Raffaele Luise, La visione di un monaco, IV ed. con introduzione di U. Galimberti, una testimonianza di Pietro Ingrao e una di Innocenzo Gargano, Assisi, Cittadella Editrice, 2001
Fondata da S. Romualdo (proveniente da Ravenna, città bizantina, dalla quale portò numerosi elementi propri della tradizione monastica orientale) tra il 1012 e il 1023, la Congregazione di monaci eremiti benedettini camaldolesi ha una lunga, significativa e anche travagliata storia. Benedetto Calati, recentemente scomparso, ne è stato per tanti anni priore. "Uomo di carsismi, di incontri, di pace e di lotte, amato e contestato: in ogni caso, uno dei protagonisti della stagione che ha preparato il Concilio e che poi si è sforzata di applicarlo" (V. Messori, in Jesus, lu. 2001). Egli, non solo è stato "il monaco camaldolese più importante del Novecento e tra i più grandi che il millenario Ordine di san Romualdo annoveri tra le sue file" (R. Luise), ma uno degli ultimi "profeti" del nostro tempo. È per questo motivo che Raffaele Luise, giornalista vaticanista, esperto di dialogo ecumenico e interreligioso - attento a rintracciare i fermenti spirituali presenti nel nostro tempo di scarsa fede e vacillanti speranze - ci offre questo colloquio avuto con lui "sul futuro della fede e della Chiesa" (Raffaele Luise, La visione di un monaco, IV ed. con introd. di U. Galimberti, una testimonianza di Pietro Ingrao e una di Innocenzo Gargano, Assisi, Cittadella Editrice, 2001). Poco tempo dopo aver concesso questa intervista, dom Benedetto, ottantaseienne, nel novembre 2000, lasciava il mondo, dando così a questo colloquio il sapore di un testamento spirituale.
In "lotta" con i tradizionalisti sostenitori di un "monachesimo ancora immerso nei profumi d'incenso dell'Ancien Regime restaurato dai sogni romantici dei rinnovamenti franco-tedeschi dell'Ottocento" (Luise), p. Benedetto proponeva invece la via monastica come risposta evangelica alle sfide della società contemporanea. Costretto addirittura a dimettersi da superiore generale nel 1963, quando veniva scritta una pagina dolorosissima per l'Ordine camaldolese, Calati nel 1969 era eletto generale e riconosciuto come padre morale e spirituale della Congregazione, avendo il Concilio confermato tutte le sue intuizioni.
Il cenobio si apprestava così, dopo essere stato sinonimo di ascetico isolamento, a divenire un vero cantiere di dialogo e di riflessione religiosa e culturale, rendendo Camaldoli uno dei luoghi di più alta spiritualità del secolo scorso. Ricordiamo: la scelta di Camaldoli, dovuta anche a monsignor Montini, per gli incontri estivi della F.U.C.I. (gli studenti universitari cattolici); l'apertura al dialogo ecumenico promosso dal S.A.E. (Segretariato attività ecumeniche) e dalla sua fondatrice Maria Vingiani; la nascita dei Colloqui ebraico-cristiani e, soprattutto, la rinnovata dialettica tra vita eremitica e cenobitica, accomunate "da una forte tensione missionaria di fronte a un mondo non più sentito come nemico ma come referente necessario e luogo privilegiato della testimonianza cristiana" (Luise).
Nell'intervista le parole di Calati assumono il tono dell'invettiva quando egli affronta alcuni dei più scottanti temi di dibattito conciliare e postconciliare: il primato di Pietro, il sacerdozio femminile, il celibato ecclesiastico, la democrazia nella Chiesa, il peso della Curia romana ("un organismo che, dobbiamo dirlo, "fa le scarpe al papa"", p. 67), la necessità della mistica per la Chiesa del terzo millennio. Più direttamente interessante, per noi, il suo atteggiamento nei confronti delle religioni "altre", un oggetto di confronto ormai imprescindibile per la coscienza religiosa contemporanea, "uno dei segni dei tempi più attesi oggi" (p. 62), idoneo a fornire speranze di fraternità e di pace al nuovo secolo. Calati mostra, a questo proposito, un'estrema apertura, in armonia con la visione pluralistica indicata, non senza richiami e proibizioni da parte delle autorità ecclesiastiche, dal p. gesuita Jaques Dupuis. "Al di là dell'indispensabile ricerca dell'unità della Chiesa", dice Calati, "oltre la necessità di un dialogo compiutamente fraterno con gli ebrei, oltre il dialogo alla pari tra le religioni, occorre confrontarsi con tutti coloro che, consapevoli del limite creaturale di ogni uomo e della parziale conoscenza-esperienza della verità, accettano di cercare insieme, di cercare ancora. [...] Nel Nuovo Testamento è rimasto il "segno di Giona", il segno cioè dell'infinita misericordia di Dio per tutti gli uomini e tutte le donne. Ben al di là delle barriere istituzionali delle diverse religioni e anche della nostra; barriere che sono di arbitrio umano" (pp. 34, 63). Ciò può portare, chiede l'intervistatore, alla relativizzazione della stessa figura di Gesù (se non è più visto come unico e necessario salvatore del mondo) e della Chiesa? "Su questo punto", risponde Calati, "noi dobbiamo ammettere che c'è un'enorme ignoranza. Non conosciamo le vie di Dio. Se Dio è amore non possiamo mettere noi limiti all'amore divino, ma non possiamo neanche circoscriverlo e presumere di conoscerlo fino in fondo. Quindi, dobbiamo tentare noi credenti vie nuove e intraprendere un cammino "sperimentale" inedito, sospendendo al contempo il giudizio. E sospendere forse il dialogo, pregando, supplicando Dio che ci illumini. [...] Pregare, pregare. Questo vale per noi e vale per tutti. È un invito anche alle religioni non cristiane. Quando non possiamo dialogare, dobbiamo pregare" (p. 64).
L'ascolto delle parole di un maestro di saggezza come Calati diviene particolarmente interessante proprio riguardo alla riflessione sulla figura del monaco, i cui carismi è oggi quanto mai utile cercare di ridiscutere e ridefinire. In effetti, su questo, le risposte rimangono, a dir poco, insoddisfacenti, perché o tradizionali ("pregare. I monaci hanno questa missione particolare", p. 64; il celibato come possibilità di una "maggiore carità verso il mondo. Essere disponibili all'autentico servizio, alla totale donazione per amore di Gesù", p. 54) o generiche (quando fatte coincidere con la disponibilità all'accoglienza e all'amore, atteggiamenti certo non esclusivi del monaco e quindi non preclusi ai laici come, in particolare, a chi vive nel mondo il mestiere di genitore o fa professione delle relazioni di aiuto). In un punto - che sarebbe stato interesante sviluppare - Calati dice che la vita monastica "è liturgia, è celebrazione pasquale in atto" (p. 79): vanno queste parole interpretate come sacrificio - nel senso forte del termine - rinnovato di Gesù? Completamento, secondo la concezione paolina, della passione? E come questo si traduce in una quotidianità diversa, alla quale la spiritualità laica segretamente aspira? Nulla traspare delle tensioni segrete, dei desideri, delle paure, dell'inconscio - diremmo con una parola - del monaco, bensì affiora una sorta di nostalgia del mondo, del femminile, della bellezza incarnata, della comunità contro la solitudine ("la preghiera e il breviario praticati da soli: ma questa è una vergogna!", p. 84: parole forti, per un monaco!). Parimenti, non sviluppato rimane anche il cenno alla contemplazione e al silenzio ineffabile, contrapposto alla (per usare parole di U. Galimberti) "prevaricazione del dire".
Infine, quando si prospetta l'apertura all'esterno e viene espressa l'esigenza di un "aggancio concreto con il mondo moderno", l'individuazione di ciò che va definito come modernità (e come futuro) non sembra esente da quegli abbagli postconciliari derivanti da un confronto col mondo effettuato all'epoca dei blocchi contrapposti, che ha portato a considerare "nuovo" ciò che, invece, si sarebbe rapidamente mostrato "vecchio". Di qui: l'elogio della teologia della liberazione, gli accenti terzomondisti, un confuso discorso sulla povertà. L'aggiunta, che troviamo nella presente ultima edizione, degli scritti di due esponenti del pensiero "laico" (o, come ancora sgradevolmente si esprime Pietro Ingrao, del pensiero di chi si considera appartente alla schiera degli "atei incalliti") non è di chiarimento, risultando in qualche modo tra loro addirittura contraddittori. Una (Ingrao), infatti, può indurre a una lettura troppo sbilanciata sull'"orizzontale"; l'altra (Galimberti), paradossalmente perché chi parla è un laico, sottolinea i limiti della riduzione del cristianesimo ad etica, riaffermando l'ambivalenza del sacro, l'incommensurabilità tra il sapere umano e il sapere divino, e l'errore di costringere il giudizio di Dio nelle regole con cui gli uomini hanno confezionato le loro morali.
Conclude il volume l'alta testimonianza di Innocenzo Gargano, priore del monastero camaldolese di S. Gregorio al Celio a Roma, che con Calati ebbe un'intimità spirituale durata lunghi anni. Egli ricorda come kénosis (spoliazione) fosse la parola che dom Benedetto utilizzava più spesso negli ultimi anni e come la contemplazione del Cristo crocefisso rimanesse per lui "sempre realtà penultima che apre all'ultimo definitivo annunzio della Resurrezione e della Gerusalemme celeste", da cui "quella sorta di ottimismo permanente che accompagnava ogni ragionamento di padre Benedetto e gli forniva la forza per continuare ad essere positivo, nonostante tutto, sul futuro del mondo e della Chiesa, esortando comunque all'ottimismo" (p. 136 s.).
Al termine di quest'opera il fascino non del personaggio, ma dell'"archetipo del monaco" esce forse ridimensionato, col risultato di farci più inquieti, ma insieme più critici e consapevoli: anche di questo Luise va ringraziato. Rimane profondo il sentimento di quel silenzio evocativo e puro ove egli ci ha condotto con la sua opera attenta e discreta che ci auguriamo continui, nella ricerca, in questo tempo senza tragici e senza profeti, di altri testimoni di spiritualità, capaci di sollecitare il ritorno all'essenziale, il "riattingere la linfa vitale dell'esistenza minacciata dalla confusione e dalla pochezza di una vita sociale sempre più priva di senso e piena di sciocca violenza, il riaprirsi con stupore al mistero del divino" (Luise, p. 17).
Riccardo Venturini
(pubbl. in Dharma, 2001, n. 8)
Fondata da S. Romualdo (proveniente da Ravenna, città bizantina, dalla quale portò numerosi elementi propri della tradizione monastica orientale) tra il 1012 e il 1023, la Congregazione di monaci eremiti benedettini camaldolesi ha una lunga, significativa e anche travagliata storia. Benedetto Calati, recentemente scomparso, ne è stato per tanti anni priore. "Uomo di carsismi, di incontri, di pace e di lotte, amato e contestato: in ogni caso, uno dei protagonisti della stagione che ha preparato il Concilio e che poi si è sforzata di applicarlo" (V. Messori, in Jesus, lu. 2001). Egli, non solo è stato "il monaco camaldolese più importante del Novecento e tra i più grandi che il millenario Ordine di san Romualdo annoveri tra le sue file" (R. Luise), ma uno degli ultimi "profeti" del nostro tempo. È per questo motivo che Raffaele Luise, giornalista vaticanista, esperto di dialogo ecumenico e interreligioso - attento a rintracciare i fermenti spirituali presenti nel nostro tempo di scarsa fede e vacillanti speranze - ci offre questo colloquio avuto con lui "sul futuro della fede e della Chiesa" (Raffaele Luise, La visione di un monaco, IV ed. con introd. di U. Galimberti, una testimonianza di Pietro Ingrao e una di Innocenzo Gargano, Assisi, Cittadella Editrice, 2001). Poco tempo dopo aver concesso questa intervista, dom Benedetto, ottantaseienne, nel novembre 2000, lasciava il mondo, dando così a questo colloquio il sapore di un testamento spirituale.
In "lotta" con i tradizionalisti sostenitori di un "monachesimo ancora immerso nei profumi d'incenso dell'Ancien Regime restaurato dai sogni romantici dei rinnovamenti franco-tedeschi dell'Ottocento" (Luise), p. Benedetto proponeva invece la via monastica come risposta evangelica alle sfide della società contemporanea. Costretto addirittura a dimettersi da superiore generale nel 1963, quando veniva scritta una pagina dolorosissima per l'Ordine camaldolese, Calati nel 1969 era eletto generale e riconosciuto come padre morale e spirituale della Congregazione, avendo il Concilio confermato tutte le sue intuizioni.
Il cenobio si apprestava così, dopo essere stato sinonimo di ascetico isolamento, a divenire un vero cantiere di dialogo e di riflessione religiosa e culturale, rendendo Camaldoli uno dei luoghi di più alta spiritualità del secolo scorso. Ricordiamo: la scelta di Camaldoli, dovuta anche a monsignor Montini, per gli incontri estivi della F.U.C.I. (gli studenti universitari cattolici); l'apertura al dialogo ecumenico promosso dal S.A.E. (Segretariato attività ecumeniche) e dalla sua fondatrice Maria Vingiani; la nascita dei Colloqui ebraico-cristiani e, soprattutto, la rinnovata dialettica tra vita eremitica e cenobitica, accomunate "da una forte tensione missionaria di fronte a un mondo non più sentito come nemico ma come referente necessario e luogo privilegiato della testimonianza cristiana" (Luise).
Nell'intervista le parole di Calati assumono il tono dell'invettiva quando egli affronta alcuni dei più scottanti temi di dibattito conciliare e postconciliare: il primato di Pietro, il sacerdozio femminile, il celibato ecclesiastico, la democrazia nella Chiesa, il peso della Curia romana ("un organismo che, dobbiamo dirlo, "fa le scarpe al papa"", p. 67), la necessità della mistica per la Chiesa del terzo millennio. Più direttamente interessante, per noi, il suo atteggiamento nei confronti delle religioni "altre", un oggetto di confronto ormai imprescindibile per la coscienza religiosa contemporanea, "uno dei segni dei tempi più attesi oggi" (p. 62), idoneo a fornire speranze di fraternità e di pace al nuovo secolo. Calati mostra, a questo proposito, un'estrema apertura, in armonia con la visione pluralistica indicata, non senza richiami e proibizioni da parte delle autorità ecclesiastiche, dal p. gesuita Jaques Dupuis. "Al di là dell'indispensabile ricerca dell'unità della Chiesa", dice Calati, "oltre la necessità di un dialogo compiutamente fraterno con gli ebrei, oltre il dialogo alla pari tra le religioni, occorre confrontarsi con tutti coloro che, consapevoli del limite creaturale di ogni uomo e della parziale conoscenza-esperienza della verità, accettano di cercare insieme, di cercare ancora. [...] Nel Nuovo Testamento è rimasto il "segno di Giona", il segno cioè dell'infinita misericordia di Dio per tutti gli uomini e tutte le donne. Ben al di là delle barriere istituzionali delle diverse religioni e anche della nostra; barriere che sono di arbitrio umano" (pp. 34, 63). Ciò può portare, chiede l'intervistatore, alla relativizzazione della stessa figura di Gesù (se non è più visto come unico e necessario salvatore del mondo) e della Chiesa? "Su questo punto", risponde Calati, "noi dobbiamo ammettere che c'è un'enorme ignoranza. Non conosciamo le vie di Dio. Se Dio è amore non possiamo mettere noi limiti all'amore divino, ma non possiamo neanche circoscriverlo e presumere di conoscerlo fino in fondo. Quindi, dobbiamo tentare noi credenti vie nuove e intraprendere un cammino "sperimentale" inedito, sospendendo al contempo il giudizio. E sospendere forse il dialogo, pregando, supplicando Dio che ci illumini. [...] Pregare, pregare. Questo vale per noi e vale per tutti. È un invito anche alle religioni non cristiane. Quando non possiamo dialogare, dobbiamo pregare" (p. 64).
L'ascolto delle parole di un maestro di saggezza come Calati diviene particolarmente interessante proprio riguardo alla riflessione sulla figura del monaco, i cui carismi è oggi quanto mai utile cercare di ridiscutere e ridefinire. In effetti, su questo, le risposte rimangono, a dir poco, insoddisfacenti, perché o tradizionali ("pregare. I monaci hanno questa missione particolare", p. 64; il celibato come possibilità di una "maggiore carità verso il mondo. Essere disponibili all'autentico servizio, alla totale donazione per amore di Gesù", p. 54) o generiche (quando fatte coincidere con la disponibilità all'accoglienza e all'amore, atteggiamenti certo non esclusivi del monaco e quindi non preclusi ai laici come, in particolare, a chi vive nel mondo il mestiere di genitore o fa professione delle relazioni di aiuto). In un punto - che sarebbe stato interesante sviluppare - Calati dice che la vita monastica "è liturgia, è celebrazione pasquale in atto" (p. 79): vanno queste parole interpretate come sacrificio - nel senso forte del termine - rinnovato di Gesù? Completamento, secondo la concezione paolina, della passione? E come questo si traduce in una quotidianità diversa, alla quale la spiritualità laica segretamente aspira? Nulla traspare delle tensioni segrete, dei desideri, delle paure, dell'inconscio - diremmo con una parola - del monaco, bensì affiora una sorta di nostalgia del mondo, del femminile, della bellezza incarnata, della comunità contro la solitudine ("la preghiera e il breviario praticati da soli: ma questa è una vergogna!", p. 84: parole forti, per un monaco!). Parimenti, non sviluppato rimane anche il cenno alla contemplazione e al silenzio ineffabile, contrapposto alla (per usare parole di U. Galimberti) "prevaricazione del dire".
Infine, quando si prospetta l'apertura all'esterno e viene espressa l'esigenza di un "aggancio concreto con il mondo moderno", l'individuazione di ciò che va definito come modernità (e come futuro) non sembra esente da quegli abbagli postconciliari derivanti da un confronto col mondo effettuato all'epoca dei blocchi contrapposti, che ha portato a considerare "nuovo" ciò che, invece, si sarebbe rapidamente mostrato "vecchio". Di qui: l'elogio della teologia della liberazione, gli accenti terzomondisti, un confuso discorso sulla povertà. L'aggiunta, che troviamo nella presente ultima edizione, degli scritti di due esponenti del pensiero "laico" (o, come ancora sgradevolmente si esprime Pietro Ingrao, del pensiero di chi si considera appartente alla schiera degli "atei incalliti") non è di chiarimento, risultando in qualche modo tra loro addirittura contraddittori. Una (Ingrao), infatti, può indurre a una lettura troppo sbilanciata sull'"orizzontale"; l'altra (Galimberti), paradossalmente perché chi parla è un laico, sottolinea i limiti della riduzione del cristianesimo ad etica, riaffermando l'ambivalenza del sacro, l'incommensurabilità tra il sapere umano e il sapere divino, e l'errore di costringere il giudizio di Dio nelle regole con cui gli uomini hanno confezionato le loro morali.
Conclude il volume l'alta testimonianza di Innocenzo Gargano, priore del monastero camaldolese di S. Gregorio al Celio a Roma, che con Calati ebbe un'intimità spirituale durata lunghi anni. Egli ricorda come kénosis (spoliazione) fosse la parola che dom Benedetto utilizzava più spesso negli ultimi anni e come la contemplazione del Cristo crocefisso rimanesse per lui "sempre realtà penultima che apre all'ultimo definitivo annunzio della Resurrezione e della Gerusalemme celeste", da cui "quella sorta di ottimismo permanente che accompagnava ogni ragionamento di padre Benedetto e gli forniva la forza per continuare ad essere positivo, nonostante tutto, sul futuro del mondo e della Chiesa, esortando comunque all'ottimismo" (p. 136 s.).
Al termine di quest'opera il fascino non del personaggio, ma dell'"archetipo del monaco" esce forse ridimensionato, col risultato di farci più inquieti, ma insieme più critici e consapevoli: anche di questo Luise va ringraziato. Rimane profondo il sentimento di quel silenzio evocativo e puro ove egli ci ha condotto con la sua opera attenta e discreta che ci auguriamo continui, nella ricerca, in questo tempo senza tragici e senza profeti, di altri testimoni di spiritualità, capaci di sollecitare il ritorno all'essenziale, il "riattingere la linfa vitale dell'esistenza minacciata dalla confusione e dalla pochezza di una vita sociale sempre più priva di senso e piena di sciocca violenza, il riaprirsi con stupore al mistero del divino" (Luise, p. 17).
Riccardo Venturini
(pubbl. in Dharma, 2001, n. 8)