Riccardo Venturini
DALLA BIOGRAFIA ALLA TRANS-BIOGRAFIA
1. La biografia: costruzione dell'identità
La persona come ente storico
Se pensiamo a noi in termini di storia, di biografia, non ci sarà difficile vedere che le nostre "storie" sono scandite temporalmente e spazialmente da quanto è accaduto al nostro corpo, secondo lo svolgersi del suo "ciclo biologico". Ma, non dovremo dimenticare che ci stiamo riferendo non solo o non tanto a un corpo puramente "naturale", quanto a un corpo umano e cioè situato in un contesto culturale e che assume la "coscienza storica della sua finitudine" (Dilthey, 1992) come base della sua stessa liberazione. L'intreccio di eventi naturali e di eventi culturali sarà proprio ciò che pi˘ caratterizza una biografia.
Particolarmente interessante, per l'approfondimento di questa tematica, è il modello che D. Levinson ci offre del corso della vita e la sua definizione di struttura vitale:
La struttura vitale è l'insieme delle costanti o il grafico della vita di un soggetto, il reticolo del sé-nel-mondo. Le componenti principali sono le relazioni del soggetto: con il sé, con le altre persone, con i gruppi e le istituzioni, con tutti gli aspetti del mondo esterno che rivestano qualche importanza nella vita di un individuo. Una persona ha relazioni con il lavoro e con i vari elementi del mondo occupazionale; amicizie e reti sociali; relazioni amorose, fra cui il matrimonio e la famiglia; esperienze fisiche (salute, malattia, crescita, declino); tempo libero, ricreazione e impiego della solitudine; appartenenze e ruoli in molti contesti sociali. Ogni relazione è come un filo di tappezzeria: il significato di un filo dipende dal posto che esso occupa nel disegno totale (1983, 338) [1] .
Appare evidente che è proprio pensando in termini di storia e costruendo biografie che possiamo entrare nella rete infinita di legami che connettono l'uomo alla totalità del mondo e il mondo a noi. Per la fenomenologia l'individuo non esiste per sé stesso, si ulteriorizza sempre, sia in rapporto a sé sia in rapporto agli altri, cioè in rapporto a qualcosa che lo oltrepassa. Questo trascendere non è da intendersi come qualcosa che va aggiunto all'esserci, ma ne è l'essenziale caratteristica: l'esserci esiste proprio in questo fondamentale fenomeno del "trascendersi", del continuo rimando. La trascendenza "nel" mondo è quindi la vera natura dell'uomo, nel mondo delle "relazioni", in cui si è "gettati". (ä) La capacità di relazionarsi (cioè la trascendenza) è la modalità fondamentale dell'esserci, che irradia "nel" mondo ed è permeata "dal" mondo in cui vive (Callieri, 1971, 25).
Degli infiniti legami, soltanto alcuni saranno individuabili e decifrabili, rimanendo gli altri quel non-detto che, proprio attraverso l'ascolto a partire dal corpo come luogo di solidarietà col mondo, potranno, tuttavia, non rimanere inafferrabili, ma anzi divenire presenti all'immediatezza della nostra coscienza, quando questa si mostri capace di "dilatarsi", di "allargarsi" [2] e di porsi al livello della realtà transpersonale. Quella di costruire una biografia, come anche il riflettere sulla propria storia, diviene dunque indicazione metodologica di fondamentale importanza nel contesto clinico, nel quale, come è noto, lo studio dei "casi" ha un peso non minore di quello dell'"esperimento" nel contesto delle discipline naturalistiche.
Si ritorna così a quella consapevolezza che autori che si richiamano alla fenomenologia avevano già sottolineato con forza. Per W. Dilthey l'uomo è un ente storico. La finitezza e la temporalità sono costitutive della sua essenza: l'uomo è una creatura del tempo; è un essere sociale in quanto la storia si esplica in istituzioni oggettive di carattere sociale e l'"esistenza" è sempre "coesistenza" (Morra, 1992).
La comprensione (della storia) è un'analisi di "eventi storici, connessi dinamicamente, esperibili e riproducibili all'interno dell'uomo" (Sinatra, 1985, 445). Jaspers sottolinea l'unità della vita nel suo dispiegarsi temporale e scrive che ogni vita psichica è un tutto come forma temporale (ä). Ogni vera storia clinica conduce alla biografia. La malattia psichica ha le sua radici nell'insieme della vita e per la sua comprensione non si può staccare da essa. Questo insieme si chiama il bios dell'uomo, la cui descrizione e il cui racconto si chiama "biografia" (nell'uso corrente della lingua è diventato abituale chiamare biografia anche lo stesso bios dell'uomo) (1964, 719).
Il metodo biografico nella clinica
Come per il corpo, in cui va distinto l'organismo (o corpo oggettivo) dal corpo vissuto, così andrà distinto il tempo cronologico dal tempo dell'esperire o tempo vissuto. Il metodo biografico è stato da sempre impiegato in medicina, costituendo l'anamnesi uno dei momenti obbligati in cui si articola l'esame del malato. Ma, come nota O. Sacks [3] , il neurologo che attualmente ha, con molto successo, riportato l'attenzione sull'importanza delle storie cliniche, altra cosa è la descrizione oggettiva del decorso di una malattia, altro il cercare di entrare nel mondo soggettivo di un uomo ammalato. Questo "salire al concreto", prestando attenzione alla persona nella sua globalità, è non solo un principio etico, ma anche scientifico. La fisiologia, la neurologia ed anche la stessa neuroscienza hanno bisogno del concetto di individuo. Lurija stesso ha utilizzato questo principio in maniera decisiva. In realtà egli (ä) pensa che la raccolta dei dettagli storici, l'idea della ricchezza di una vita e della sua piena concretezza, siano strumenti necessari se si vuole trattare un qualsiasi paziente. Ecco che la storia di un caso impersonale deve essere sostituita da una biografia profonda ed essenzialmente personale. Lurija stesso si trovava sempre a questo punto di intersezione tra biologia e biografia, sia come clinico che come scrittore (Sacks 1990, 9).
Infatti, dice ancora Sacks: Ippocrate introdusse il concetto storico di malattia, l'idea che le malattie hanno un corso, dai primi accenni al climax o crisi, e quindi alla risoluzione, lieta o fatale. Ippocrate introdusse perciò l'anamnesi, una descrizione, o quadro della storia naturale della malattia, espressa con precisione dal vecchio termine "patografia". Le anamnesi sono una forma di storia naturale, ma non ci dicono nulla sull'individuo e sulla sua storia; non comunicano nulla della persona e della sua esperienza, di come essa affronta la malattia e lotta per sopravvivere. Non vi è "soggetto" nella scarna storia di un caso clinico; le anamnesi moderne accennano al soggetto con formule sbrigative ("albino femmina trisomico di 21 anni") che potrebbero riferirsi a un essere umano come a un ratto. Per riportare il soggetto – il soggetto umano che soffre, si avvilisce, lotta – al centro del quadro, dobbiamo approfondire la storia di un caso sino a farne una vera storia, un racconto: solo allora avremo un "chi" oltre a un "che cosa", avremo una persona reale, un paziente, in relazione alla malattia – in relazione alla sfera fisica. L'intima natura del paziente è del tutto pertinente all'àmbito d'indagine pi˘ elevato della neurologia e alla psicologia, poiché esse hanno intimamente a che fare con la personalità del paziente, e lo studio della malattia non può essere disgiunto da quello dell'identità.
La tradizione di storie cliniche attente alla personalità umana tocca il suo culmine nell'Ottocento per poi declinare con l'avvento di una scienza neurologica impersonale. Ha scritto Lurija: ´La capacità di descrivere, così comune nei grandi neurologi e psichiatri dell'Ottocento, oggi è quasi scomparsaä » necessario ridarle vitaª. (ä) La tradizione ottocentesca di cui parla Lurija, la tradizione del primo storico medico, Ippocrate, e la tradizione universale e preistorica che ha sempre visto i pazienti raccontare al medico la loro storia.
Le fiabe classiche hanno figure archetipiche – eroi, vittime, martiri, guerrieri. I pazienti neurologici sono tutte queste figureä Possiamo vederle come viaggiatori diretti verso terre inimmaginabili, terre di cui altrimenti non avremmo idea, che non potremmo raffigurarci. Ecco perché le loro vite e i loro viaggi hanno per me qualcosa di fiabesco, ecco perché (ä) sento di dover parlare di storie e fiabe non meno che di casi. In questi campi, lo scientifico e il romantico, il romanzesco, chiedono a gran voce d'incontrarsi: Lurija amava parlare di "scienza romantica". Essi s'incontrano al punto d'intersezione tra fatto e fiaba, intersezione che caratterizza (come già nel mio libro Risvegli) le vite dei pazienti qui [nel libro L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello] raccontate.
Ma che fatti! Che fiabe! A che cosa paragonarli? Forse non possediamo i modelli, le metafore o i miti necessari. Che sia giunto il tempo di nuovi simboli, di nuovi miti? (Sacks, 1986, 12-14).
Le domande di Sacks sono certamente assai stimolanti e ci fanno intravedere una via di possibile rinnovamento del guardaroba concettuale della psicologia. Per ora vogliamo almeno leggere, nel successo avuto dalla sua opera, l'esigenza e la speranza di una medicina dal volto umano, attenta alla persona nella sua soggettività, capace di rendersi conto di quell'unità significativa che promana sempre dalla storia interiore di un singolo e che si riporta non alla sua determinazione energetica, ma alla sua decisione, al "come" egli ha assunto e fatto proprio il suo "limite naturale" (Cargnello, 1977, 178 s.).
J. Bruner [4] , nella sua proposta di una "psicologia culturale", sottolinea l'importanza del concetto di un Sé narratore, un Sé che narra storie in cui la descrizione del Sé fa parte della storia. Sul significato di tali storie, egli ricorda che per D. Spence (autore di Verità narrativa e verità storica) in analisi non è tanto importante la verità storica che il paziente racconta ma la verità narrativa in grado di innescare un processo ricostruttivo, in ciò essendo meno un archeologo sche scava e recupera il passato e pi˘ un artista che crea, connette, riesce a cogliere il senso che riconduce al proprio problema. L'analisi fenomenologica studiando i modi in cui la presenza umana si declina e si progetta nel suo dispiegarsi storico, rileva le successive modalità con cui ha realizzato le sue diverse possibilità (cfr. Bruner, 1992, 111).
R. Schafer, per parte sua, soffermandosi sulle modalità di tale costruzione narrativa, afferma che per tutta la vita non facciamo che raccontare noi stessi. Possiamo ritenere, per diverse finalità, che raccontare queste storie su di noi agli altri equivalga a eseguire dei veri e propri atti narrativi. Tuttavia, nel dire che raccontiamo queste storie anche a noi stessi, noi racchiudiamo una storia nell'altra. » la storia che c'è un Sé a cui raccontare qualcosa, qualcun altro che funga da pubblico, che è sé stessi o il proprio Sé. Quando le storie che noi raccontiamo agli altri su noi stessi riguardano altri nostri Sé, per esempio quando diciamo: "Non sono padrone di me stesso", allora di nuovo stiamo racchiudendo una storia nell'altra. Da questo punto di vista il Sé è un raccontare. Questo raccontare può variare a seconda delle occasioni e delle persone (Bruner, 1992: 110).
Poiché anche gli altri vengono resi in modo narrativo, la narrazione su di noi a un altro diviene doppiamente narrativa e in quanto progetto dello sviluppo personale, l'analisi personale modifica le principali domande che ognuno di noi pone alla storia della sua vita e della vita di altri significativi. La sfida per l'analista e per l'analizzato diviene allora questa: "Vediamo come si può riformulare questa storia in modo da permetterti di comprendere le origini, i significati e la portata delle tue difficoltà attuali e di farlo in modo che renda concepibile e possibile un cambiamento" (ibidem).
Ancora pi˘ radicale è J. Hillman [5] nel sostenere che la psicoterapia è riuscita a inventare una narrativa che cura, una narrativa che, nella nostra cultura, possa svolgere quell'intento terapeutico che l'arte dello scrivere si prefiggeva, donando catarsi e unità tematica a un'anima.
La terapia riscatta il mondo sottile delle immagini dal mondo grossolano dei fatti e volge l'anima verso gli dèi. Per questo, naturalmente, ha invaso il campo delle arti e della critica d'arte, diventando, con i suoi rituali, le sue "botteghe", la forma d'arte predominante nel nostro tempo. Essa è la sola che ardisca di penetrare nella vita immediata dell'anima individuale e di impegnarvisi, con l'intento di guarire l'anima dalla sua condizione prosaica, offrendole una nuova storia per le sue immagini. (ä) Immagino che la mente sia fondata non sulle microstrutture del cervello o del linguaggio, ma su quelle storie supreme, gli dèi, che costituiscono i modelli fondamentali del nostro agire, credere, conoscere, sentire e soffrire, dove possono persino trovare dimora. » soltanto nelle storie che questi Dei si mostrano ancora. La mente è fondata nelle sua stessa attività narrativa, nel suo fare fantasia. Questo "fare" è poiesis. (Hillman, 1984, III).
Le storie cliniche, sostiene Hillman, non sono importanti in quanto residui del modello medico o esempi paradigmatici che suffraghino l'una o l'altra teoria, ma per il loro essere fenomeni soggettivi, storie dell'anima.
Ci danno una narrazione, un'invenzione letteraria che deletteralizza la nostra vita dalla sua ossessione proiettiva per l'esteriorità, perché la iscrivono dentro una storia. Ci spostano, dalla finzione della realtà alla realtà della finzione. Ci donano la possibilità di riconoscerci nel disordine del mondo, per esserci impegnati e per essere sempre impegnati nel fare-anima [6] , dove "fare" ritorna al suo significato originario di poiesis: fare anima come poiesis psicologica, il fare dell'anima tramite l'immaginazione delle parole. [äForse andiamo in analisi] per ricevere una storia clinica, il dono di trovare sé stessi nel mito; nei miti dove gli Dei e gli uomini s'incontrano. (Hillman, 1983, 63)
Fenomenologia e racconto di sé
L'analisi esistenziale fenomenologica sottolinea il valore epistemologico e la peculiarità di questo tipo di esplorazione/costruzione:
Proprio nel nesso tra l'evento, l'accadimento e l'Erlebnis [7] possiamo trovare con molta evidenza le differenze tra un atteggiamento naturalistico/genetico e uno antropologico/modale. L'Erlebnis è infatti contemporaneamente un esperire "qualche cosa" e un sapere intorno a "qualche cosa" che ci capita. Dunque anche un sapere alcunché di noi stessi (ä). Non è che l'uomo si limiti a introdurre un significato all'accadere, ma piuttosto egli, in quanto ne parla o vi pensa o lo coglie o anche semplicemente "lo subisce", immediatamente lo assume ("interpreta") in un determinato senso, cioè in un modo oppure in un altro ancora, secondo chi egli è e come egli è. Senso e significato infatti hanno senso e significato solo e soltanto per quel certo uomo e per il mondo che è il suo "mondo". [ä] Riassumendo [ä]: il polo costituito dall'esperire (Erleben), cioè dalla soggettività, e il polo costituito dall'oggettualità, debbono venir intesi come correlativi a un'unica e medesima costituzione ontologica; in altre parole, correlativi al modo pi˘ proprio con cui l'individualità si decide e si schiude rispetto al suo essere e al suo comprendersi (Cargnello, 1977, 180-81).
La psichiatria fenomenologica riconosce a Freud il merito di aver mostrato, come nessuno prima di lui, l'importanza della storia interiore, potendo la prassi psicoanalitica in definitiva ricondursi a una
sistematica ricostruzione (sia pure da un particolare punto di vista) di quel continuum di esperienze intime che segnano, nel loro concatenato succedersi, le tappe e la traiettoria del testimoniarsi di un individuo proprio come umana presenza e non già soltanto la mera registrazione anamnestica delle vicissitudini attraverso cui è trascorso (ivi, 176-77).
Ma al principio metodologico innovativo fa riscontro il riduzionismo teorico e interpretativo che, in nome dell'homo-natura, ha ignorato il multicategoriale homo-existentia, i "modi" originari della presenza (Dasein), fino a ridurre l'espressività artistica, l'agire etico e la religiosità a mere "illusioni", con una contraddizione che ha fatto dire a L. Binswanger [8] :
» davvero sorprendente dover constatare come l'approfondimento scientifico pi˘ intensivo della storia interioreä la sua pi˘ sistematica e paziente esplicitazione psicologico-ermeneutica, e cioè la psicoanalisi di Freud, rappresenti in pari tempo il pi˘ chiuso e violento tentativo di condurre questa interpretazione distorcendola in senso dinamico-funzionalistico (cit. in Cargnello, 1977, 177).
Ogni riduzionismo ha la pretesa, se non l'arroganza, di saper tutto spiegare e tutto interpretare. L'adozione del metodo fenomenologico, con le parole di U. Galimberti, "non concede pi˘ alla psicoanalisi di spiegare la totalità dell'umano, ma semplicemente di comprendere qualcosa al livello umano" (Galimberti, 1987, 211). L'analisi esistenziale si occupa, invece, dei modi in cui si rivela l'umana presenza, il suo progettarsi, il come essere nel mondo, presenza attuale, che tuttavia compendia
anche il futuro, inteso come poter-essere, e il passato, come essere-già-stati. Infatti, se la presenza è un anticiparsi, questa possibilità di futuro non è un insieme di generiche possibilità, ma di determinate possibilità che trovano la loro base in ciò che essa già fu (1987, 203).
Modi della presenza che saranno da un lato quelli del poter-liberamente-essere, in cui si attua la "grazia" dell'autorealizzazione e rivelazione di sé, dall'altro quelli della "miseria" dell'esser-costretto-ad-essere (dell'essere cioè nel segno dell'altrui imposizione), modi, questi, che pur nella loro "disgraziata" tragicità rimangono sempre forme dell'umana rivelazione. Per chi, nella convinzione della "pre-esistenza ontica del 'noi' rispetto all''io'", ha compreso che esistere è partecipare, che l'esistenza è coesistenza (esse est coesse), che la coscienza ha una fondazione interpersonale, che è proprio nella consapevolezza della "noità", stabilita nell'incontro, che risiede la chiave ermeneutica della condotta e dei suoi disturbi, la psichiatria viene a configurarsi non soltanto come lo studio delle distorsioni della comunicazione interumana, ma anche, e forse soprattutto, come lo studio delle distorsioni (antropologiche) dell'incontro (ä), come la scienza che studia l'uomo nella sua capacità e incapacità di costituirsi in Noi (Callieri 1989, 167).
Presenza e decentramento
L'attenzione alla biografia non vuole certo, in alcun modo, rappresentare un rigurgito di narcisismo, un ritorno a una coscienza separata e alla contrapposizione sé/non-sé, ma porsi come una modalità per realizzare la consapevolezza delle connessioni e dell'interdipendenza, come un abitare il luogo in cui la consapevolezza dello svolgersi e della finitezza nel tempo diviene rivelazione della costitutiva essenza umana: "centrarsi" sul bÌos vuol dire dunque ritrovare, "concentrato" in noi, il BÌos che è anche oltre noi; in altri termini, ciò significa "decentrarsi" dall'illusione di noi come entità separate e realizzare il paradosso di partire dal biografico per uscire dal biografico. In questa luce, l'interazione, il dare e ricevere, come costitutivi di ogni incontro nella reciprocità, vengono a essere costitutivi anche della relazione medico/paziente. Questa consapevolezza ha portato molti a ridiscutere il problema di fondo della psicoanalisi, cioè il concetto di transfert, che finirebbe per essere una finzione naturalistica escogitata dall'analista per eludere l'incontro col paziente. Secondo questi studiosi (e viene qui in mente il Fromm di L'arte di amare, così vicino alla teoria scheleriana dell'amore) solo l'autentico interesse personale per il paziente determinerebbe in questo la disposizione alla guarigione [ä]. Solo quando il paziente si apre all'incontro (ammesso che il terapeuta vi sia interiormente disposto e ne sia capace) solo allora il neurotico comincia ad essere autenticamente capace di comunicare, di porsi in relazione. » necessario quindi riscattare il transfert dalla sua limitazione (naturalistica) e schiuderlo all'incontro, cioè al "noi" (ivi, 166).
Ricostruire una storia diviene dunque un costruire insieme un tratto di vita, rimodellare parti di sé e delle rappresentazioni della propria identità e del proprio contesto sociale. Questo è possibile nella misura in cui si è capaci di ascolto, ossia di comprensione e di esperienza. Se lo psichiatra, in quanto medico, tende all'obiettivazione del paziente e al suo inquadramento nelle categorie dell'alienazione, lo psichiatra, come human scientist, vivrà l'altro non pi˘ come un "caso", ma come un tu concreto, un alter-ego con cui formare un "noi".
Sapersi mantenere con l'altro e non meramente di fronte all'altro, anche se psicotico, significa scorgere l'uomo (cioè un "ordine") anche là dove – con altra impostazione – si scorgerebbe non altro che un disturbo mentale, cioè un "disordine". » forse questa della dimensione interpersonale la vera "rivoluzione copernicana" dell'attuale psichiatria. (ivi, 179).
Oggi si tende a sottolineare l'esigenza di sviluppare, accanto alla formazione tecnica dello psichiatra e dello psicoterapeuta, caratteristiche eminentemente umane come la capacità di darsi, la disponibilità, l'accettazione del "diverso" e dell'"anormale", il bisogno autentico di comprendere e di amare il paziente, qualità che permettano di realizzare, anche nell'incontro clinico, un'occasione per quello che l'antropologia fenomenologica chiama "l'essere-insieme-nell'amore". Questo ci pone certamente un nuovo stimolo alla consapevolezza della motivazione e del vissuto del "professionista della salute mentale". Come osserva infatti uno dei rappresentanti della scuola fenomenologica italiana, la necessità di un simile incontro, antropologicamente valido, non ci dispensa dal chiederci che cosa spinga l'uomo-psichiatra ad accostarsi all'alienato fino a tendere alla realizzazione di un incontro. Forse è nella sua dialettica con l'Irrazionale, nel confronto con le situazioni angoscianti degli altri, che egli affronta la problematica della propria angoscia. Questo equilibrio precario e delicato, sul filo del rasoio, col continuo rischio di essere infranto, porta lo psichiatra ad una posizione essenzialmente ambigua: le sue possibilità di essere-con-qualcuno-nel-mondo, pur accrescendosi, si problematizzano (ivi, 176).
Ma, se vogliamo affermare un modo radicalmente diverso di essere psicologi, psicoterapeuti, psichiatri di fronte al problema/sintomo e a chi ne è portatore e lo esprime, non si può sfuggire al rischio dell'impegno, dell'empatia e dell'amore. Per concludere, usando ancora le parole di B. Callieri, Parlare d'amore e in termini d'amore può certamente suonar scandalo sia alle orecchio del medico che del filosofo, sia del naturalista che del metafisico. Ma è un rischio che oggi val la pena di correre (ivi, 168).
2. Il campo autobiografico
La scrittura e la pratica letteraria
Nella clinica ricostruire una storia significa dunque costruire insieme un tratto di vita, rimodellare parti di sé. Al di fuori del campo propriamente clinico queste stesse finalità possono essere ritrovate nei diversi "modi" della narrazione, dall'oralità alla scrittura, dalla scrittura privata alla scrittura letteraria. In particolare, alcuni generi della scrittura sembrano già esplicitamente volti al tema della ridefinizione dell'identità. L'autobiografia appare come un vasto campo in cui troviamo diversi generi.
La complessità del tema si palesa già nel guardare i diversi ambiti e i diversi scopi del "fare autobiografia". Se cerchiamo di individuare l'autobiografia come genere letterario, in cui rientrano narrazioni con valore sia di testimonianze di vita (J.-J. Rousseau) sia di strumenti di crescita e di trasformazione (in quanto pratiche di autosvelamento; Confessioni di S. Agostino), ci accorgiamo subito della incertezza dei suoi confini e della difficoltà stessa di una classificazione delle forme del narrare, ognuna dotata di specifici caratteri e anche di specifiche difficoltà di manipolazione. Meglio forse parlare di un "campo autobiografico", in cui possano trovare posto: diari, corrispondenze pubbliche o private, l'album delle fotografie, gli oggetti collezionati e i libri raccolti, il curriculum vitae, l'anamnesi medica, le interviste, le conversazioni, il monologo interiore in cui il soggetto si racconta quotidianamente la propria storia. Proviamo ad affidarci allora alla definizione che ci offre Ph. Lejeune, uno studioso che ha consacrato l'essenziale delle sue ricerche proprio al tema dell'autobiografia:
Chiamiamo autobiografia il racconto retrospettivo in prosa che qualcuno fa della propria esistenza, quando mette l'accento principale sulla vita individuale, in particolare sulla storia della propria personalità (1986).
Ci domandiamo quindi: è possibile un racconto di questo tipo e quali effetti possiamo aspettarci da esso? Se l'obiettivo è quello di operare una trasformazione di sé, ci dobbiamo interrogare non solo su quali possano essere le forme di narrazione dotate di questa capacità ma anche sul significato da dare alla stessa auspicata trasformazione. Allorquando la narrazione sia vista come coscienza di sé e pratica di cambiamento, come modo di auto-svelamento, non solo, ma anche del costituirsi del soggetto, non possiamo non far rientrare nel campo autobiografico la stessa psicoterapia, intesa come modo per ri-costruire una storia, per unificare e dare senso agli eventi della vita, peculiare luogo in cui operare, con l'aiuto di un co-narratore (il terapeuta), la ri-composizione di una incerta o compromessa identità.
L'idea che, narrandosi, l'uomo si disveli presuppone che la vita sia già una storia (che la narrazione sia cioè adeguata al suo oggetto) e che sia vera, realizzando così una identità fra i tre termini di auto (io stesso), bio (la vita come si svolge) e grafia (io nel senso di un me contratto nella mia mano che scrive). Ma si tratterà di una reale unità o di una chimerica unione di tre parti inconciliabili? Non viene in ciò celato qualcosa che maschera e che, come assenza e differenza, diviene proprio il campo della scrittura?
La "pretesa" di poter operare una biografia compiuta la troviamo nelle parole con le quali J.-J. Rousseau inizia le sue Confessioni. Rousseau si rivolge al lettore quasi con una intimidazione, perché non osi dubitare che egli ci sta dando una storia vera:
Mi accingo a un'impresa che non conosce esempi e che non conoscerà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della propria natura, e quell'uomo sono io. Io solo. So leggere nel mio cuore e conosco gli uomini (1988).
Non siamo qui di fronte a un discorso di verità piuttosto che a un discorso vero? Nella giustificazione, in cui il filosofo vuole offrire una sorta di garanzia affermando je dis la verité, non possiamo non vedere che egli ci dice piuttosto je dis que je dis la verité. Può infatti dircela la verità? Quale? E quanta? J. Lacan sembra far eco e rispondere contrapponendosi: "Je dis toutjours la verité: pas toute, parce que toute la dire, on n'y arrive pas [ä] Les mots y manquent" (1966).
Nell'Esodo troviamo l'archetipo dell'autobiografia, l'autobiografia nella sua forma pi˘ compiuta e pi˘ breve, perfetta nella coincidenza del soggetto dell'enunciazione col soggetto dell'enunciato. Quando Mosè interroga il Signore per chiedergli come dovrà presentarlo al suo popolo, Dio gli risponde dicendo: "Sono colui che sono". Se questa è la autobiografia, a noi è concesso realizzare soltanto una o delle autobiografie. Tuttavia, anche se non è possibile dare la "verità di sé", rimane la tentazione di ritrovarsi e offrirsi attraverso una configurazione coerente, unitaria, sensata, che veda gli eventi della vita come "operatori di destino". Nell'impossibilità di comprendersi in una solitaria autoreferenzialità, il soggetto scopre che si co-narra o che viene narrato. C'è infatti una basilare dimensione paradossale nella scrittura autobiografica, consistente nel fatto che le due scene fondamentali della nostra vita, la nascita e la morte costituiscono per noi un indicibile fondamentale, appartengono a spettatori estranei, ad altrui narrazioni, sottolineandosi così la insuperabile estraneità di noi a noi [9] . E come parlare dell'altro mistero, posto tra l'inizio e la fine, il desiderio, di cui non ci sono trasparenti né la genesi né gli obiettivi profondi?
Uno dei pi˘ tipici romanzieri dell'io e memorialisti moderni, Chateaubriand, scriveva: "Vedo i riflessi di un'aurora di cui non vedrò mai levarsi il sole. Non mi resta che sedermi al bordo della mia fossa; dopo di che scenderò arditamente, il crocifisso in mano, nell'eternità". Tra revisione e previsione, l'immagine dell'oltretomba, come limite del sé, trasforma l'auto-biografia in etero-biografia.
Lejeune, vede tutta la convenzionalità, il "come se", dell'autobiografia e parla per questo di un pacte autobiographique (e ha intitolato Autopacte, dal nome di un personaggio di J. de La Bruyère, il sito Internet sulla scrittura autobiografica che egli amministra) per sottolineare la natura contrattuale, giuridica dell'autobiografia, forse solo un modo distinto da quelli imposti dal patto romanzesco o fantasmatico o altro.
Autobiografia come testimonianza, narrazione di eventi, selezione, composizione, montaggio del passato per restituire la storia di una vita; oppure intenzionale pratica di auto-osservazione, autocostruzione, autosvelamento, strumento attraverso cui la vita si organizza e acquista senso. In questo caso la scrittura diventa una vera e propria "tecnologia del sé", grazie alla quale connettere i diversi livelli dell'esperienza, fino alle connessioni trans-personali, quindi trans-storiche, trans-narrative, trans-biografiche. Scrittura come strumento per portare in campo quei bisogni "superiori" che il modello psicologico pre-transpersonale non era in grado di giustificare. Il raccontarsi biografico diventa così la premessa di una diversa autobiografia, quella transpersonale.
Trans-biografia: oltre l'identità personale
Il racconto di sé può diventare una modalità per realizzare la consapevolezza delle connessioni e dell'interdipendenza: dal bÌos che è "in noi", al Bìos che è "oltre noi". In questo senso, il racconto di sé può essere visto come il prolungamento del mito. Altrimenti, perché mai sarebbe tanto importante sapere quel che succede alla marchesa che prende il tè alle cinque? Come notava M. Eliade
Credo che ogni narrazione, anche quella di un fatto banalissimo, prolunghi le grandi storie raccontate dai miti perché spiegano in che modo questo mondo è nato e come mai la nostra condizione è quella che noi oggi conosciamo. Penso che l'interesse per la narrazione fa parte del nostro modo di essere al mondo. Essa corrisponde al bisogno che abbiamo di comprendere quel che è successo, quel che hanno fatto gli uomini, ciò che possono fare, i rischi, le avventure, le prove di ogni sorta. [ä] Siamo esseri di "avventura". E mai l'uomo farà a meno di ascoltare storie (1980, 152).
I. Calvino (1993) vede la letteratura e in particolare il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo.
Letteratura, quindi, come forma di conoscenza che ci aiuta a comprendere l'interdipendenza e ci orienta verso un pensiero a rete: un modo di pensare, di sentire, di agire per connessioni e relazioni. Letteratura come "pratica di vita", come tecnologia del sé, che incide sulla organizzazione stessa della mente e nel riorientamento di bisogni e motivazioni, che promuove la consapevolezza della comune "natura" di tutti gli uomini e la fondamentale "solidarietà" tra uomo e ambiente. Attraverso la scrittura e il racconto di sé, la mente può oggettivarsi, può guardarsi e riorientarsi, rivolgendo il suo interesse al di là dei confini individuali, per comprendere aspetti pi˘ ampi della vita e dell'umanità. La scrittura rende pi˘ "reale" la vita, portandola oltre la sua transitorietà e dandole senso nel connetterla a ciò che è reale al di là della immediatezza spaziale e temporale, al di là dell'ordinaria contingenza.
Viene così a delinearsi una diversa identità: connettiva, complessa, interrelata, un'identità che va oltre la limitata individualità biologica, storica, culturale e personale per riconoscersi parte di una pi˘ ampia intelligenza-compassione che comprende l'intero universo.
L'apertura a un atteggiamento anegoico ci fa comprendere la frustrazione insita negli sforzi di dare significato alla vita di un individuo astratto e illusorio nel suo isolamento. In questo senso, dicevano ironicamente O. Wilde: "Ciascuno deve trovare la propria strada, ma le strade non portano da nessuna parte" o E. Flaiano: "Conoscere sé stesso. Dopodiché diventa impossibile vivere con sé stesso". E ancora, Calvino (1995) parlando del gesto quotidiano di raccogliere e buttare i resti, la spazzatura, nella poubelle (o secchio delle immondizie), si spinge a comparare due generi di spazzatura domestica: i prodotti della cucina e i prodotti della scrittura, il secchio dei rifiuti e il cestino della carta. In effetti, per Calvino, "scrivere è dispossessarsi non meno che il buttar via", è un allontanare da sé e l'autobiografia diventa un modo di riconoscersi attraverso l'espellere: "spazzatura come autobiografia". L'atto stesso della scrittura è un liberarsi, un espellere i resti dell'esperienza: l'autobiografia come spazzatura di un individuo che – proprio in quanto tale – sembra condannato a restare irredimibile. Scrivere, raccontarsi è "espellere i resti", ma è proprio attraverso tale evacuazione che si produce uno scarto, un intervallo dal quale gettare uno sguardo d'insieme, configurare gli eventi, cogliere l'essenziale. Scrivere diventa allora un'opera di "salvataggio" dall'effimero e un argine allo scorrere indifferenziato del tempo. In conclusione, conosciuto il limite bisogna andare oltre.
Anzitutto egli rilevò che la sua convinzione che la vita non avesse alcun significato prendeva in considerazione soltanto questa vita finita. Egli cercava il valore di un termine finito in quello di un altro, e il risultato finale non poteva essere che una di quelle equazioni indeterminate della matematica che terminano con 0=0. Tuttavia, questo è tutto ciò che l'intelletto raziocinante può ottenere con le sue forze, a meno che un sentimento irrazionale o una fede non portino in campo l'infinito (1982, p. 184).
Le scienze umane (e in particolare la psicoanalisi) hanno già effettuato un recupero delle antiche tecniche di verbalizzazione, ma la nuova consapevolezza con cui, nella prospettiva transpersonale, possiamo oggi guardare a questi documenti di psicologia spirituale non potrà che ulteriormente valorizzare questa forma di scrittura che si qualifica come una delle tecniche pi˘ efficaci per la costituzione di un nuovo sé, nella consapevolezza che la vera anamnesi storiografica sbocca anch'essa su un tempo primordiale, il tempo in cui gli uomini fondavano i loro comportamenti culturali, nella convinzione che questi comportamenti fossero stati loro rivelati dagli Esseri soprannaturali. Ogni memoria sarà così memoria dell'origine, e ogni memoria dell'origine, luce e salvezza. Poiché niente è perduto; poiché grazie al tempo, distruttore e creatore, l'origine ha preso significato. Si vedrebbe bene allora, perché la storia si compie in ermeneutica, e l'ermeneutica in creazione, in poesia (Eliade, 1980, 168).
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[1] Sulla problematica del ciclo vitale, dalla nascita (o dalla concezione) alla morte, vedi Guy LefranÁois (1990).
[2] » noto che questi erano i termini impiegati dal "movimento della nuova coscienza" americano. Tra i tanti documenti su di esso ricordiamo almeno Jukebox all'idrogeno ("Il messaggio è: allargate l'area della coscienza") eTestimonianza a Chicago di Allen Ginsberg.
[3] Oliver Sacks, nato a Londra 1933 è professore di neurologia. Abile narratore, ha scritto libri di grande successo: Risvegli, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, e così via. I libri sono testimonianza delle sue esperienze cliniche ed espressione della sua profonda umanità.
[4] Jerome S. Bruner, nato nel 1915, psicologo cognitivista, considera la narrazione una modalità fondamentale di organizzazione dell'esperienza.
[5] James Hillman, nato nel 1926, americano, ma di formazione europea, insegna al Dallas Institute of Humanities and Culture. La sua "psicologia archetipica" rappresenta un originale sviluppo della psicologia junghiana.
[6] Su questo concetto di Hillman, cfr. altre sue opere come Il mito dell'analisi e Re-visione della psicologia.
[7] Secondo Cargnello, con Erlebnis possiamo intendere un arricchimento esperienziale significativo, sia gradito sia sgradito.
[8] Ludwig Binswanger (1881-1966), psichiatra svizzero, ha elaborato in modo personalmente creativo l'approccio fenomenologico in psichiatria. In Italia hanno dato importanti contributi a questa corrente psichiatri e studiosi come Cargnello, Calvi, Borgna, Callieri, Galimberti, Sini, e così via.
[9] Non mancano, tuttavia, esempi di autotanatografia, di scritture della/sulla propria morte, esemplati sul prototipo del racconto socratico del Fedone (ma, com'è ben noto, scritto da Platone), a un tempo, racconto filosofico e filosofia della morte. E ogni caso ripropone gli interrogativi sul rapporto tra letteratura e testimonianza, tra scrittura e indicibile.
da, con modifiche, M. Cavallo (a cura di), Il racconto che trasforma, Roma, EDUP, 2001, pp. 141-54.
DALLA BIOGRAFIA ALLA TRANS-BIOGRAFIA
1. La biografia: costruzione dell'identità
La persona come ente storico
Se pensiamo a noi in termini di storia, di biografia, non ci sarà difficile vedere che le nostre "storie" sono scandite temporalmente e spazialmente da quanto è accaduto al nostro corpo, secondo lo svolgersi del suo "ciclo biologico". Ma, non dovremo dimenticare che ci stiamo riferendo non solo o non tanto a un corpo puramente "naturale", quanto a un corpo umano e cioè situato in un contesto culturale e che assume la "coscienza storica della sua finitudine" (Dilthey, 1992) come base della sua stessa liberazione. L'intreccio di eventi naturali e di eventi culturali sarà proprio ciò che pi˘ caratterizza una biografia.
Particolarmente interessante, per l'approfondimento di questa tematica, è il modello che D. Levinson ci offre del corso della vita e la sua definizione di struttura vitale:
La struttura vitale è l'insieme delle costanti o il grafico della vita di un soggetto, il reticolo del sé-nel-mondo. Le componenti principali sono le relazioni del soggetto: con il sé, con le altre persone, con i gruppi e le istituzioni, con tutti gli aspetti del mondo esterno che rivestano qualche importanza nella vita di un individuo. Una persona ha relazioni con il lavoro e con i vari elementi del mondo occupazionale; amicizie e reti sociali; relazioni amorose, fra cui il matrimonio e la famiglia; esperienze fisiche (salute, malattia, crescita, declino); tempo libero, ricreazione e impiego della solitudine; appartenenze e ruoli in molti contesti sociali. Ogni relazione è come un filo di tappezzeria: il significato di un filo dipende dal posto che esso occupa nel disegno totale (1983, 338) [1] .
Appare evidente che è proprio pensando in termini di storia e costruendo biografie che possiamo entrare nella rete infinita di legami che connettono l'uomo alla totalità del mondo e il mondo a noi. Per la fenomenologia l'individuo non esiste per sé stesso, si ulteriorizza sempre, sia in rapporto a sé sia in rapporto agli altri, cioè in rapporto a qualcosa che lo oltrepassa. Questo trascendere non è da intendersi come qualcosa che va aggiunto all'esserci, ma ne è l'essenziale caratteristica: l'esserci esiste proprio in questo fondamentale fenomeno del "trascendersi", del continuo rimando. La trascendenza "nel" mondo è quindi la vera natura dell'uomo, nel mondo delle "relazioni", in cui si è "gettati". (ä) La capacità di relazionarsi (cioè la trascendenza) è la modalità fondamentale dell'esserci, che irradia "nel" mondo ed è permeata "dal" mondo in cui vive (Callieri, 1971, 25).
Degli infiniti legami, soltanto alcuni saranno individuabili e decifrabili, rimanendo gli altri quel non-detto che, proprio attraverso l'ascolto a partire dal corpo come luogo di solidarietà col mondo, potranno, tuttavia, non rimanere inafferrabili, ma anzi divenire presenti all'immediatezza della nostra coscienza, quando questa si mostri capace di "dilatarsi", di "allargarsi" [2] e di porsi al livello della realtà transpersonale. Quella di costruire una biografia, come anche il riflettere sulla propria storia, diviene dunque indicazione metodologica di fondamentale importanza nel contesto clinico, nel quale, come è noto, lo studio dei "casi" ha un peso non minore di quello dell'"esperimento" nel contesto delle discipline naturalistiche.
Si ritorna così a quella consapevolezza che autori che si richiamano alla fenomenologia avevano già sottolineato con forza. Per W. Dilthey l'uomo è un ente storico. La finitezza e la temporalità sono costitutive della sua essenza: l'uomo è una creatura del tempo; è un essere sociale in quanto la storia si esplica in istituzioni oggettive di carattere sociale e l'"esistenza" è sempre "coesistenza" (Morra, 1992).
La comprensione (della storia) è un'analisi di "eventi storici, connessi dinamicamente, esperibili e riproducibili all'interno dell'uomo" (Sinatra, 1985, 445). Jaspers sottolinea l'unità della vita nel suo dispiegarsi temporale e scrive che ogni vita psichica è un tutto come forma temporale (ä). Ogni vera storia clinica conduce alla biografia. La malattia psichica ha le sua radici nell'insieme della vita e per la sua comprensione non si può staccare da essa. Questo insieme si chiama il bios dell'uomo, la cui descrizione e il cui racconto si chiama "biografia" (nell'uso corrente della lingua è diventato abituale chiamare biografia anche lo stesso bios dell'uomo) (1964, 719).
Il metodo biografico nella clinica
Come per il corpo, in cui va distinto l'organismo (o corpo oggettivo) dal corpo vissuto, così andrà distinto il tempo cronologico dal tempo dell'esperire o tempo vissuto. Il metodo biografico è stato da sempre impiegato in medicina, costituendo l'anamnesi uno dei momenti obbligati in cui si articola l'esame del malato. Ma, come nota O. Sacks [3] , il neurologo che attualmente ha, con molto successo, riportato l'attenzione sull'importanza delle storie cliniche, altra cosa è la descrizione oggettiva del decorso di una malattia, altro il cercare di entrare nel mondo soggettivo di un uomo ammalato. Questo "salire al concreto", prestando attenzione alla persona nella sua globalità, è non solo un principio etico, ma anche scientifico. La fisiologia, la neurologia ed anche la stessa neuroscienza hanno bisogno del concetto di individuo. Lurija stesso ha utilizzato questo principio in maniera decisiva. In realtà egli (ä) pensa che la raccolta dei dettagli storici, l'idea della ricchezza di una vita e della sua piena concretezza, siano strumenti necessari se si vuole trattare un qualsiasi paziente. Ecco che la storia di un caso impersonale deve essere sostituita da una biografia profonda ed essenzialmente personale. Lurija stesso si trovava sempre a questo punto di intersezione tra biologia e biografia, sia come clinico che come scrittore (Sacks 1990, 9).
Infatti, dice ancora Sacks: Ippocrate introdusse il concetto storico di malattia, l'idea che le malattie hanno un corso, dai primi accenni al climax o crisi, e quindi alla risoluzione, lieta o fatale. Ippocrate introdusse perciò l'anamnesi, una descrizione, o quadro della storia naturale della malattia, espressa con precisione dal vecchio termine "patografia". Le anamnesi sono una forma di storia naturale, ma non ci dicono nulla sull'individuo e sulla sua storia; non comunicano nulla della persona e della sua esperienza, di come essa affronta la malattia e lotta per sopravvivere. Non vi è "soggetto" nella scarna storia di un caso clinico; le anamnesi moderne accennano al soggetto con formule sbrigative ("albino femmina trisomico di 21 anni") che potrebbero riferirsi a un essere umano come a un ratto. Per riportare il soggetto – il soggetto umano che soffre, si avvilisce, lotta – al centro del quadro, dobbiamo approfondire la storia di un caso sino a farne una vera storia, un racconto: solo allora avremo un "chi" oltre a un "che cosa", avremo una persona reale, un paziente, in relazione alla malattia – in relazione alla sfera fisica. L'intima natura del paziente è del tutto pertinente all'àmbito d'indagine pi˘ elevato della neurologia e alla psicologia, poiché esse hanno intimamente a che fare con la personalità del paziente, e lo studio della malattia non può essere disgiunto da quello dell'identità.
La tradizione di storie cliniche attente alla personalità umana tocca il suo culmine nell'Ottocento per poi declinare con l'avvento di una scienza neurologica impersonale. Ha scritto Lurija: ´La capacità di descrivere, così comune nei grandi neurologi e psichiatri dell'Ottocento, oggi è quasi scomparsaä » necessario ridarle vitaª. (ä) La tradizione ottocentesca di cui parla Lurija, la tradizione del primo storico medico, Ippocrate, e la tradizione universale e preistorica che ha sempre visto i pazienti raccontare al medico la loro storia.
Le fiabe classiche hanno figure archetipiche – eroi, vittime, martiri, guerrieri. I pazienti neurologici sono tutte queste figureä Possiamo vederle come viaggiatori diretti verso terre inimmaginabili, terre di cui altrimenti non avremmo idea, che non potremmo raffigurarci. Ecco perché le loro vite e i loro viaggi hanno per me qualcosa di fiabesco, ecco perché (ä) sento di dover parlare di storie e fiabe non meno che di casi. In questi campi, lo scientifico e il romantico, il romanzesco, chiedono a gran voce d'incontrarsi: Lurija amava parlare di "scienza romantica". Essi s'incontrano al punto d'intersezione tra fatto e fiaba, intersezione che caratterizza (come già nel mio libro Risvegli) le vite dei pazienti qui [nel libro L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello] raccontate.
Ma che fatti! Che fiabe! A che cosa paragonarli? Forse non possediamo i modelli, le metafore o i miti necessari. Che sia giunto il tempo di nuovi simboli, di nuovi miti? (Sacks, 1986, 12-14).
Le domande di Sacks sono certamente assai stimolanti e ci fanno intravedere una via di possibile rinnovamento del guardaroba concettuale della psicologia. Per ora vogliamo almeno leggere, nel successo avuto dalla sua opera, l'esigenza e la speranza di una medicina dal volto umano, attenta alla persona nella sua soggettività, capace di rendersi conto di quell'unità significativa che promana sempre dalla storia interiore di un singolo e che si riporta non alla sua determinazione energetica, ma alla sua decisione, al "come" egli ha assunto e fatto proprio il suo "limite naturale" (Cargnello, 1977, 178 s.).
J. Bruner [4] , nella sua proposta di una "psicologia culturale", sottolinea l'importanza del concetto di un Sé narratore, un Sé che narra storie in cui la descrizione del Sé fa parte della storia. Sul significato di tali storie, egli ricorda che per D. Spence (autore di Verità narrativa e verità storica) in analisi non è tanto importante la verità storica che il paziente racconta ma la verità narrativa in grado di innescare un processo ricostruttivo, in ciò essendo meno un archeologo sche scava e recupera il passato e pi˘ un artista che crea, connette, riesce a cogliere il senso che riconduce al proprio problema. L'analisi fenomenologica studiando i modi in cui la presenza umana si declina e si progetta nel suo dispiegarsi storico, rileva le successive modalità con cui ha realizzato le sue diverse possibilità (cfr. Bruner, 1992, 111).
R. Schafer, per parte sua, soffermandosi sulle modalità di tale costruzione narrativa, afferma che per tutta la vita non facciamo che raccontare noi stessi. Possiamo ritenere, per diverse finalità, che raccontare queste storie su di noi agli altri equivalga a eseguire dei veri e propri atti narrativi. Tuttavia, nel dire che raccontiamo queste storie anche a noi stessi, noi racchiudiamo una storia nell'altra. » la storia che c'è un Sé a cui raccontare qualcosa, qualcun altro che funga da pubblico, che è sé stessi o il proprio Sé. Quando le storie che noi raccontiamo agli altri su noi stessi riguardano altri nostri Sé, per esempio quando diciamo: "Non sono padrone di me stesso", allora di nuovo stiamo racchiudendo una storia nell'altra. Da questo punto di vista il Sé è un raccontare. Questo raccontare può variare a seconda delle occasioni e delle persone (Bruner, 1992: 110).
Poiché anche gli altri vengono resi in modo narrativo, la narrazione su di noi a un altro diviene doppiamente narrativa e in quanto progetto dello sviluppo personale, l'analisi personale modifica le principali domande che ognuno di noi pone alla storia della sua vita e della vita di altri significativi. La sfida per l'analista e per l'analizzato diviene allora questa: "Vediamo come si può riformulare questa storia in modo da permetterti di comprendere le origini, i significati e la portata delle tue difficoltà attuali e di farlo in modo che renda concepibile e possibile un cambiamento" (ibidem).
Ancora pi˘ radicale è J. Hillman [5] nel sostenere che la psicoterapia è riuscita a inventare una narrativa che cura, una narrativa che, nella nostra cultura, possa svolgere quell'intento terapeutico che l'arte dello scrivere si prefiggeva, donando catarsi e unità tematica a un'anima.
La terapia riscatta il mondo sottile delle immagini dal mondo grossolano dei fatti e volge l'anima verso gli dèi. Per questo, naturalmente, ha invaso il campo delle arti e della critica d'arte, diventando, con i suoi rituali, le sue "botteghe", la forma d'arte predominante nel nostro tempo. Essa è la sola che ardisca di penetrare nella vita immediata dell'anima individuale e di impegnarvisi, con l'intento di guarire l'anima dalla sua condizione prosaica, offrendole una nuova storia per le sue immagini. (ä) Immagino che la mente sia fondata non sulle microstrutture del cervello o del linguaggio, ma su quelle storie supreme, gli dèi, che costituiscono i modelli fondamentali del nostro agire, credere, conoscere, sentire e soffrire, dove possono persino trovare dimora. » soltanto nelle storie che questi Dei si mostrano ancora. La mente è fondata nelle sua stessa attività narrativa, nel suo fare fantasia. Questo "fare" è poiesis. (Hillman, 1984, III).
Le storie cliniche, sostiene Hillman, non sono importanti in quanto residui del modello medico o esempi paradigmatici che suffraghino l'una o l'altra teoria, ma per il loro essere fenomeni soggettivi, storie dell'anima.
Ci danno una narrazione, un'invenzione letteraria che deletteralizza la nostra vita dalla sua ossessione proiettiva per l'esteriorità, perché la iscrivono dentro una storia. Ci spostano, dalla finzione della realtà alla realtà della finzione. Ci donano la possibilità di riconoscerci nel disordine del mondo, per esserci impegnati e per essere sempre impegnati nel fare-anima [6] , dove "fare" ritorna al suo significato originario di poiesis: fare anima come poiesis psicologica, il fare dell'anima tramite l'immaginazione delle parole. [äForse andiamo in analisi] per ricevere una storia clinica, il dono di trovare sé stessi nel mito; nei miti dove gli Dei e gli uomini s'incontrano. (Hillman, 1983, 63)
Fenomenologia e racconto di sé
L'analisi esistenziale fenomenologica sottolinea il valore epistemologico e la peculiarità di questo tipo di esplorazione/costruzione:
Proprio nel nesso tra l'evento, l'accadimento e l'Erlebnis [7] possiamo trovare con molta evidenza le differenze tra un atteggiamento naturalistico/genetico e uno antropologico/modale. L'Erlebnis è infatti contemporaneamente un esperire "qualche cosa" e un sapere intorno a "qualche cosa" che ci capita. Dunque anche un sapere alcunché di noi stessi (ä). Non è che l'uomo si limiti a introdurre un significato all'accadere, ma piuttosto egli, in quanto ne parla o vi pensa o lo coglie o anche semplicemente "lo subisce", immediatamente lo assume ("interpreta") in un determinato senso, cioè in un modo oppure in un altro ancora, secondo chi egli è e come egli è. Senso e significato infatti hanno senso e significato solo e soltanto per quel certo uomo e per il mondo che è il suo "mondo". [ä] Riassumendo [ä]: il polo costituito dall'esperire (Erleben), cioè dalla soggettività, e il polo costituito dall'oggettualità, debbono venir intesi come correlativi a un'unica e medesima costituzione ontologica; in altre parole, correlativi al modo pi˘ proprio con cui l'individualità si decide e si schiude rispetto al suo essere e al suo comprendersi (Cargnello, 1977, 180-81).
La psichiatria fenomenologica riconosce a Freud il merito di aver mostrato, come nessuno prima di lui, l'importanza della storia interiore, potendo la prassi psicoanalitica in definitiva ricondursi a una
sistematica ricostruzione (sia pure da un particolare punto di vista) di quel continuum di esperienze intime che segnano, nel loro concatenato succedersi, le tappe e la traiettoria del testimoniarsi di un individuo proprio come umana presenza e non già soltanto la mera registrazione anamnestica delle vicissitudini attraverso cui è trascorso (ivi, 176-77).
Ma al principio metodologico innovativo fa riscontro il riduzionismo teorico e interpretativo che, in nome dell'homo-natura, ha ignorato il multicategoriale homo-existentia, i "modi" originari della presenza (Dasein), fino a ridurre l'espressività artistica, l'agire etico e la religiosità a mere "illusioni", con una contraddizione che ha fatto dire a L. Binswanger [8] :
» davvero sorprendente dover constatare come l'approfondimento scientifico pi˘ intensivo della storia interioreä la sua pi˘ sistematica e paziente esplicitazione psicologico-ermeneutica, e cioè la psicoanalisi di Freud, rappresenti in pari tempo il pi˘ chiuso e violento tentativo di condurre questa interpretazione distorcendola in senso dinamico-funzionalistico (cit. in Cargnello, 1977, 177).
Ogni riduzionismo ha la pretesa, se non l'arroganza, di saper tutto spiegare e tutto interpretare. L'adozione del metodo fenomenologico, con le parole di U. Galimberti, "non concede pi˘ alla psicoanalisi di spiegare la totalità dell'umano, ma semplicemente di comprendere qualcosa al livello umano" (Galimberti, 1987, 211). L'analisi esistenziale si occupa, invece, dei modi in cui si rivela l'umana presenza, il suo progettarsi, il come essere nel mondo, presenza attuale, che tuttavia compendia
anche il futuro, inteso come poter-essere, e il passato, come essere-già-stati. Infatti, se la presenza è un anticiparsi, questa possibilità di futuro non è un insieme di generiche possibilità, ma di determinate possibilità che trovano la loro base in ciò che essa già fu (1987, 203).
Modi della presenza che saranno da un lato quelli del poter-liberamente-essere, in cui si attua la "grazia" dell'autorealizzazione e rivelazione di sé, dall'altro quelli della "miseria" dell'esser-costretto-ad-essere (dell'essere cioè nel segno dell'altrui imposizione), modi, questi, che pur nella loro "disgraziata" tragicità rimangono sempre forme dell'umana rivelazione. Per chi, nella convinzione della "pre-esistenza ontica del 'noi' rispetto all''io'", ha compreso che esistere è partecipare, che l'esistenza è coesistenza (esse est coesse), che la coscienza ha una fondazione interpersonale, che è proprio nella consapevolezza della "noità", stabilita nell'incontro, che risiede la chiave ermeneutica della condotta e dei suoi disturbi, la psichiatria viene a configurarsi non soltanto come lo studio delle distorsioni della comunicazione interumana, ma anche, e forse soprattutto, come lo studio delle distorsioni (antropologiche) dell'incontro (ä), come la scienza che studia l'uomo nella sua capacità e incapacità di costituirsi in Noi (Callieri 1989, 167).
Presenza e decentramento
L'attenzione alla biografia non vuole certo, in alcun modo, rappresentare un rigurgito di narcisismo, un ritorno a una coscienza separata e alla contrapposizione sé/non-sé, ma porsi come una modalità per realizzare la consapevolezza delle connessioni e dell'interdipendenza, come un abitare il luogo in cui la consapevolezza dello svolgersi e della finitezza nel tempo diviene rivelazione della costitutiva essenza umana: "centrarsi" sul bÌos vuol dire dunque ritrovare, "concentrato" in noi, il BÌos che è anche oltre noi; in altri termini, ciò significa "decentrarsi" dall'illusione di noi come entità separate e realizzare il paradosso di partire dal biografico per uscire dal biografico. In questa luce, l'interazione, il dare e ricevere, come costitutivi di ogni incontro nella reciprocità, vengono a essere costitutivi anche della relazione medico/paziente. Questa consapevolezza ha portato molti a ridiscutere il problema di fondo della psicoanalisi, cioè il concetto di transfert, che finirebbe per essere una finzione naturalistica escogitata dall'analista per eludere l'incontro col paziente. Secondo questi studiosi (e viene qui in mente il Fromm di L'arte di amare, così vicino alla teoria scheleriana dell'amore) solo l'autentico interesse personale per il paziente determinerebbe in questo la disposizione alla guarigione [ä]. Solo quando il paziente si apre all'incontro (ammesso che il terapeuta vi sia interiormente disposto e ne sia capace) solo allora il neurotico comincia ad essere autenticamente capace di comunicare, di porsi in relazione. » necessario quindi riscattare il transfert dalla sua limitazione (naturalistica) e schiuderlo all'incontro, cioè al "noi" (ivi, 166).
Ricostruire una storia diviene dunque un costruire insieme un tratto di vita, rimodellare parti di sé e delle rappresentazioni della propria identità e del proprio contesto sociale. Questo è possibile nella misura in cui si è capaci di ascolto, ossia di comprensione e di esperienza. Se lo psichiatra, in quanto medico, tende all'obiettivazione del paziente e al suo inquadramento nelle categorie dell'alienazione, lo psichiatra, come human scientist, vivrà l'altro non pi˘ come un "caso", ma come un tu concreto, un alter-ego con cui formare un "noi".
Sapersi mantenere con l'altro e non meramente di fronte all'altro, anche se psicotico, significa scorgere l'uomo (cioè un "ordine") anche là dove – con altra impostazione – si scorgerebbe non altro che un disturbo mentale, cioè un "disordine". » forse questa della dimensione interpersonale la vera "rivoluzione copernicana" dell'attuale psichiatria. (ivi, 179).
Oggi si tende a sottolineare l'esigenza di sviluppare, accanto alla formazione tecnica dello psichiatra e dello psicoterapeuta, caratteristiche eminentemente umane come la capacità di darsi, la disponibilità, l'accettazione del "diverso" e dell'"anormale", il bisogno autentico di comprendere e di amare il paziente, qualità che permettano di realizzare, anche nell'incontro clinico, un'occasione per quello che l'antropologia fenomenologica chiama "l'essere-insieme-nell'amore". Questo ci pone certamente un nuovo stimolo alla consapevolezza della motivazione e del vissuto del "professionista della salute mentale". Come osserva infatti uno dei rappresentanti della scuola fenomenologica italiana, la necessità di un simile incontro, antropologicamente valido, non ci dispensa dal chiederci che cosa spinga l'uomo-psichiatra ad accostarsi all'alienato fino a tendere alla realizzazione di un incontro. Forse è nella sua dialettica con l'Irrazionale, nel confronto con le situazioni angoscianti degli altri, che egli affronta la problematica della propria angoscia. Questo equilibrio precario e delicato, sul filo del rasoio, col continuo rischio di essere infranto, porta lo psichiatra ad una posizione essenzialmente ambigua: le sue possibilità di essere-con-qualcuno-nel-mondo, pur accrescendosi, si problematizzano (ivi, 176).
Ma, se vogliamo affermare un modo radicalmente diverso di essere psicologi, psicoterapeuti, psichiatri di fronte al problema/sintomo e a chi ne è portatore e lo esprime, non si può sfuggire al rischio dell'impegno, dell'empatia e dell'amore. Per concludere, usando ancora le parole di B. Callieri, Parlare d'amore e in termini d'amore può certamente suonar scandalo sia alle orecchio del medico che del filosofo, sia del naturalista che del metafisico. Ma è un rischio che oggi val la pena di correre (ivi, 168).
2. Il campo autobiografico
La scrittura e la pratica letteraria
Nella clinica ricostruire una storia significa dunque costruire insieme un tratto di vita, rimodellare parti di sé. Al di fuori del campo propriamente clinico queste stesse finalità possono essere ritrovate nei diversi "modi" della narrazione, dall'oralità alla scrittura, dalla scrittura privata alla scrittura letteraria. In particolare, alcuni generi della scrittura sembrano già esplicitamente volti al tema della ridefinizione dell'identità. L'autobiografia appare come un vasto campo in cui troviamo diversi generi.
La complessità del tema si palesa già nel guardare i diversi ambiti e i diversi scopi del "fare autobiografia". Se cerchiamo di individuare l'autobiografia come genere letterario, in cui rientrano narrazioni con valore sia di testimonianze di vita (J.-J. Rousseau) sia di strumenti di crescita e di trasformazione (in quanto pratiche di autosvelamento; Confessioni di S. Agostino), ci accorgiamo subito della incertezza dei suoi confini e della difficoltà stessa di una classificazione delle forme del narrare, ognuna dotata di specifici caratteri e anche di specifiche difficoltà di manipolazione. Meglio forse parlare di un "campo autobiografico", in cui possano trovare posto: diari, corrispondenze pubbliche o private, l'album delle fotografie, gli oggetti collezionati e i libri raccolti, il curriculum vitae, l'anamnesi medica, le interviste, le conversazioni, il monologo interiore in cui il soggetto si racconta quotidianamente la propria storia. Proviamo ad affidarci allora alla definizione che ci offre Ph. Lejeune, uno studioso che ha consacrato l'essenziale delle sue ricerche proprio al tema dell'autobiografia:
Chiamiamo autobiografia il racconto retrospettivo in prosa che qualcuno fa della propria esistenza, quando mette l'accento principale sulla vita individuale, in particolare sulla storia della propria personalità (1986).
Ci domandiamo quindi: è possibile un racconto di questo tipo e quali effetti possiamo aspettarci da esso? Se l'obiettivo è quello di operare una trasformazione di sé, ci dobbiamo interrogare non solo su quali possano essere le forme di narrazione dotate di questa capacità ma anche sul significato da dare alla stessa auspicata trasformazione. Allorquando la narrazione sia vista come coscienza di sé e pratica di cambiamento, come modo di auto-svelamento, non solo, ma anche del costituirsi del soggetto, non possiamo non far rientrare nel campo autobiografico la stessa psicoterapia, intesa come modo per ri-costruire una storia, per unificare e dare senso agli eventi della vita, peculiare luogo in cui operare, con l'aiuto di un co-narratore (il terapeuta), la ri-composizione di una incerta o compromessa identità.
L'idea che, narrandosi, l'uomo si disveli presuppone che la vita sia già una storia (che la narrazione sia cioè adeguata al suo oggetto) e che sia vera, realizzando così una identità fra i tre termini di auto (io stesso), bio (la vita come si svolge) e grafia (io nel senso di un me contratto nella mia mano che scrive). Ma si tratterà di una reale unità o di una chimerica unione di tre parti inconciliabili? Non viene in ciò celato qualcosa che maschera e che, come assenza e differenza, diviene proprio il campo della scrittura?
La "pretesa" di poter operare una biografia compiuta la troviamo nelle parole con le quali J.-J. Rousseau inizia le sue Confessioni. Rousseau si rivolge al lettore quasi con una intimidazione, perché non osi dubitare che egli ci sta dando una storia vera:
Mi accingo a un'impresa che non conosce esempi e che non conoscerà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della propria natura, e quell'uomo sono io. Io solo. So leggere nel mio cuore e conosco gli uomini (1988).
Non siamo qui di fronte a un discorso di verità piuttosto che a un discorso vero? Nella giustificazione, in cui il filosofo vuole offrire una sorta di garanzia affermando je dis la verité, non possiamo non vedere che egli ci dice piuttosto je dis que je dis la verité. Può infatti dircela la verità? Quale? E quanta? J. Lacan sembra far eco e rispondere contrapponendosi: "Je dis toutjours la verité: pas toute, parce que toute la dire, on n'y arrive pas [ä] Les mots y manquent" (1966).
Nell'Esodo troviamo l'archetipo dell'autobiografia, l'autobiografia nella sua forma pi˘ compiuta e pi˘ breve, perfetta nella coincidenza del soggetto dell'enunciazione col soggetto dell'enunciato. Quando Mosè interroga il Signore per chiedergli come dovrà presentarlo al suo popolo, Dio gli risponde dicendo: "Sono colui che sono". Se questa è la autobiografia, a noi è concesso realizzare soltanto una o delle autobiografie. Tuttavia, anche se non è possibile dare la "verità di sé", rimane la tentazione di ritrovarsi e offrirsi attraverso una configurazione coerente, unitaria, sensata, che veda gli eventi della vita come "operatori di destino". Nell'impossibilità di comprendersi in una solitaria autoreferenzialità, il soggetto scopre che si co-narra o che viene narrato. C'è infatti una basilare dimensione paradossale nella scrittura autobiografica, consistente nel fatto che le due scene fondamentali della nostra vita, la nascita e la morte costituiscono per noi un indicibile fondamentale, appartengono a spettatori estranei, ad altrui narrazioni, sottolineandosi così la insuperabile estraneità di noi a noi [9] . E come parlare dell'altro mistero, posto tra l'inizio e la fine, il desiderio, di cui non ci sono trasparenti né la genesi né gli obiettivi profondi?
Uno dei pi˘ tipici romanzieri dell'io e memorialisti moderni, Chateaubriand, scriveva: "Vedo i riflessi di un'aurora di cui non vedrò mai levarsi il sole. Non mi resta che sedermi al bordo della mia fossa; dopo di che scenderò arditamente, il crocifisso in mano, nell'eternità". Tra revisione e previsione, l'immagine dell'oltretomba, come limite del sé, trasforma l'auto-biografia in etero-biografia.
Lejeune, vede tutta la convenzionalità, il "come se", dell'autobiografia e parla per questo di un pacte autobiographique (e ha intitolato Autopacte, dal nome di un personaggio di J. de La Bruyère, il sito Internet sulla scrittura autobiografica che egli amministra) per sottolineare la natura contrattuale, giuridica dell'autobiografia, forse solo un modo distinto da quelli imposti dal patto romanzesco o fantasmatico o altro.
Autobiografia come testimonianza, narrazione di eventi, selezione, composizione, montaggio del passato per restituire la storia di una vita; oppure intenzionale pratica di auto-osservazione, autocostruzione, autosvelamento, strumento attraverso cui la vita si organizza e acquista senso. In questo caso la scrittura diventa una vera e propria "tecnologia del sé", grazie alla quale connettere i diversi livelli dell'esperienza, fino alle connessioni trans-personali, quindi trans-storiche, trans-narrative, trans-biografiche. Scrittura come strumento per portare in campo quei bisogni "superiori" che il modello psicologico pre-transpersonale non era in grado di giustificare. Il raccontarsi biografico diventa così la premessa di una diversa autobiografia, quella transpersonale.
Trans-biografia: oltre l'identità personale
Il racconto di sé può diventare una modalità per realizzare la consapevolezza delle connessioni e dell'interdipendenza: dal bÌos che è "in noi", al Bìos che è "oltre noi". In questo senso, il racconto di sé può essere visto come il prolungamento del mito. Altrimenti, perché mai sarebbe tanto importante sapere quel che succede alla marchesa che prende il tè alle cinque? Come notava M. Eliade
Credo che ogni narrazione, anche quella di un fatto banalissimo, prolunghi le grandi storie raccontate dai miti perché spiegano in che modo questo mondo è nato e come mai la nostra condizione è quella che noi oggi conosciamo. Penso che l'interesse per la narrazione fa parte del nostro modo di essere al mondo. Essa corrisponde al bisogno che abbiamo di comprendere quel che è successo, quel che hanno fatto gli uomini, ciò che possono fare, i rischi, le avventure, le prove di ogni sorta. [ä] Siamo esseri di "avventura". E mai l'uomo farà a meno di ascoltare storie (1980, 152).
I. Calvino (1993) vede la letteratura e in particolare il romanzo contemporaneo come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo.
Letteratura, quindi, come forma di conoscenza che ci aiuta a comprendere l'interdipendenza e ci orienta verso un pensiero a rete: un modo di pensare, di sentire, di agire per connessioni e relazioni. Letteratura come "pratica di vita", come tecnologia del sé, che incide sulla organizzazione stessa della mente e nel riorientamento di bisogni e motivazioni, che promuove la consapevolezza della comune "natura" di tutti gli uomini e la fondamentale "solidarietà" tra uomo e ambiente. Attraverso la scrittura e il racconto di sé, la mente può oggettivarsi, può guardarsi e riorientarsi, rivolgendo il suo interesse al di là dei confini individuali, per comprendere aspetti pi˘ ampi della vita e dell'umanità. La scrittura rende pi˘ "reale" la vita, portandola oltre la sua transitorietà e dandole senso nel connetterla a ciò che è reale al di là della immediatezza spaziale e temporale, al di là dell'ordinaria contingenza.
Viene così a delinearsi una diversa identità: connettiva, complessa, interrelata, un'identità che va oltre la limitata individualità biologica, storica, culturale e personale per riconoscersi parte di una pi˘ ampia intelligenza-compassione che comprende l'intero universo.
L'apertura a un atteggiamento anegoico ci fa comprendere la frustrazione insita negli sforzi di dare significato alla vita di un individuo astratto e illusorio nel suo isolamento. In questo senso, dicevano ironicamente O. Wilde: "Ciascuno deve trovare la propria strada, ma le strade non portano da nessuna parte" o E. Flaiano: "Conoscere sé stesso. Dopodiché diventa impossibile vivere con sé stesso". E ancora, Calvino (1995) parlando del gesto quotidiano di raccogliere e buttare i resti, la spazzatura, nella poubelle (o secchio delle immondizie), si spinge a comparare due generi di spazzatura domestica: i prodotti della cucina e i prodotti della scrittura, il secchio dei rifiuti e il cestino della carta. In effetti, per Calvino, "scrivere è dispossessarsi non meno che il buttar via", è un allontanare da sé e l'autobiografia diventa un modo di riconoscersi attraverso l'espellere: "spazzatura come autobiografia". L'atto stesso della scrittura è un liberarsi, un espellere i resti dell'esperienza: l'autobiografia come spazzatura di un individuo che – proprio in quanto tale – sembra condannato a restare irredimibile. Scrivere, raccontarsi è "espellere i resti", ma è proprio attraverso tale evacuazione che si produce uno scarto, un intervallo dal quale gettare uno sguardo d'insieme, configurare gli eventi, cogliere l'essenziale. Scrivere diventa allora un'opera di "salvataggio" dall'effimero e un argine allo scorrere indifferenziato del tempo. In conclusione, conosciuto il limite bisogna andare oltre.
Anzitutto egli rilevò che la sua convinzione che la vita non avesse alcun significato prendeva in considerazione soltanto questa vita finita. Egli cercava il valore di un termine finito in quello di un altro, e il risultato finale non poteva essere che una di quelle equazioni indeterminate della matematica che terminano con 0=0. Tuttavia, questo è tutto ciò che l'intelletto raziocinante può ottenere con le sue forze, a meno che un sentimento irrazionale o una fede non portino in campo l'infinito (1982, p. 184).
Le scienze umane (e in particolare la psicoanalisi) hanno già effettuato un recupero delle antiche tecniche di verbalizzazione, ma la nuova consapevolezza con cui, nella prospettiva transpersonale, possiamo oggi guardare a questi documenti di psicologia spirituale non potrà che ulteriormente valorizzare questa forma di scrittura che si qualifica come una delle tecniche pi˘ efficaci per la costituzione di un nuovo sé, nella consapevolezza che la vera anamnesi storiografica sbocca anch'essa su un tempo primordiale, il tempo in cui gli uomini fondavano i loro comportamenti culturali, nella convinzione che questi comportamenti fossero stati loro rivelati dagli Esseri soprannaturali. Ogni memoria sarà così memoria dell'origine, e ogni memoria dell'origine, luce e salvezza. Poiché niente è perduto; poiché grazie al tempo, distruttore e creatore, l'origine ha preso significato. Si vedrebbe bene allora, perché la storia si compie in ermeneutica, e l'ermeneutica in creazione, in poesia (Eliade, 1980, 168).
Bibliografia
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[1] Sulla problematica del ciclo vitale, dalla nascita (o dalla concezione) alla morte, vedi Guy LefranÁois (1990).
[2] » noto che questi erano i termini impiegati dal "movimento della nuova coscienza" americano. Tra i tanti documenti su di esso ricordiamo almeno Jukebox all'idrogeno ("Il messaggio è: allargate l'area della coscienza") eTestimonianza a Chicago di Allen Ginsberg.
[3] Oliver Sacks, nato a Londra 1933 è professore di neurologia. Abile narratore, ha scritto libri di grande successo: Risvegli, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, e così via. I libri sono testimonianza delle sue esperienze cliniche ed espressione della sua profonda umanità.
[4] Jerome S. Bruner, nato nel 1915, psicologo cognitivista, considera la narrazione una modalità fondamentale di organizzazione dell'esperienza.
[5] James Hillman, nato nel 1926, americano, ma di formazione europea, insegna al Dallas Institute of Humanities and Culture. La sua "psicologia archetipica" rappresenta un originale sviluppo della psicologia junghiana.
[6] Su questo concetto di Hillman, cfr. altre sue opere come Il mito dell'analisi e Re-visione della psicologia.
[7] Secondo Cargnello, con Erlebnis possiamo intendere un arricchimento esperienziale significativo, sia gradito sia sgradito.
[8] Ludwig Binswanger (1881-1966), psichiatra svizzero, ha elaborato in modo personalmente creativo l'approccio fenomenologico in psichiatria. In Italia hanno dato importanti contributi a questa corrente psichiatri e studiosi come Cargnello, Calvi, Borgna, Callieri, Galimberti, Sini, e così via.
[9] Non mancano, tuttavia, esempi di autotanatografia, di scritture della/sulla propria morte, esemplati sul prototipo del racconto socratico del Fedone (ma, com'è ben noto, scritto da Platone), a un tempo, racconto filosofico e filosofia della morte. E ogni caso ripropone gli interrogativi sul rapporto tra letteratura e testimonianza, tra scrittura e indicibile.
da, con modifiche, M. Cavallo (a cura di), Il racconto che trasforma, Roma, EDUP, 2001, pp. 141-54.