Riccardo Venturini Cerimonie degli addii
Racconta Tonino Guerra (scrittore, poeta, sceneggiatore a lungo collaboratore di Federico Fellini) che una volta, in riverente visita al pittore Giorgio Morandi (1890-1964), chiese in ricordo al Maestro alcuni vecchi pennelli in disuso. Morandi, in tono quasi rimproverevole, gli rispose che quei pennelli andavano seppelliti. Guerra rimase molto stupito e ammirato per la sensibilità del grande pittore. Non so se altri pittori abbiano manifestato un'analoga forma di rispetto per i loro attrezzi d'arte ma, nel caso di Morandi, sembra trovare fondamento nel suo stesso stile. Egli, raffigurando come "nature morte" oggetti consueti quali bottiglie, vasi, caraffe, senza peso e prospettiva nella loro essenziale geometria volumetrica, tendeva a far trasparire, dietro le cose, strutture suscettibili di articolarsi in una molteplicità di aspetti, con una rappresentazione che da "metafisica" si fa religiosa, per cui anche un pennello in disuso trapassa la sfera della funzionalità per accedere a quella del sacro.
La forza dell'analogia ci rimanda dall'aneddoto morandiano al Giappone del periodo di Edo, quando i pennelli per la scrittura o la pittura erano oggetto di un rito "funebre" (fude kuyo), nel contesto di una più ampia pratica di "cerimonie degli addii" dedicate a oggetti inanimati, usati nella vita quotidiana, lavorativa o religiosa.
Tali pratiche sono ancora presenti nel Giappone contemporaneo. Cerimonie funebri o commemorative in onore di pennelli da scrittura, matite, sigilli del nome (inkan), etc. si svolgono, ad es., nei santuari scintoisti Tenjin, dedicati alla memoria dello spirito di Sugawara Michizane (influente studioso e politico del periodo di Heian), identificato come kami Tenjin o divinità shintoista dell'educazione (e perciò molto popolare tra gli studenti che si preparano per gli esami). Analoghe cerimonie in onore dei pennelli usati si svolgono annualmente presso il tempio buddhista Tofukuji (Kyoto).
Prende il nome di ningyo kuyo il "funerale" delle bambole che hanno concluso la loro vita "terrena", durante il quale i loro "corpi" vengono "cremati" (fig. 1), come si conviene, in uno speciale inceneritore, riservato agli oggetti da onorare: una bambola che è stata curata per anni, associata a bei ricordi e ancora di aspetto gradevole non potrebbe essere gettata via coi rifiuti ordinari, ma giustamente attraverso un abbandono rituale.
Altre cerimonie di "accompagnamento" vengono svolte per tazze e utensili di ceramica (donabe), oggetti laccati come, ad es., pettini di pregio (nurikushi), etc. Nel secolo scorso, nell'era del benessere e per interessamento di associazioni professionali, nuovi riti sono stati introdotti a "beneficio" anche di occhiali, scarpe, orologi, prodotti tecnici, ma quello che ha conservato maggiore popolarità è probabilmente l' hari kuyo o memoriale in onore degli aghi (hari) usati.
Fino a qualche decennio fa l'ago e il cucito erano elementi caratteristici delle abilità femminili, ma oggi gli aghi sono poco o per nulla usati, per cui i servizi di abbandono degli aghi usati che si svolgono in santuari shintoisti o in tempi buddhisti sono prevalentemente organizzati da ditte o gruppi professionali che usano il cucito lavorativamente. Non mancano poi cerimonie per gli aghi da siringa o per quelli impiegati in agopuntura o, infine, per gli ami da pesca.
Dove e come si svolgono queste cerimonie? Se in onore di un oggetto è stato precedentemente eretto un monumento commemorativo o gli è stata dedicata una pietra "personalizzandola" con una iscrizione, questi monumenti divengono i luoghi presso i quali si compie il rito, altrimenti può essere scelto un ambiente di lavoro (ad es., in un'azienda o in una scuola di cucito) o, se si vuole sottolineare il significato religioso, un santuario o un tempio (v., in particolare, in Tokyo, il tempio Sensoji di Asakusa) [1].
Si recitano dei sutra e gli aghi, che hanno "sofferto" nella loro esistenza dovendo penetrare i tessuti o i tatami con una certa "fatica", vengono ora infilzati, per una sorta di compensazione, in un morbido panetto o blocco di tofu o di konnyaku [2] (fig. 2.1, 2.2, 2.3), davanti al quale si sosta in raccoglimento (fig. 3.1, 3.2, 3.3). I partecipanti, desiderosi di esprimere sentimenti di gratitudine, oltre a deporre gli aghi nel tofu e offrire incenso, eseguono anche canti ed eventuali danze, e recitano preghiere. Gli intervenuti pregano anche per il successo del collettivo di cui fanno parte e perché sia dato loro di migliorare nella propria abilità e lavorare senza danno, per cui il rito si dilata ad atto propiziatorio e di omaggio agli strumenti a cui è legata una determinata attività. Gli aghi vengono poi interrati o gettati in mare, al termine del rito o in un secondo momento.
La cura messa nella produzione degli oggetti (specie artigianali) e l'interazione affettiva con chi li ha usati finiscono per conferire un'"anima" anche agli oggetti materiali (v. la problematica buddhista della illuminazione degli esseri non-senzienti [3]), per cui sarebbe in qualche modo sacrilego gettarli via senza alcun rispetto, dimenticando l'unità di tutti i fenomeni della vita. Possiamo dire, pertanto, che tre sono i livelli implicati in queste cerimonie. Uno, materiale, che vuole evitare la dispersione disordinata di rifiuti nell'ambiente; un secondo, psicologico, che consente di chiudere in armonia, riconoscenza e pace il rapporto con gli oggetti dismessi; un terzo, infine, spirituale, che consente una consapevole e ordinata restituzione alla vita cosmica della materia e dell'energia "concentrate" negli oggetti che ci hanno accompagnato e servito. Consapevolezza, prudenza, ordine, rispetto, pagamento del debito di riconoscenza, sono tutte attitudini giapponesi che ritroviamo presenti in questo rituale, certamente marginale e in certo senso démodé , che esprime tuttavia un atteggiamento altamente spirituale.
Tra gli opposti della distruzione e della sacralizzazione della vita, spesso motivi di scontro nella nostra cultura, cerimonie come l'hari kuyopossono costituire, anche per noi occidentali, preziose occasioni di riflessione. Nel nostro modo, prima, di produrre e acquisire, spesso con bramosia, una grande quantità di oggetti, da gettare via, poco dopo, come immondizia inutile, dannosa e ingombrante, si annidano i germi dell'attaccamento e dell'avversione, i quali, insieme alla nescienza [4] , compongono il tristo terzetto dei veleni spirituali. Ordinariamente, ci sentiamo bravi custodi dell'ambiente quando, alla svelta, magari anche con una sottile punta di rancore, gettiamo nel cesto dei rifiuti tutto ciò che è caduto in disuso. Trasformando la "rimozione" in "restituzione", liberarsi di oggetti inutili può, invece, non essere più un mero gesto di "rifiuto", ma divenire uno stimolo per ripensare — nella coscienza dell'appartenza a un diverso piano di realtà — i nostri rapporti con l'attività, le cose, l'ambiente, realizzando, attraverso composte, e a volte forse malinconiche, cerimonie degli addii, quotidiani esercizi di gentilezza e di donazione.
pubbl. in DHARMA, n° 18, 2004
Fig. 1
Fig. 2.1, 2.2, 2.3
Fig. 3.1, 3.2, 3.3
[1] Usualmente, le date in cui vengono celebrati questi riti sono l'8 dicembre o l'8 febbraio; va ricordato che il numero 8 è in Oriente un numero già di per sé carico di significati e ha poi molte risonanze buddhiste (8 aprile, nascita del Buddha; 8 dicembre, parinivana; ottuplice sentiero, etc.).
[2] Il tofu, derivato dalla soya, è ormai ben noto anche in Occidente; il konnyaku, invece, è una sorta di gelatina derivata da un tipo di patata di origine indonesiana, chiamata Amorphophallus Konjac.
[3] Varie scuole buddhiste si posero il problema dell'illuminazione di esseri privi di vita cosciente ed emozionale, come le piante, o addirittura non-viventi, come le rocce o la terra stessa. Secondo la scuola Nichiren, gli esseri non-senzienti possono raggiungere la buddhità in due modi. Il primo, attraverso l'influenza degli esseri senzienti: quando un essere senziente raggiunge l'illuminazione, lo stesso stato si estende al suo ambiente, poiché la vita è una, pur attraverso tutte le sue differenti manifestazioni. L'ambiente in cui si muovono gli esseri illuminati acquista, in effetti, un suo proprio splendore e una sua armonia. In questo senso l'uomo illumina le cose perché è il luogo della coscienza delle cose. Il secondo, allorquando qualcosa diviene oggetto della nostra ammirazione o della nostra venerazione e contribuisce, in tal modo, alla nostra illuminazione. Scrive in proposito Nichiren: «Sia le scritture buddhiste sia quelle non buddhiste ammettono immagini scolpite o dipinte come oggetti di culto, ma la ragione di ciò è stata spiegata la prima volta dalla scuola T'ien-t'ai: se in un foglio di carta o in un pezzo di legno non vi fossero causa ed effetto, sia materiali che spirituali [non avessero, cioè, sia l'aspetto materiale che quello spirituale o mancassero della causa interna capace di dar luogo alla manifestazione di una natura spirituale], sarebbe vano affidarsi a immagini scolpite o dipinte come oggetti di culto» (Gli scritti di Nichiren Daishonin, tr. it., vol. I, Milano, Ass. it. Soka Gakkai, 1993, p. 216 s.).
[4] Avidia= ignoranza trascendentale, mancanza di vera conoscenza o Vidya.
Racconta Tonino Guerra (scrittore, poeta, sceneggiatore a lungo collaboratore di Federico Fellini) che una volta, in riverente visita al pittore Giorgio Morandi (1890-1964), chiese in ricordo al Maestro alcuni vecchi pennelli in disuso. Morandi, in tono quasi rimproverevole, gli rispose che quei pennelli andavano seppelliti. Guerra rimase molto stupito e ammirato per la sensibilità del grande pittore. Non so se altri pittori abbiano manifestato un'analoga forma di rispetto per i loro attrezzi d'arte ma, nel caso di Morandi, sembra trovare fondamento nel suo stesso stile. Egli, raffigurando come "nature morte" oggetti consueti quali bottiglie, vasi, caraffe, senza peso e prospettiva nella loro essenziale geometria volumetrica, tendeva a far trasparire, dietro le cose, strutture suscettibili di articolarsi in una molteplicità di aspetti, con una rappresentazione che da "metafisica" si fa religiosa, per cui anche un pennello in disuso trapassa la sfera della funzionalità per accedere a quella del sacro.
La forza dell'analogia ci rimanda dall'aneddoto morandiano al Giappone del periodo di Edo, quando i pennelli per la scrittura o la pittura erano oggetto di un rito "funebre" (fude kuyo), nel contesto di una più ampia pratica di "cerimonie degli addii" dedicate a oggetti inanimati, usati nella vita quotidiana, lavorativa o religiosa.
Tali pratiche sono ancora presenti nel Giappone contemporaneo. Cerimonie funebri o commemorative in onore di pennelli da scrittura, matite, sigilli del nome (inkan), etc. si svolgono, ad es., nei santuari scintoisti Tenjin, dedicati alla memoria dello spirito di Sugawara Michizane (influente studioso e politico del periodo di Heian), identificato come kami Tenjin o divinità shintoista dell'educazione (e perciò molto popolare tra gli studenti che si preparano per gli esami). Analoghe cerimonie in onore dei pennelli usati si svolgono annualmente presso il tempio buddhista Tofukuji (Kyoto).
Prende il nome di ningyo kuyo il "funerale" delle bambole che hanno concluso la loro vita "terrena", durante il quale i loro "corpi" vengono "cremati" (fig. 1), come si conviene, in uno speciale inceneritore, riservato agli oggetti da onorare: una bambola che è stata curata per anni, associata a bei ricordi e ancora di aspetto gradevole non potrebbe essere gettata via coi rifiuti ordinari, ma giustamente attraverso un abbandono rituale.
Altre cerimonie di "accompagnamento" vengono svolte per tazze e utensili di ceramica (donabe), oggetti laccati come, ad es., pettini di pregio (nurikushi), etc. Nel secolo scorso, nell'era del benessere e per interessamento di associazioni professionali, nuovi riti sono stati introdotti a "beneficio" anche di occhiali, scarpe, orologi, prodotti tecnici, ma quello che ha conservato maggiore popolarità è probabilmente l' hari kuyo o memoriale in onore degli aghi (hari) usati.
Fino a qualche decennio fa l'ago e il cucito erano elementi caratteristici delle abilità femminili, ma oggi gli aghi sono poco o per nulla usati, per cui i servizi di abbandono degli aghi usati che si svolgono in santuari shintoisti o in tempi buddhisti sono prevalentemente organizzati da ditte o gruppi professionali che usano il cucito lavorativamente. Non mancano poi cerimonie per gli aghi da siringa o per quelli impiegati in agopuntura o, infine, per gli ami da pesca.
Dove e come si svolgono queste cerimonie? Se in onore di un oggetto è stato precedentemente eretto un monumento commemorativo o gli è stata dedicata una pietra "personalizzandola" con una iscrizione, questi monumenti divengono i luoghi presso i quali si compie il rito, altrimenti può essere scelto un ambiente di lavoro (ad es., in un'azienda o in una scuola di cucito) o, se si vuole sottolineare il significato religioso, un santuario o un tempio (v., in particolare, in Tokyo, il tempio Sensoji di Asakusa) [1].
Si recitano dei sutra e gli aghi, che hanno "sofferto" nella loro esistenza dovendo penetrare i tessuti o i tatami con una certa "fatica", vengono ora infilzati, per una sorta di compensazione, in un morbido panetto o blocco di tofu o di konnyaku [2] (fig. 2.1, 2.2, 2.3), davanti al quale si sosta in raccoglimento (fig. 3.1, 3.2, 3.3). I partecipanti, desiderosi di esprimere sentimenti di gratitudine, oltre a deporre gli aghi nel tofu e offrire incenso, eseguono anche canti ed eventuali danze, e recitano preghiere. Gli intervenuti pregano anche per il successo del collettivo di cui fanno parte e perché sia dato loro di migliorare nella propria abilità e lavorare senza danno, per cui il rito si dilata ad atto propiziatorio e di omaggio agli strumenti a cui è legata una determinata attività. Gli aghi vengono poi interrati o gettati in mare, al termine del rito o in un secondo momento.
La cura messa nella produzione degli oggetti (specie artigianali) e l'interazione affettiva con chi li ha usati finiscono per conferire un'"anima" anche agli oggetti materiali (v. la problematica buddhista della illuminazione degli esseri non-senzienti [3]), per cui sarebbe in qualche modo sacrilego gettarli via senza alcun rispetto, dimenticando l'unità di tutti i fenomeni della vita. Possiamo dire, pertanto, che tre sono i livelli implicati in queste cerimonie. Uno, materiale, che vuole evitare la dispersione disordinata di rifiuti nell'ambiente; un secondo, psicologico, che consente di chiudere in armonia, riconoscenza e pace il rapporto con gli oggetti dismessi; un terzo, infine, spirituale, che consente una consapevole e ordinata restituzione alla vita cosmica della materia e dell'energia "concentrate" negli oggetti che ci hanno accompagnato e servito. Consapevolezza, prudenza, ordine, rispetto, pagamento del debito di riconoscenza, sono tutte attitudini giapponesi che ritroviamo presenti in questo rituale, certamente marginale e in certo senso démodé , che esprime tuttavia un atteggiamento altamente spirituale.
Tra gli opposti della distruzione e della sacralizzazione della vita, spesso motivi di scontro nella nostra cultura, cerimonie come l'hari kuyopossono costituire, anche per noi occidentali, preziose occasioni di riflessione. Nel nostro modo, prima, di produrre e acquisire, spesso con bramosia, una grande quantità di oggetti, da gettare via, poco dopo, come immondizia inutile, dannosa e ingombrante, si annidano i germi dell'attaccamento e dell'avversione, i quali, insieme alla nescienza [4] , compongono il tristo terzetto dei veleni spirituali. Ordinariamente, ci sentiamo bravi custodi dell'ambiente quando, alla svelta, magari anche con una sottile punta di rancore, gettiamo nel cesto dei rifiuti tutto ciò che è caduto in disuso. Trasformando la "rimozione" in "restituzione", liberarsi di oggetti inutili può, invece, non essere più un mero gesto di "rifiuto", ma divenire uno stimolo per ripensare — nella coscienza dell'appartenza a un diverso piano di realtà — i nostri rapporti con l'attività, le cose, l'ambiente, realizzando, attraverso composte, e a volte forse malinconiche, cerimonie degli addii, quotidiani esercizi di gentilezza e di donazione.
pubbl. in DHARMA, n° 18, 2004
Fig. 1
Fig. 2.1, 2.2, 2.3
Fig. 3.1, 3.2, 3.3
[1] Usualmente, le date in cui vengono celebrati questi riti sono l'8 dicembre o l'8 febbraio; va ricordato che il numero 8 è in Oriente un numero già di per sé carico di significati e ha poi molte risonanze buddhiste (8 aprile, nascita del Buddha; 8 dicembre, parinivana; ottuplice sentiero, etc.).
[2] Il tofu, derivato dalla soya, è ormai ben noto anche in Occidente; il konnyaku, invece, è una sorta di gelatina derivata da un tipo di patata di origine indonesiana, chiamata Amorphophallus Konjac.
[3] Varie scuole buddhiste si posero il problema dell'illuminazione di esseri privi di vita cosciente ed emozionale, come le piante, o addirittura non-viventi, come le rocce o la terra stessa. Secondo la scuola Nichiren, gli esseri non-senzienti possono raggiungere la buddhità in due modi. Il primo, attraverso l'influenza degli esseri senzienti: quando un essere senziente raggiunge l'illuminazione, lo stesso stato si estende al suo ambiente, poiché la vita è una, pur attraverso tutte le sue differenti manifestazioni. L'ambiente in cui si muovono gli esseri illuminati acquista, in effetti, un suo proprio splendore e una sua armonia. In questo senso l'uomo illumina le cose perché è il luogo della coscienza delle cose. Il secondo, allorquando qualcosa diviene oggetto della nostra ammirazione o della nostra venerazione e contribuisce, in tal modo, alla nostra illuminazione. Scrive in proposito Nichiren: «Sia le scritture buddhiste sia quelle non buddhiste ammettono immagini scolpite o dipinte come oggetti di culto, ma la ragione di ciò è stata spiegata la prima volta dalla scuola T'ien-t'ai: se in un foglio di carta o in un pezzo di legno non vi fossero causa ed effetto, sia materiali che spirituali [non avessero, cioè, sia l'aspetto materiale che quello spirituale o mancassero della causa interna capace di dar luogo alla manifestazione di una natura spirituale], sarebbe vano affidarsi a immagini scolpite o dipinte come oggetti di culto» (Gli scritti di Nichiren Daishonin, tr. it., vol. I, Milano, Ass. it. Soka Gakkai, 1993, p. 216 s.).
[4] Avidia= ignoranza trascendentale, mancanza di vera conoscenza o Vidya.