguardie artistiche e letterarie del Novecento, poi da psicoanalisti della cosiddetta “sinistra freudiana”, da filosofi e saggisti, si veniva allargando per raggiungere larghe masse e determinare l’emergere di “nuovi soggetti”. Alla vecchia “coscienza di classe”, si venivano infatti affiancando (e via via sostituendo) la presa di coscienza dei giovani e delle donne; la soggettività, sentita come nuovo valore, si affermava con l’emergere del privato accanto al politico, con le richieste di partecipazione e di tutela di nuovi diritti e nuovi spazi di libertà (come si esprimeranno nella “rivoluzione sessuale” o nelle iniziative per la tutela dell’ambiente, dentro e fuori i luoghi di lavoro, col crescere della nuova “coscienza ecologica”, etc.), con la cosiddetta rivoluzione psichedelica, con il riferimento, in culture complesse, polietniche e multireligiose, alle dottrine di vita di origine orientale, nella convinzione che i nuovi bisogni non potessero trovare più nelle vecchie organizzazioni politiche o nella tradizione giudaico-cristiana né possibili canali espressivi né validi strumenti interpretativi. Pur se quello che fu definito, negli USA e in alcuni paesi europei, il “movimento della nuova coscienza” è sostanzialmente scomparso come forma di aggregazione e di espressione spontaneistica e ingenua (col necessario passaggio a una fase di rielaborazione e di critica), l’onda lunga delle sue esigenze più autentiche non è certo esaurita e ha ormai permeato molta parte del nostro costume, della nostra vita sociale e, vorremmo augurarci, politica.
Non era solo la psicologia a interessarsi della coscienza, pensiamo anche alla filosofia, alla fenomenologia. Secondo lei quali sono le differenze più rilevanti tra Oriente e Occidente, nello studio sulla coscienza?
Quando parliamo di questi indirizzi di pensiero, parliamo sempre di indirizzi culturali che erano considerati a margine delle discipline scientifiche. Ma comunque, a parte questo, credo che sia indispensabile ricordare una fondamentale differenza tra la tradizione occidentale e quella orientale: la filosofia occidentale anche se ha parlato della mente ha sottovalutato, a differenza dell’Oriente, l’aspetto esperienziale e l’aspetto della pratica. La filosofia occidentale ha cercato di individuare dei valori, ma difficilmente ha detto all’essere umano come concretamente comportarsi. Le filosofie orientali, invece, si sono quasi sempre presentate come dottrine di vita, dottrine che, pur avendo un contenuto teoretico, non separano la teoria dalla prassi. Questo, mi sembra, un fatto che distingue profondamente le due culture e spieghi uno dei costanti motivi di interesse verso le filosofie e le religioni orientali.
Ma a lei che può attingere al patrimonio “intuitivo” del Buddismo, i panni dello scienziato “di laboratorio” non vanno un po’ stretti?
Vorrei sottolineare che, recentemente, l’esigenza di fondazione scientifica di una psicologia non-naturalistica (torniamo ai problemi epistemologici!) ha portato a ridiscutere i paradigmi delle scienze: la psicologia e le scienze umane non debbono rinunciare al rigore scientifico, ma questo non significa che debba essere assunto il paradigma delle scienze naturali. Per la psicologia si tratta di uscire sia da una “psicologia in prima persona” (la pura esperienza intraducibile) che da una “psicologia in terza persona” (una psicologia che descriva solo dall’esterno) e fondare invece una “psicologia in seconda persona”, quella per cui io e te in dialogo scopriamo la verità nell’interazione, interazione in cui viene rispettata l’esigenza del soggetto che dice: «non parlare di me, parla con me». Questo approccio non è meno scientifico di altri, è diverso.
Nuove scoperte scientifiche si fanno strada: secondo il fisico inglese Roger Penrose, ad esempio, sarà possibile inventare una fisica della coscienza, cioè comprendere i meccanismi della coscienza con le leggi della fisica quantistica. Lei cosa ne pensa?
Lo studio delle attività mentali può certamente effettuarsi in termini di eventi e di funzioni fisiologiche: è lo studio dei cosiddetti “correlati”, cioè lo studio dei fenomeni biologici che si svolgono parallelamente al fenomeno psichico che vogliamo indagare. È un campo di ricerca in costante sviluppo e che si avvale di tutte le possibilità che la tecnologia mette a mano a mano a disposizione della psicologia fisiologica. Ma debbo ancora ribadire che queste ricerche trovano il loro significato in rapporto allo studio fenomenologico, cioè al lato soggettivo, degli eventi mentali, altrimenti sarebbe come se, trovandoci di fronte a un libro scritto in caratteri di ignoto significato, pensassimo di decifrarne il senso attraverso un’analisi sempre più accurata e minuziosa della qualità della carta e dell’inchiostro, trascurando proprio lo studio della lingua e dei caratteri. Senza inchiostro e senza carta non si scrive una poesia, ma pensare di comprenderne il senso attraverso l’analisi chimica del substrato sarebbe porsi su un sentiero che svia.
Sarebbe possibile tracciare una specie di “cartografia” della coscienza?Noi possiamo interpretare le varie teorie psicologiche come una sorta di guide, di baedeker per muoversi nei territori della mente. È quindi abbastanza ovvio che come da una descrizione geografica si passa alla realizzazione di una carta, di una mappa in cui vengono graficamente rappresentate le diverse entità che caratterizzano un territorio (monti, fiumi, strade, etc.) e i loro rapporti, così molti psicologi non hanno resistito alla tentazione di realizzare una rappresentazione grafica delle funzioni mentali e delle relazioni tra esse. Non si possono non ricordare la mappa della struttura psichica disegnata dallo stesso Freud o quelle che hanno cercato di rappresentare aspetti della psicologia junghiana. Il significato di tali mappe potrebbe essere non solo quello di una illustrazione che venga in aiuto alla comprensione, come fa ogni sussidio didattico, ma quello di consentire la determinazione dei valori assunti da alcune dimensioni (ad es., attenzione, emozioni, memoria, etc.) e la formulazione di ipotesi sulla natura di determinati stati di coscienza (quindi valore euristico). Ma il tentativo si scontra col gran numero di variabili in gioco, con le differenze inter e intra-soggettive, con l’evoluzione temporale dei fenomeni. Penso quindi che solo con l’elaborazione grafica che può essere consentita dal computer si possa tentare di realizzare delle mappe dinamiche di elevata complessità…
Non siamo entrati nel dettaglio delle nove coscienze secondo l’elaborazione che ne aveva fatto la scuola T’ien-t’ai, ma vorrei chiederle qualcosa sulla coscienza amala e sulla stretta correlazione tra questa coscienza e la compassione buddista.
Qui veniamo alla geografia mentale buddista (e anche alle mappe che ne sono state tentate). Ritengo che sia molto opportuno farne oggi una rilettura alla luce della moderna psicologia ed è fin troppo evidente l’analogia che scorgiamo tra quelle che, con i termini sanscriti, chiamiamo alaya-vijnana e amala-vijnana, da un lato, e inconscio e coscienza cosmica o transpersonale, dall’altro. Quando siamo a questi livelli noi veniamo in contatto con gli strati più profondi della nostra mente e della nostra natura ultima (quella che chiamiamo “natura buddica” e che tutti gli esseri senzienti e tutti i fenomeni hanno in comune), e troviamo qui la radice della nostra solidarietà col mondo, solidarietà che sul piano della prassi si esprime nell’azione compassionevole. Come scriveva il grande bodhisattva Shantideva (VII sec. d. C., uno degli autori più importanti del Buddismo mah nel suo Bodhicaryavatara, (Il cammino verso l’illuminazione):
«Dovrei prima di tutto sforzarmi / di meditare sull’eguaglianza di me e degli altri. / Io dovrei proteggere tutti gli esseri come faccio con me stesso / perché siamo eguali nel desiderare il piacere / e nell’evitare il dolore». La consapevolezza di questa natura comune e di questa comune aspirazione mi avvicina anche a quelli che vengono considerati malvagi e nemici. Attingendo a una coscienza più profonda, posso comprendere che anche il malvagio non fa altro che attualizzare, sia pure in modo inaccettabile, il desiderio di raggiungere uno stato di felicità e di benessere. Questo è il fondamento di una possibile fratellanza, la quale diventa l’esercizio della compassione buddista illuminata dalla consapevolezza della verità ultima o Vacuità. Molti dei testi buddisti hanno sottolineato la necessità di considerare sé stessi e gli altri come facenti parte di una medesima realtà. Anche il nostro corpo è formato di varie parti, ma noi teniamo al benessere di tutte; allo stesso modo, poiché il bisogno degli altri di essere felici non è diverso dal mio, si tratta di riconoscere e lavorare per soddisfare un bisogno comune, non separando dualisticamente le esigenze mie da quelle degli altri.
Oltre al Buddismo quali altri stimoli possono portare le persone che vivono in occidente su queste posizioni di cui parlava lei?
Se guardiamo alla tradizione occidentale è inevitabile parlare sia dell’esperienza cristiana, così come la presenta San Paolo quando parla dell’essere umano “nuovo”, sia dell’esperienza laica del marxismo. Entrambi sono esempi dell’esigenza di superamento dell’Io “separato”, che trova, nell’amore o nell’impegno per la costruzione di una società libera e giusta, la possibilità di soddisfazione del suo bisogno di auto-realizzazione. Queste due risposte a me sembrano, per diverse ragioni, meno soddisfacenti della proposta buddista, ma voglio qui sottolineare che la maggiore difficoltà è quella di non separare la teoria dalla pratica: la cosa più difficile è nella effettiva pratica della compassione (per il Buddismo) o della via dell’amore (per il Cristianesimo) o dell’azione disinteressata del rivoluzionario che si pone al servizio della liberazione degli oppressi (per il marxismo). La sfida non è solo o non tanto sul piano dei conflitti teologici e filosofici, ma più evidentemente sulla possibilità di attuare nella pratica quanto viene proposto teoricamente.
Il suo ultimo libro si intitola Coscienza e cambiamento : qual è la correlazione tra questi due termini?
Le scienze umane e la psicologia hanno cercato di mettere in luce quelli che possono esser definiti i bisogni degli esseri umani: mentre in passato si era sottolineato soltanto o prevalentemente il ruolo dei bisogni elementari, più recentemente la psicologia ha fatto posto a quelli che possiamo considerare bisogni “superiori”: il bisogno di dare un senso alla vita, il bisogno di orientamento, di devozione. Le psicologie riduzionistiche avevano svalutato tali bisogni riducendoli a fenomeni regressivi o addirittura patologici; il bisogno di religione, ad es., era considerato come un infantilismo, una sorta di arresto, nello sviluppo della mente e della personalità. Se noi riconosciamo invece l’autenticità di questi bisogni superiori, vediamo che per essere soddisfatti essi richiedono una trasformazione di coscienza. Questa trasformazione è quella che le tradizioni spirituali hanno sempre sottolineato, indicando l’obiettivo della costruzione di un uomo nuovo che esca dalle angustie del proprio Io “separato” e possa quindi trovare un contatto con la natura, con gli altri, con l’Assoluto. Solo attuando questa trasformazione di coscienza si potrà dare una risposta a quel bisogno di senso, che è un bisogno fondamentale dell’essere umano. William James diceva che per una risposta alla domanda di significato della vita, della morte, della sofferenza, dobbiamo «portare in campo l’infinito». Portare in campo l’infinito significa appunto stabilire un rapporto con l’Assoluto, con la totalità del mondo, con la grande forza della Vita cosmica, con il Dharma. Ciò comporta una trasformazione della coscienza da attività della mente utilitaristica dell’Io separato, a coscienza cosmica, realizzando l’unificazione dell’Io empirico con la totalità del mondo. La coscienza, nata come consapevolezza della separazione e della contrapposizione dell’essere umano cosciente alla realtà del mondo, della natura e degli altri, con questa profonda trasformazione, diviene il luogo e l’artefice del riscatto dalla condizione di solitudine, di insufficienza, di insoddisfazione: la separazione si fa unità, la mancanza pienezza, la miseria
Ricchezza.
da (con modifiche) Duemilauno-Buddhismo per la pace, la cultura e l'educazione
1995, n. 48
(intervista a cura di Roberto Minganti e Fiorella Oldoini)
Riccardo Venturini professore di Psicofisiologia clinica presso l’Università “La Sapienza” di Roma è un punto di riferimento per quanti s’interessano di Buddismo mahayana. Promuove importanti iniziative volte ad attuare il dialogo interreligioso e a realizzare una società pacifica. Conosce a fondo la cultura occidentale e quella buddista, cosa questa che gli consente di essere un vero e proprio “ponte” tra la nostra spiritualità e quella orientale.
Professore come è arrivato a interessarsi di Psicofisiologia?
Quando ero studente, per chi volesse dedicarsi agli studi psicologici, dato che non esisteva una facoltà di psicologia, era necessario passare attraverso gli studi filosofici o medici. La mia scelta è stata quella, certo un po’ faticosa, di non trascurare nessuno dei due campi e quindi di avere tanto una formazione filosofica che una medica. Ciò mi ha permesso di assorbire, da un lato, gli insegnamenti dell’idealismo italiano (di Croce, Gentile e Spirito), dell’esistenzialismo francese e del marxismo gramsciano; dall’altro, soprattutto durante un periodo trascorso in Francia, quelli della psichiatria fenomenologica e della scuola psicoanalitica di Parigi (di Lagache e Lacan). La psicologia fisiologica rappresentava un po’ il punto medio tra questi due approcci, e per me si configurò più precisamente attraverso l’incontro con la grande tradizione fisiologica russa di Secenov, Pavlov, Bykov, Anochin, etc., la quale offriva la possibilità di uno studio scientifico della mente, con la costruzione di una psicologia fondata biologicamente, ma non priva di una prospettiva culturale e filosofica. Inoltre, questo indirizzo di ricerca consentiva, attraverso lo studio della patologia cortico-viscerale, di affrontare il campo della clinica e della psicosomatica in una prospettiva diversa da quella offerta dalla psicosomatica a orientamento psicodinamico.
E il Buddismo quando è arrivato?
Proprio nell’ambito degli studi psicofisiologici applicati alla clinica, il mio interesse era rivolto all’ipnosi, al training autogeno, al biofeedback, ma sentivo che queste tecniche, nell’ambito medico occidentale, erano prive di una prospettiva e di un respiro più ampi, a differenza di quanto accade in Oriente per lo yoga o la meditazione. È stata proprio l’esigenza di un completamento spirituale di queste tecniche di modificazione e controllo della coscienza che mi ha fatto avvicinare al Buddismo.
E la scelta della tradizione mahayana ?
Una volta che si incontra il Buddismo, si conoscono le varie scuole e le varie correnti, orientarsi verso la tradizione Mahayana, soprattutto per chi vive in un ambiente laico occidentale, mi sembra abbastanza conseguente. La tradizione Theravada, come è noto, essendo prevalentemente monastica è orientata verso un distacco dal mondo, poco condivisibile dai laici che vogliono vivere il non-dualismo nell’attualità della vita impegnata nel lavoro e nelle relazioni sociali. Dal punto di vista dottrinale poi, trovo per me molto più soddisfacenti le concezioni che il mahayana ha del triplice gioiello (Budda, Dharma e Sangha), del nirvana e della pratica religiosa che conduce all’illuminazione. Le affermazioni che il nirvana coincide col samsara e che la mente di Budda è la nostra stessa mente quotidiana sono la base della redenzione del mondo impermanente e limitato in cui viviamo.
Negli ultimi tempi lei sta rivolgendo il suo interesse agli studi sulla coscienza. C’entra qualcosa il Buddismo con questo nuovo campo d’indagine?
C’entra molto perché il mio interesse attualmente è quello di vedere quali ponti si possano stabilire, nella nostra cultura occidentale, tra la psicologia, la psicoterapia e la spiritualità. La tradizione religiosa buddista, infatti, ha incorporata in sé una serie di tecniche per il controllo mentale e per la modificazione della condotta che sono di estremo interesse. È stata per me una importante scoperta quella della grande ricchezza di psicologia contenuta negli insegnamenti del Dharma buddista e ritengo che essa sia una fonte preziosa di potenziale arricchimento della cultura occidentale. Voglio ricordare che il Budda si presentava più come medico che come filosofo, evitando sempre di farsi irretire dai discorsi sulle grandi problematiche filosofiche circa la finitezza del mondo o l’esistenza del Tathagata o dell’anima dopo la morte. Questo non per agnosticismo o per una dichiarata incapacità della mente a comprendere la verità, ma perché la verità ultima non si raggiunge e non si esprime con l’intelletto discriminante e dualistico. L’intento dell’insegnamento buddista è quello di liberare l’essere umano dalla sofferenza (è nota la parabola della freccia che occorre estrarre senza indugiare in domande sulla sua natura, provenienza, etc.). In altre parole, non è possibile attardarsi nella pura analisi filosofica dei problemi, dimenticando che l’insegnamento buddista si presenta con il carattere di urgenza di un intervento medico volto a liberare l’essere umano dalla sofferenza. Il Budda è il medico, il Dharma è la medicina e il Sangha una sorta di “sanatorio” dove gli esseri umani possono liberarsi dalla sofferenza.
Però, malgrado questa “urgenza terapeutica”, i filosofi buddisti hanno indugiato a lungo sulla teoria, che, attualmente, sta affascinando gli studiosi occidentali, specialmente gli epistemologi. Come vede lei questo crescente interesse verso l’“epistemologia” buddista?
Penso che queste indagini e interpretazioni siano più che legittime, ma che rientrino nell’ambito dei cosiddetti “mezzi abili” (upaya in sanscrito, hoben in giapponese) o mezzi didattici che il Budda adopera per facilitare la comprensione del Dharma a tutti i suoi interlocutori. Nel nostro contesto culturale si pongono dei problemi nuovi rispetto alla diffusione che il buddhismo ha avuto in Oriente e quindi i problemi dell’epistemologia o della filosofia della storia sono importanti per una fioritura del dharma in Occidente. Ma ciò non deve far dimenticare la prospettiva soteriologica del Buddismo e il costante richiamo alla diretta esperienza personale.
Arriviamo all’oggetto della nostra intervista, vorremmo una sua definizione di mente e di coscienza.
Nella sua accezione più generale, per coscienza intendiamo l’esperienza cosciente, consapevole, quella che nei termini più elementari corrisponde alla cognizione che “qualcosa sta accadendo”. Esperienza cosciente, dunque, come presenza di una vita interiore, di un vissuto. Non parliamo qui della coscienza come “cura” rivolta a qualche cosa o come coscienza morale, quindi siamo fuori dei campi semantici di diligenza/negligenza, responsabilità/disimpegno, etc. In questo senso, l’esperienza cosciente è parte fondamentale dell’attività della mente, ove con mente intendiamo la totalità dei fenomeni psichici: fenomeni psichici in atto o potenziali (gli eventi che sono stati o che diventeranno coscienti), della coscienza soggettivamente sperimentata (i fatti psichici propri) o di altri soggetti (ai quali attribuiamo una attività mentale).
Detto questo, dobbiamo essere consapevoli che non abbiamo però definito la coscienza. La coscienza, infatti, è per la psicologia quello che per la fisica sono alcune grandezze fondamentali che vengono assunte senza essere definite. Infatti, se andiamo a cercare nei dizionari delle definizioni di coscienza, troviamo un gioco di sinonimi come ad esempio: “comprensione”, “essere pronti, essere desti”, “consapevolezza”, “presenza mentale”, “eccitazione”, “essere vigili”. Ma tutto questo non direbbe nulla a chi non avesse una conoscenza esperienziale di cosa è la coscienza come vita interiore. La situazione è, d’altra parte, simile a quella che troviamo in altre discipline, quando parliamo ad es., di grandezze fondamentali della fisica, come la lunghezza, la massa, il tempo, la carica elettrica. Questi concetti non vengono definiti dalla fisica, ma vengono assunti dall’esperienza immediata, e attraverso essi si definiscono poi le altre grandezze, che sono dette grandezza derivate. Non è dunque una stranezza che la psicologia non definisca la coscienza, che è la sua grandezza fondamentale.
La coscienza comunque può essere studiata… Certamente. E anche, in qualche modo, misurata; al pari di quanto fa la fisica con le sue grandezze fondamentali: il tempo, ad es., non è definito, però si misurano gli intervalli di tempo… abbiamo gli orologi per questo. Soprattutto in questi ultimi anni, la coscienza è tornata alla ribalta come oggetto di studio della psicologia dopo essere stata rimossa nei decenni precedenti quando era in auge una psicologia comportamentistica che, per essere fedele al paradigma epistemologico delle scienze naturali, aveva rimosso quell’oggetto scomodo che era la coscienza. Le direzioni di studio della coscienza che si sono rivelate più fruttuose sono state quella che ha approfondito i livelli di vigilanza (cioè la capacità di elaborazione delle informazioni e la conseguente organizzazione delle risposte) e quella che ha studiato gli stati modificati di coscienza, gli stati alterati, nel senso di altri o diversi dagli stati ordinari: e questo è di fondamentale importanza nel campo della psicologia dell’esperienza religiosa.
Qual è stato il percorso della psicologia occidentale nello studio della coscienza?La psicologia, per costituirsi come scienza autonoma, ha cercato di assumere il paradigma delle scienza naturali, preferendo studiare il comportamento piuttosto che l’esperienza cosciente. La coscienza è stata messa da parte perché è un oggetto poco o punto maneggevole secondo i criteri del metodo galileiano: i fatti di coscienza non possono infatti essere osservati allo stesso modo in cui sono osservati i fenomeni naturali. In fondo, l’aspirazione del naturalista è quella di fare delle osservazioni e delle misure e alla fine vedere un ago che si sposta su una scala graduata o leggere un contatore. Ma questo non è possibile con l’esperienza cosciente. Va ricordato, comunque, che l’orientamento comportamentista è stato messo in crisi proprio da ricerche che venivano dalla neurologia, dalla psicofarmacologia, dalla neurochirurgia, per cui la psicologia è stata costretta a riprendere in considerazione la coscienza. Va detto che, in parallelo, la psicoanalisi e la psichiatria, proprio perché a contatto con la realtà umana, non avevano mai abbandonato l’interesse per l’analisi della coscienza, basti pensare al posto assegnato dalla psicoanalisi al problema dell’inconscio o alle indagini dei vissuti della psichiatria fenomenologica. Questo interesse però veniva pagato con una sorta di emarginazione di chi seguiva un cammino laterale rispetto a quello della psicologia scientifica accademica. Ma vorrei anche ricordare il più ampio contesto culturale in cui questo cambiamento è avvenuto. Negli ultimi decenni abbiamo potuto assistere al riemergere di un assai vivo interesse per le tematiche della corporeità, della sessualità, del biografico, che dovevano condurre a un contatto con quanto le grandi tradizioni viventi, i cambiamenti del costume, le discipline antropologiche e storico-religiose offrivano come oggetto per più sapienti ricognizioni e per la costruzione di una nuova geografia della mente. Il bisogno di spezzare le catene della vecchia razionalità occidentale, sentito dapprima da avanguardie artistiche e letterarie del Novecento, poi da psicoanalisti della cosiddetta “sinistra freudiana”, da filosofi e saggisti, si veniva allargando per raggiungere larghe masse e determinare l’emergere di “nuovi soggetti”. Alla vecchia “coscienza di classe”, si venivano infatti affiancando (e via via sostituendo) la presa di coscienza dei giovani e delle donne; la soggettività, sentita come nuovo valore, si affermava con l’emergere del privato accanto al politico, con le richieste di partecipazione e di tutela di nuovi diritti e nuovi spazi di libertà (come si esprimeranno nella “rivoluzione sessuale” o nelle iniziative per la tutela dell’ambiente, dentro e fuori i luoghi di lavoro, col crescere della nuova “coscienza ecologica”, etc.), con la cosiddetta rivoluzione psichedelica, con il riferimento, in culture complesse, polietniche e multireligiose, alle dottrine di vita di origine orientale, nella convinzione che i nuovi bisogni non potessero trovare più nelle vecchie organizzazioni politiche o nella tradizione giudaico-cristiana né possibili canali espressivi né validi strumenti interpretativi. Pur se quello che fu definito, negli USA e in alcuni paesi europei, il “movimento della nuova coscienza” è sostanzialmente scomparso come forma di aggregazione e di espressione spontaneistica e ingenua (col necessario passaggio a una fase di rielaborazione e di critica), l’onda lunga delle sue esigenze più autentiche non è certo esaurita e ha ormai permeato molta parte del nostro costume, della nostra vita sociale e, vorremmo augurarci, politica.
Non era solo la psicologia a interessarsi della coscienza, pensiamo anche alla filosofia, alla fenomenologia. Secondo lei quali sono le differenze più rilevanti tra Oriente e Occidente, nello studio sulla coscienza?
Quando parliamo di questi indirizzi di pensiero, parliamo sempre di indirizzi culturali che erano considerati a margine delle discipline scientifiche. Ma comunque, a parte questo, credo che sia indispensabile ricordare una fondamentale differenza tra la tradizione occidentale e quella orientale: la filosofia occidentale anche se ha parlato della mente ha sottovalutato, a differenza dell’Oriente, l’aspetto esperienziale e l’aspetto della pratica. La filosofia occidentale ha cercato di individuare dei valori, ma difficilmente ha detto all’essere umano come concretamente comportarsi. Le filosofie orientali, invece, si sono quasi sempre presentate come dottrine di vita, dottrine che, pur avendo un contenuto teoretico, non separano la teoria dalla prassi. Questo, mi sembra, un fatto che distingue profondamente le due culture e spieghi uno dei costanti motivi di interesse verso le filosofie e le religioni orientali.
Ma a lei che può attingere al patrimonio “intuitivo” del Buddismo, i panni dello scienziato “di laboratorio” non vanno un po’ stretti?
Vorrei sottolineare che, recentemente, l’esigenza di fondazione scientifica di una psicologia non-naturalistica (torniamo ai problemi epistemologici!) ha portato a ridiscutere i paradigmi delle scienze: la psicologia e le scienze umane non debbono rinunciare al rigore scientifico, ma questo non significa che debba essere assunto il paradigma delle scienze naturali. Per la psicologia si tratta di uscire sia da una “psicologia in prima persona” (la pura esperienza intraducibile) che da una “psicologia in terza persona” (una psicologia che descriva solo dall’esterno) e fondare invece una “psicologia in seconda persona”, quella per cui io e te in dialogo scopriamo la verità nell’interazione, interazione in cui viene rispettata l’esigenza del soggetto che dice: «non parlare di me, parla con me». Questo approccio non è meno scientifico di altri, è diverso.
Nuove scoperte scientifiche si fanno strada: secondo il fisico inglese Roger Penrose, ad esempio, sarà possibile inventare una fisica della coscienza, cioè comprendere i meccanismi della coscienza con le leggi della fisica quantistica. Lei cosa ne pensa?
Lo studio delle attività mentali può certamente effettuarsi in termini di eventi e di funzioni fisiologiche: è lo studio dei cosiddetti “correlati”, cioè lo studio dei fenomeni biologici che si svolgono parallelamente al fenomeno psichico che vogliamo indagare. È un campo di ricerca in costante sviluppo e che si avvale di tutte le possibilità che la tecnologia mette a mano a mano a disposizione della psicologia fisiologica. Ma debbo ancora ribadire che queste ricerche trovano il loro significato in rapporto allo studio fenomenologico, cioè al lato soggettivo, degli eventi mentali, altrimenti sarebbe come se, trovandoci di fronte a un libro scritto in caratteri di ignoto significato, pensassimo di decifrarne il senso attraverso un’analisi sempre più accurata e minuziosa della qualità della carta e dell’inchiostro, trascurando proprio lo studio della lingua e dei caratteri. Senza inchiostro e senza carta non si scrive una poesia, ma pensare di comprenderne il senso attraverso l’analisi chimica del substrato sarebbe porsi su un sentiero che svia.
Sarebbe possibile tracciare una specie di “cartografia” della coscienza?Noi possiamo interpretare le varie teorie psicologiche come una sorta di guide, di baedeker per muoversi nei territori della mente. È quindi abbastanza ovvio che come da una descrizione geografica si passa alla realizzazione di una carta, di una mappa in cui vengono graficamente rappresentate le diverse entità che caratterizzano un territorio (monti, fiumi, strade, etc.) e i loro rapporti, così molti psicologi non hanno resistito alla tentazione di realizzare una rappresentazione grafica delle funzioni mentali e delle relazioni tra esse. Non si possono non ricordare la mappa della struttura psichica disegnata dallo stesso Freud o quelle che hanno cercato di rappresentare aspetti della psicologia junghiana. Il significato di tali mappe potrebbe essere non solo quello di una illustrazione che venga in aiuto alla comprensione, come fa ogni sussidio didattico, ma quello di consentire la determinazione dei valori assunti da alcune dimensioni (ad es., attenzione, emozioni, memoria, etc.) e la formulazione di ipotesi sulla natura di determinati stati di coscienza (quindi valore euristico). Ma il tentativo si scontra col gran numero di variabili in gioco, con le differenze inter e intra-soggettive, con l’evoluzione temporale dei fenomeni. Penso quindi che solo con l’elaborazione grafica che può essere consentita dal computer si possa tentare di realizzare delle mappe dinamiche di elevata complessità…
Non siamo entrati nel dettaglio delle nove coscienze secondo l’elaborazione che ne aveva fatto la scuola T’ien-t’ai, ma vorrei chiederle qualcosa sulla coscienza amala e sulla stretta correlazione tra questa coscienza e la compassione buddista.
Qui veniamo alla geografia mentale buddista (e anche alle mappe che ne sono state tentate). Ritengo che sia molto opportuno farne oggi una rilettura alla luce della moderna psicologia ed è fin troppo evidente l’analogia che scorgiamo tra quelle che, con i termini sanscriti, chiamiamo alaya-vijnana e amala-vijnana, da un lato, e inconscio e coscienza cosmica o transpersonale, dall’altro. Quando siamo a questi livelli noi veniamo in contatto con gli strati più profondi della nostra mente e della nostra natura ultima (quella che chiamiamo “natura buddica” e che tutti gli esseri senzienti e tutti i fenomeni hanno in comune), e troviamo qui la radice della nostra solidarietà col mondo, solidarietà che sul piano della prassi si esprime nell’azione compassionevole. Come scriveva il grande bodhisattva Shantideva (VII sec. d. C., uno degli autori più importanti del Buddismo mah nel suo Bodhicaryavatara, (Il cammino verso l’illuminazione):
«Dovrei prima di tutto sforzarmi / di meditare sull’eguaglianza di me e degli altri. / Io dovrei proteggere tutti gli esseri come faccio con me stesso / perché siamo eguali nel desiderare il piacere / e nell’evitare il dolore». La consapevolezza di questa natura comune e di questa comune aspirazione mi avvicina anche a quelli che vengono considerati malvagi e nemici. Attingendo a una coscienza più profonda, posso comprendere che anche il malvagio non fa altro che attualizzare, sia pure in modo inaccettabile, il desiderio di raggiungere uno stato di felicità e di benessere. Questo è il fondamento di una possibile fratellanza, la quale diventa l’esercizio della compassione buddista illuminata dalla consapevolezza della verità ultima o Vacuità. Molti dei testi buddisti hanno sottolineato la necessità di considerare sé stessi e gli altri come facenti parte di una medesima realtà. Anche il nostro corpo è formato di varie parti, ma noi teniamo al benessere di tutte; allo stesso modo, poiché il bisogno degli altri di essere felici non è diverso dal mio, si tratta di riconoscere e lavorare per soddisfare un bisogno comune, non separando dualisticamente le esigenze mie da quelle degli altri.
Oltre al Buddismo quali altri stimoli possono portare le persone che vivono in occidente su queste posizioni di cui parlava lei?
Se guardiamo alla tradizione occidentale è inevitabile parlare sia dell’esperienza cristiana, così come la presenta San Paolo quando parla dell’essere umano “nuovo”, sia dell’esperienza laica del marxismo. Entrambi sono esempi dell’esigenza di superamento dell’Io “separato”, che trova, nell’amore o nell’impegno per la costruzione di una società libera e giusta, la possibilità di soddisfazione del suo bisogno di auto-realizzazione. Queste due risposte a me sembrano, per diverse ragioni, meno soddisfacenti della proposta buddista, ma voglio qui sottolineare che la maggiore difficoltà è quella di non separare la teoria dalla pratica: la cosa più difficile è nella effettiva pratica della compassione (per il Buddismo) o della via dell’amore (per il Cristianesimo) o dell’azione disinteressata del rivoluzionario che si pone al servizio della liberazione degli oppressi (per il marxismo). La sfida non è solo o non tanto sul piano dei conflitti teologici e filosofici, ma più evidentemente sulla possibilità di attuare nella pratica quanto viene proposto teoricamente.
Il suo ultimo libro si intitola Coscienza e cambiamento : qual è la correlazione tra questi due termini?
Le scienze umane e la psicologia hanno cercato di mettere in luce quelli che possono esser definiti i bisogni degli esseri umani: mentre in passato si era sottolineato soltanto o prevalentemente il ruolo dei bisogni elementari, più recentemente la psicologia ha fatto posto a quelli che possiamo considerare bisogni “superiori”: il bisogno di dare un senso alla vita, il bisogno di orientamento, di devozione. Le psicologie riduzionistiche avevano svalutato tali bisogni riducendoli a fenomeni regressivi o addirittura patologici; il bisogno di religione, ad es., era considerato come un infantilismo, una sorta di arresto, nello sviluppo della mente e della personalità. Se noi riconosciamo invece l’autenticità di questi bisogni superiori, vediamo che per essere soddisfatti essi richiedono una trasformazione di coscienza. Questa trasformazione è quella che le tradizioni spirituali hanno sempre sottolineato, indicando l’obiettivo della costruzione di un uomo nuovo che esca dalle angustie del proprio Io “separato” e possa quindi trovare un contatto con la natura, con gli altri, con l’Assoluto. Solo attuando questa trasformazione di coscienza si potrà dare una risposta a quel bisogno di senso, che è un bisogno fondamentale dell’essere umano. William James diceva che per una risposta alla domanda di significato della vita, della morte, della sofferenza, dobbiamo «portare in campo l’infinito». Portare in campo l’infinito significa appunto stabilire un rapporto con l’Assoluto, con la totalità del mondo, con la grande forza della Vita cosmica, con il Dharma. Ciò comporta una trasformazione della coscienza da attività della mente utilitaristica dell’Io separato, a coscienza cosmica, realizzando l’unificazione dell’Io empirico con la totalità del mondo. La coscienza, nata come consapevolezza della separazione e della contrapposizione dell’essere umano cosciente alla realtà del mondo, della natura e degli altri, con questa profonda trasformazione, diviene il luogo e l’artefice del riscatto dalla condizione di solitudine, di insufficienza, di insoddisfazione: la separazione si fa unità, la mancanza pienezza, la miseria
Ricchezza.
da (con modifiche) Duemilauno-Buddhismo per la pace, la cultura e l'educazione
1995, n. 48