Maurice Blanchot, L’Instant de ma mort, Paris, Gallimard, 2002.
C’è una dimensione paradossale nella scrittura autobiografica, consistente nel fatto che gli eventi fondamentali della nostra vita (la nascita e la morte) ci vedono assenti, costituiscono un indicibile fondamentale, appartengono a spettatori estranei e sottolineano la insuperabile estraneità di noi a noi.
Non mancano, tuttavia, esempi di autotanatografia, di scritture della/sulla propria morte, esemplati sul prototipo del racconto socratico del Fedone (ma, com’è ben noto, scritto da Platone), a un tempo, racconto filosofico e filosofia della morte. E ogni caso ripropone l’interrogativo sul rapporto tra letteratura e testimonianza, tra scrittura e indicibile.
Ai nostri giorni, il 20 giugno 1944, un giovane viene messo al muro della sua casa natale per venire fucilato, in occasione di una rappresaglia nazista, quando gli Alleati erano già sul suolo francese e i tedeschi, “già vinti, lottavano invano con inutile ferocia”. Per circostanze confuse e fortuite (arrivo di partigiani e altro), la fucilazione non ha luogo, ma quel giovane potrà ricordarla e scriverne cinquant’anni dopo, dicendo: “Io so — io lo so — che colui che i tedeschi avevano già nella mira, non attendendo altro che l’ordine finale, provò allora un sentimento di leggerezza straordinaria, una sorta di beatitudine (niente di felice tuttavia), — allegria suprema? L’incontro della morte con la morte? […] Morto — immortale. Forse l’estasi. Piuttosto il sentimento di compassione per l’umanità sofferente, la felicità di non essere immortale né eterno. Ormai, egli fu legato alla morte, da un’amicizia surrettizia”. Cos’era quel sentimento di leggerezza? “Libertà dalla vita? L’infinito che s’apre? Né felicità né infelicità. Né l’assenza di paura e forse già il passo al di là. Io so che questo sentimento inanalizzabile cambiò quel che gli restava dell’esistenza. Come se la morte fuori di lui non potesse ormai che scontrarsi con la morte in lui. ‘Io sono vivo. No, tu sei morto’”.
Quel giovane era Maurice Blanchot, scomparso mesi fa (1907-2003), enigmatico critico, saggista, scrittore, che senza voler essere un “maître à penser” ha attraversato e rinnovato il romanzo, il saggio, il frammento nel secolo scorso, al centro di una rete di preziosi rapporti con Bataille, Derrida, Foucault, Lacan, Lévinas… Su questo breve racconto, fatto pubblicare nel giorno del suo ottantasettesimo compleanno, sono stati scritti libri interi (Derrida, Lacoue-Labarthe) da inibire altri esami. Qui vorremmo solo leggere questa esperienza-limite come un’esperienza di vacuità (sia pure fatta in circostanze tragiche), di abbandono dell’io limitato e di apertura all’infinito. E di compassione, anche, che il superamento dell’ego sempre accompagna: “Era questo, la guerra: la vita per gli uni, per gli altri la crudeltà dell’assassinio”. Ecco la intraducibile leggerezza del momento di attesa della fucilata che non sarebbe venuta, leggerezza di un illuminante lampo di vacuità che giunge inaspettato (tagliando un bambù, guardando la luna, ascoltando un suono improvviso… ), fa scoprire che la vita si apre al paradosso di un’esistenza essenziata di vuoto e tuttavia presente, impertinente e incredibilmente meravigliosa.
Riccardo Venturini
pubbl. in Dharma, V, 2004, n°17, 108
C’è una dimensione paradossale nella scrittura autobiografica, consistente nel fatto che gli eventi fondamentali della nostra vita (la nascita e la morte) ci vedono assenti, costituiscono un indicibile fondamentale, appartengono a spettatori estranei e sottolineano la insuperabile estraneità di noi a noi.
Non mancano, tuttavia, esempi di autotanatografia, di scritture della/sulla propria morte, esemplati sul prototipo del racconto socratico del Fedone (ma, com’è ben noto, scritto da Platone), a un tempo, racconto filosofico e filosofia della morte. E ogni caso ripropone l’interrogativo sul rapporto tra letteratura e testimonianza, tra scrittura e indicibile.
Ai nostri giorni, il 20 giugno 1944, un giovane viene messo al muro della sua casa natale per venire fucilato, in occasione di una rappresaglia nazista, quando gli Alleati erano già sul suolo francese e i tedeschi, “già vinti, lottavano invano con inutile ferocia”. Per circostanze confuse e fortuite (arrivo di partigiani e altro), la fucilazione non ha luogo, ma quel giovane potrà ricordarla e scriverne cinquant’anni dopo, dicendo: “Io so — io lo so — che colui che i tedeschi avevano già nella mira, non attendendo altro che l’ordine finale, provò allora un sentimento di leggerezza straordinaria, una sorta di beatitudine (niente di felice tuttavia), — allegria suprema? L’incontro della morte con la morte? […] Morto — immortale. Forse l’estasi. Piuttosto il sentimento di compassione per l’umanità sofferente, la felicità di non essere immortale né eterno. Ormai, egli fu legato alla morte, da un’amicizia surrettizia”. Cos’era quel sentimento di leggerezza? “Libertà dalla vita? L’infinito che s’apre? Né felicità né infelicità. Né l’assenza di paura e forse già il passo al di là. Io so che questo sentimento inanalizzabile cambiò quel che gli restava dell’esistenza. Come se la morte fuori di lui non potesse ormai che scontrarsi con la morte in lui. ‘Io sono vivo. No, tu sei morto’”.
Quel giovane era Maurice Blanchot, scomparso mesi fa (1907-2003), enigmatico critico, saggista, scrittore, che senza voler essere un “maître à penser” ha attraversato e rinnovato il romanzo, il saggio, il frammento nel secolo scorso, al centro di una rete di preziosi rapporti con Bataille, Derrida, Foucault, Lacan, Lévinas… Su questo breve racconto, fatto pubblicare nel giorno del suo ottantasettesimo compleanno, sono stati scritti libri interi (Derrida, Lacoue-Labarthe) da inibire altri esami. Qui vorremmo solo leggere questa esperienza-limite come un’esperienza di vacuità (sia pure fatta in circostanze tragiche), di abbandono dell’io limitato e di apertura all’infinito. E di compassione, anche, che il superamento dell’ego sempre accompagna: “Era questo, la guerra: la vita per gli uni, per gli altri la crudeltà dell’assassinio”. Ecco la intraducibile leggerezza del momento di attesa della fucilata che non sarebbe venuta, leggerezza di un illuminante lampo di vacuità che giunge inaspettato (tagliando un bambù, guardando la luna, ascoltando un suono improvviso… ), fa scoprire che la vita si apre al paradosso di un’esistenza essenziata di vuoto e tuttavia presente, impertinente e incredibilmente meravigliosa.
Riccardo Venturini
pubbl. in Dharma, V, 2004, n°17, 108