Sappiamo dare un senso alla sofferenza?
Dolori, patimenti e disagi, sofferenze…
Sappiamo il dolore della fame e del freddo, della carne martoriata, compressa, ustionata; i patimenti dell'abbandono, del disamore, della prigionia; la sofferenza delle situazioni-limite che provocano l'uomo ed esigono risposte indifferibili: la previsione della morte, il disfarsi di ciò che si è in anni costruito, il rischio del non-senso…
Soffrire (sub ferre), sostenere, sopportare, essere oppressi e a volte schiacciati dal dubbio e dalla disperazione, mentre la domanda incalza: «Perché? Perché proprio a me? Perché proprio ora?»
È con la stessa apparizione della coscienza, segnata dalla separazione e dall'isolamento, che l'umanità ha incontrato la sofferenza: «per il fatto di essere privati dell'originaria armonia con la natura, caratteristica dell'animale la cui vita è determinata da istinti innati, e di essere dotati di ragione e autocoscienza, non possiamo fare a meno di sperimentare la nostra totale separazione da ogni altro essere umano» (E. Fromm). Separazione dagli altri esseri umani e separazione dal mondo naturale nel suo insieme. La solitudine dell'uomo nell'universo, che lo fa isolato anche dal suo stesso corpo, è all'origine dell'odissea che, con molteplici vie, attraversa la storia alla ricerca, attraverso un "vero" corpo, il lavoro, la sessualità…, di una possibile reintegrazione nel reale, coincidente con un ritrovamento di senso.
L'esistente è esperienza, l'esperienza dualità, la dualità mancanza. La separatezza definisce la condizione umana in base al suo vivere nel mondo dei contrari, alla sua caduta nel tempo ordinario, nel tempo della precarietà. Jung ci ricorda che non è la sofferenza in sé a essere particolarmente dolorosa quanto l'incapacità di dare a essa un significato. «La psiconevrosi», egli scrive, «è in ultima analisi una sofferenza della psiche che non ha trovato il proprio significato». E poiché «soltanto ciò che ha significato redime» sono le grandi dottrine di vita che hanno potuto offrire strumenti salvifici e strategie di dominio del patire (dalle sue forme più crude e oscure fino alla sofferenza spirituale) in quanto hanno saputo collocare la sofferenza in una rappresentazione ordinata del mondo, che consente di dare un significato alla vita e alla molteplicità dei fenomeni.
Se la sofferenza è legata alla separazione, al dualismo e alla precarietà, la liberazione risiederà in uno stato non-condizionato, uno stato che supera i contrari e implica una uscita dalle contingenze del tempo, liberando l'uomo da quello che è stato detto "terrore della storia" (Eliade): è infatti proprio nella storia che l'umanità incontra le malattie e la morte, le calamità naturali, le ingiustizie sociali. Le tradizioni spirituali, nelle loro promesse di altri mondi e/o nelle loro proposte di diversi modi di vivere, possono essere pertanto viste come procedure di riconciliazione degli opposti e vie di uscita dall'idolatria della realtà "ordinaria" e dal monoteismo dell'io. L'homo religiosus mediante il continuo riferimento alla Realtà ultima, assoluta e non-duale, realizza quella donazione di senso in cui ha sempre riposto la speranza di liberazione e salvezza.
Tra i diversi scenari in cui le culture hanno collocato la sofferenza, quello offerto dalla tradizione ebraico-cristiana è caratterizzato dalla "giustificazione" del male come effetto di una colpa originaria, colpa che ha introdotto nel mondo la distruzione, la malattia e la morte. Incapace di autonoma salvezza, l'uomo attende il compimento di una promessa inimmaginabile e inaudita perché proveniente da dio stesso: quella di un mondo senza il male, quella in cui il dio redentore «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap., 21, 4). Saranno realizzati un tempo nuovo, una eterna domenica della vita, e uno spazio nuovo, un luogo di cui si possa dire: «Là riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo» (Agostino, De Civ. Dei , 29, 5). Il santo si nutre di questa speranza, la conserva e diffonde; ma la fede, intanto, è messa alla prova dall'interminabile attesa ed estenuata dall'angosciata domanda: «Fino a quando, Signore?» (Sal., 13).
Un diverso scenario incontriamo nelle tradizioni orientali e, tra esse, in particolare, nel buddhismo. In questa prospettiva, positivo e negativo, costruzione e distruzione, nascita e morte, nella loro inseparabilità costituiscono il flusso circolare e ininterrotto della vita, da accogliere nella totalità dei suoi aspetti. Il dolore non ha dunque bisogno di una giustificazione particolare, non più di qualunque altro aspetto del reale. L'impermanenza e la mancanza di consistenza dei fenomeni e dell'io divengono fonte di patimento se si mettono in atto attaccamenti e avversioni, basati sull'ignoranza (avidya=ignoranza trascendentale, collettiva e individuale) e sull'immatura protesta di chi vorrebbe un mondo illusoriamente diverso da quello che è. Il messaggio dell'Illuminato è pertanto quello di una pratica incessante di attenzione, rivolta a vedere le cose come sono: «L'attenzione è il sentiero che conduce all'immortalità, la disattenzione è il sentiero della morte. Coloro che sono attenti non muoiono, i disattenti sono già come morti» (Dhp., 21). La "via di mezzo", tra mortificazione di sé e passioni egoistiche e incontrollate, è la via che conduce al Nirvana, sinonimo di libertà e pace. La saggezza, illuminata dalla luce della Vacuità, sa che nulla ci appartiene, non la vita e neppure il dolore. L'approssimarsi della morte può essere allora vissuto come un prepararsi a ritornare serenamente a casa, la casa da dove siamo venuti. Quando ci verrà chiesto di restituire ciò che non era nostro, il saggio potrà rispondere, con le parole di Seneca: «Riprenditi un animo migliore di come l'hai dato; non tergiverso, non mi sottraggo; hai qui pronto e da una persona consapevole ciò che le hai dato senza che ne avesse percezione: porta pure via».
La modernità ha prodotto storicismo (l'uomo si è voluto "storico"), secolarizzazione (l'uomo ha voluto essere il garante della sua propria salvezza), utopia (la terra senza il male realizzata dall'opera dell'uomo). Nella postmodernità (e postsecolarizzazione), compreso che il maggior pericolo per l'uomo è diventato l'uomo stesso, senza più difese esterne contro il "terrore della storia", l'umanità si muove tra una tecnologia, per sua natura ambivalente, a volte incontrollabile, sempre parziale e dunque sempre "relativa", e il tentativo di recupero di tradizioni religiose e sapienziali che faticano ad adattarsi al mondo contemporaneo. Ma il dolore esige risposte e non consente rinvii: la vera questione di vita o di morte rimane sempre la lotta per dare senso alla sofferenza, per mettere una cornice al quadro del negativo, per contenerlo, circoscriverlo, dominarlo: ma il contenuto spesso preme, minaccia di debordare e dilagare in tragedia; la cornice deve venire allargata, per comprenderlo, ancora e di nuovo. Ognuno è chiamato a questa sfida, a esercitare quotidianamente la sua volontà buona nell'esercizio di bonifica almeno di un frammento del mondo, nel ricostruire e adattare, giorno dopo giorno, le cornici che ha a disposizione perché il male possa essere circoscritto, avere "la sua parte" nel mondo (Jung) e, in tal modo, forse, anche redenzione…
(pubbl. in Gigi Ghirotti-Notizie, Trimestrale del Com. naz. Gigi Ghirotti 2000, n. 4)
Dolori, patimenti e disagi, sofferenze…
Sappiamo il dolore della fame e del freddo, della carne martoriata, compressa, ustionata; i patimenti dell'abbandono, del disamore, della prigionia; la sofferenza delle situazioni-limite che provocano l'uomo ed esigono risposte indifferibili: la previsione della morte, il disfarsi di ciò che si è in anni costruito, il rischio del non-senso…
Soffrire (sub ferre), sostenere, sopportare, essere oppressi e a volte schiacciati dal dubbio e dalla disperazione, mentre la domanda incalza: «Perché? Perché proprio a me? Perché proprio ora?»
È con la stessa apparizione della coscienza, segnata dalla separazione e dall'isolamento, che l'umanità ha incontrato la sofferenza: «per il fatto di essere privati dell'originaria armonia con la natura, caratteristica dell'animale la cui vita è determinata da istinti innati, e di essere dotati di ragione e autocoscienza, non possiamo fare a meno di sperimentare la nostra totale separazione da ogni altro essere umano» (E. Fromm). Separazione dagli altri esseri umani e separazione dal mondo naturale nel suo insieme. La solitudine dell'uomo nell'universo, che lo fa isolato anche dal suo stesso corpo, è all'origine dell'odissea che, con molteplici vie, attraversa la storia alla ricerca, attraverso un "vero" corpo, il lavoro, la sessualità…, di una possibile reintegrazione nel reale, coincidente con un ritrovamento di senso.
L'esistente è esperienza, l'esperienza dualità, la dualità mancanza. La separatezza definisce la condizione umana in base al suo vivere nel mondo dei contrari, alla sua caduta nel tempo ordinario, nel tempo della precarietà. Jung ci ricorda che non è la sofferenza in sé a essere particolarmente dolorosa quanto l'incapacità di dare a essa un significato. «La psiconevrosi», egli scrive, «è in ultima analisi una sofferenza della psiche che non ha trovato il proprio significato». E poiché «soltanto ciò che ha significato redime» sono le grandi dottrine di vita che hanno potuto offrire strumenti salvifici e strategie di dominio del patire (dalle sue forme più crude e oscure fino alla sofferenza spirituale) in quanto hanno saputo collocare la sofferenza in una rappresentazione ordinata del mondo, che consente di dare un significato alla vita e alla molteplicità dei fenomeni.
Se la sofferenza è legata alla separazione, al dualismo e alla precarietà, la liberazione risiederà in uno stato non-condizionato, uno stato che supera i contrari e implica una uscita dalle contingenze del tempo, liberando l'uomo da quello che è stato detto "terrore della storia" (Eliade): è infatti proprio nella storia che l'umanità incontra le malattie e la morte, le calamità naturali, le ingiustizie sociali. Le tradizioni spirituali, nelle loro promesse di altri mondi e/o nelle loro proposte di diversi modi di vivere, possono essere pertanto viste come procedure di riconciliazione degli opposti e vie di uscita dall'idolatria della realtà "ordinaria" e dal monoteismo dell'io. L'homo religiosus mediante il continuo riferimento alla Realtà ultima, assoluta e non-duale, realizza quella donazione di senso in cui ha sempre riposto la speranza di liberazione e salvezza.
Tra i diversi scenari in cui le culture hanno collocato la sofferenza, quello offerto dalla tradizione ebraico-cristiana è caratterizzato dalla "giustificazione" del male come effetto di una colpa originaria, colpa che ha introdotto nel mondo la distruzione, la malattia e la morte. Incapace di autonoma salvezza, l'uomo attende il compimento di una promessa inimmaginabile e inaudita perché proveniente da dio stesso: quella di un mondo senza il male, quella in cui il dio redentore «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap., 21, 4). Saranno realizzati un tempo nuovo, una eterna domenica della vita, e uno spazio nuovo, un luogo di cui si possa dire: «Là riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo» (Agostino, De Civ. Dei , 29, 5). Il santo si nutre di questa speranza, la conserva e diffonde; ma la fede, intanto, è messa alla prova dall'interminabile attesa ed estenuata dall'angosciata domanda: «Fino a quando, Signore?» (Sal., 13).
Un diverso scenario incontriamo nelle tradizioni orientali e, tra esse, in particolare, nel buddhismo. In questa prospettiva, positivo e negativo, costruzione e distruzione, nascita e morte, nella loro inseparabilità costituiscono il flusso circolare e ininterrotto della vita, da accogliere nella totalità dei suoi aspetti. Il dolore non ha dunque bisogno di una giustificazione particolare, non più di qualunque altro aspetto del reale. L'impermanenza e la mancanza di consistenza dei fenomeni e dell'io divengono fonte di patimento se si mettono in atto attaccamenti e avversioni, basati sull'ignoranza (avidya=ignoranza trascendentale, collettiva e individuale) e sull'immatura protesta di chi vorrebbe un mondo illusoriamente diverso da quello che è. Il messaggio dell'Illuminato è pertanto quello di una pratica incessante di attenzione, rivolta a vedere le cose come sono: «L'attenzione è il sentiero che conduce all'immortalità, la disattenzione è il sentiero della morte. Coloro che sono attenti non muoiono, i disattenti sono già come morti» (Dhp., 21). La "via di mezzo", tra mortificazione di sé e passioni egoistiche e incontrollate, è la via che conduce al Nirvana, sinonimo di libertà e pace. La saggezza, illuminata dalla luce della Vacuità, sa che nulla ci appartiene, non la vita e neppure il dolore. L'approssimarsi della morte può essere allora vissuto come un prepararsi a ritornare serenamente a casa, la casa da dove siamo venuti. Quando ci verrà chiesto di restituire ciò che non era nostro, il saggio potrà rispondere, con le parole di Seneca: «Riprenditi un animo migliore di come l'hai dato; non tergiverso, non mi sottraggo; hai qui pronto e da una persona consapevole ciò che le hai dato senza che ne avesse percezione: porta pure via».
La modernità ha prodotto storicismo (l'uomo si è voluto "storico"), secolarizzazione (l'uomo ha voluto essere il garante della sua propria salvezza), utopia (la terra senza il male realizzata dall'opera dell'uomo). Nella postmodernità (e postsecolarizzazione), compreso che il maggior pericolo per l'uomo è diventato l'uomo stesso, senza più difese esterne contro il "terrore della storia", l'umanità si muove tra una tecnologia, per sua natura ambivalente, a volte incontrollabile, sempre parziale e dunque sempre "relativa", e il tentativo di recupero di tradizioni religiose e sapienziali che faticano ad adattarsi al mondo contemporaneo. Ma il dolore esige risposte e non consente rinvii: la vera questione di vita o di morte rimane sempre la lotta per dare senso alla sofferenza, per mettere una cornice al quadro del negativo, per contenerlo, circoscriverlo, dominarlo: ma il contenuto spesso preme, minaccia di debordare e dilagare in tragedia; la cornice deve venire allargata, per comprenderlo, ancora e di nuovo. Ognuno è chiamato a questa sfida, a esercitare quotidianamente la sua volontà buona nell'esercizio di bonifica almeno di un frammento del mondo, nel ricostruire e adattare, giorno dopo giorno, le cornici che ha a disposizione perché il male possa essere circoscritto, avere "la sua parte" nel mondo (Jung) e, in tal modo, forse, anche redenzione…
(pubbl. in Gigi Ghirotti-Notizie, Trimestrale del Com. naz. Gigi Ghirotti 2000, n. 4)