Yasushi Inoué, Le maître de thé, tr. fr. di Honkakubo Ibun [Il testamento di Honkakubo o Il diario postumo di Honkakubo], Parigi, Stock-Le livre de poche, s.i.a.
Honkakubo Ibun [Il diario postumo di Honkakubo], ultima opera di Yasushi Inoue (1907-91), scrittore giapponese tra i più popolari e prolifici, autore di numerose opere di soggetto storico, è dotata di molti degli ingredienti che avvincono i lettori, facendoli partecipare a una vicenda e a una indagine coinvolgenti: un manoscritto ritrovato e riscritto “in lingua moderna” (che sappiamo tuttavia inesistente e mero artificio letterario, analogia con le lettere e il diario di un altro libro di Inoue, Il fucile da caccia), il ricordo appassionato di un grande maestro scomparso (Senno Rikyu) da parte dell’allievo Honkakubo, la sua annosa ricerca per far luce sul mistero delle cause e delle circostanze di quella morte, il fondale storico rappresentato dal Giappone nel passaggio dal periodo Momoyama a quello Tokugawa o di Edo…
Senno Rikyu (1522-91) è considerato, com’è ben noto, il sistematizzatore della cerimonia o, meglio, della via del tè (chado o sado), la cui essenza è condensata nei princìpi di armonia, rispetto, purezza e serenità. Legatosi al potere del leader militare Toyotomi Hideyoshi, Senno Rikyu acquistò una notevole influenza politica, cosa che segnò anche la sua disgrazia, poiché, per motivi appunto non del tutto chiari, Hideyoshi nel 1591 lo esiliò e gli inviò l’ordine di compiere il suicidio rituale mediante l’apertura del ventre (seppuku). L’interesse del libro di Yasushi Inoue/diario di Honkakubo sta dunque proprio nell’inseguire i vari possibili motivi di questo sopruso e della mancata richiesta di grazia da parte di Senno Rikyu. Non possiamo addentrarci qui nell’analisi della indagine condotta da Honkakubo attraverso la ricerca di allievi o persone che avevano interagito col Maestro, specie nell’ultimo periodo di vita, ma due aspetti vogliamo evidenziare, quelli che rendono il libro di Inoue non solo una narrazione di alto valore letterario (il suo capolavoro?) ma anche un’opera di notevole spessore culturale e spirituale. Il primo si riferisce alla storia della cermonia del tè, una pratica estetico-mistica che, nel tempo, ha conosciuto accentuazioni ora della dimensione mistica ora di quella estetica. La via del tè di Senno Rikyu era improntata al principio del tè “semplice e sano” (v. Masao Shoshin Ichishima, Illuminazione originaria e mente wabi, in Dharma, n° 15, nov. 2003), una pratica diffusa in tutti gli strati della società ma particolarmente adatta all’aspro mondo dei samurai, in stretto contatto con l’impermanenza della vita e la morte in battaglia. Di fronte alle morti per seppuku dei maestri Rikyu, Soji e Oribe, Honkakubo/Inoue ci porta a riflettere non solo sui possibili eventi contingenti (rapporti dei maestri col potere di Hideyoshi), ma soprattutto sul cambiamento che era in atto verso un uso più politico-estetico che spirituale della pratica. Non finiva questo nuovo stile per risultare incompatibile con la vita dei maestri del tè “semplice e sano”? Rievocando quel mondo, uno dei personaggi dice infatti: “È un peccato, ma non è più possibile assistere a questo genere di cerimonie: i tempi sono cambiati. Il mondo del tè è dovuto sopravvivere. D’altronde, continua a cambiare […]; a partire dal momento in cui le grida di guerra si sono spente, il tè doveva necessariamente cambiare… Da questo punto di vista è vero che Rikyu e Soji non potevano rimanere in vita. Tutto cambia: il guerriero e l’uomo del tè”. E qui viene il secondo aspetto, quello più propriamente spirituale. Honkakubo, frugando tra i suoi ricordi fa riemergere quello di un incontro tra Senno Rikyu e i due allievi Soji e Oribe in cui si discuteva della calligrafia appesa nel tokonoma della stanza del tè: “Niente scompare se si appende una calligrafia con la parola ‘nulla’, mentre se è la parola ‘morte’, tutto si annienta: ‘nulla’ non elimina niente, è la morte che abolisce tutto”.
Solo dopo molti anni Honkakubo comprende che si era trattato di un giuramento di morte che i tre si stavano scambiando, accordandosi ciascuno con gli altri due nel silenzio del proprio cuore, tutti “entrando” nella calligrafia della morte. La pratica mistica del tè rappresentata da Rikyu, sembra suggerire Inoue attraverso le parole di un altro personaggio, Uraku Oda (fratello di Nobunaga Oda, primo “unificatore” del Giappone), era dunque un perenne combattimento nel quale chi, come lo stesso Hideyoshi, frequentava la sala da tè del Maestro sperimentava ogni volta una “piccola morte”, simbolica ma tuttavia dolorosa, tanto da portarlo a desiderare di “far conoscere la morte a colui che gliela aveva fatta gustare” ripetutamente. E non morire nel suo letto non era forse una sorta di pagamento del debito contratto da parte di Rikyu che, nel “tè di guerra”, aveva assistito a tante morti di samurai andati in battaglia dopo aver degustato il suo tè? La cerimonia del tè diviene così la cerimonia della propria decisione di morire, dell’accettazione della propria morte: Rikyu “aveva fatto del tè di piacere qualcosa di più serio. Questo non vuol dire che aveva fatto della sala da tè un tempio zen, ma un luogo per darsi la morte”. La semplicità cercata per tutta la vita nello stile del tè “semplice e sano” sarebbe dunque approdata a un diverso livello di realtà a patto di tramutarsi, alla fine, in “sostanza della morte”. Anche Honkakubo, pur confessando la sua inadeguatezza, giunge a comprendere quella che era stata la lezione di quei maestri: “scoprirono quella che è la cosa più importante per l’uomo del tè: preparare serenamente il tè, lasciar fare al destino e non tentare di sottrarsi a esso”.Per Inoue, il racconto del tè diviene l’occasione di presentare, sommessamente ma decisamente, il più profondo interrogativo che attraversa la pratica spirituale buddhista: la pratica (della meditazione, delle cosiddette arti zen, della compassione…) è un modo di vivere simbolicamente la propria morte, per poi essere pronti a realizzare il vero non-attaccamento nella morte reale, ovvero - se il nirvana coincide col samsara - non c’è più niente da eliminare e nessuna meta da raggiungere, perché il Tutto è già qui, ora, nella universale ierofania del mondo?
Ciascun lettore, nel confronto con questa narrazione, tenterà la sua intima risposta, lasciandosi permeare dalla domanda suscitata dalla bellezza rievocativa di Inoue. Ricordiamo che il racconto ha fatto anche da soggetto per lo stupendo film Morte di un maestro del tè di Kei Kumai (1989, con Toshiro Mifune nel ruolo di Senno Rikyu). La sola traduzione del libro di Inoue attualmente disponibile risulta quella in francese, di Tadahiro Oku e Anna Guerineau: non possiamo che augurarcene una anche nella nostra lingua.
Riccardo Venturini
(da Dharma, 2006, n. 24)
Honkakubo Ibun [Il diario postumo di Honkakubo], ultima opera di Yasushi Inoue (1907-91), scrittore giapponese tra i più popolari e prolifici, autore di numerose opere di soggetto storico, è dotata di molti degli ingredienti che avvincono i lettori, facendoli partecipare a una vicenda e a una indagine coinvolgenti: un manoscritto ritrovato e riscritto “in lingua moderna” (che sappiamo tuttavia inesistente e mero artificio letterario, analogia con le lettere e il diario di un altro libro di Inoue, Il fucile da caccia), il ricordo appassionato di un grande maestro scomparso (Senno Rikyu) da parte dell’allievo Honkakubo, la sua annosa ricerca per far luce sul mistero delle cause e delle circostanze di quella morte, il fondale storico rappresentato dal Giappone nel passaggio dal periodo Momoyama a quello Tokugawa o di Edo…
Senno Rikyu (1522-91) è considerato, com’è ben noto, il sistematizzatore della cerimonia o, meglio, della via del tè (chado o sado), la cui essenza è condensata nei princìpi di armonia, rispetto, purezza e serenità. Legatosi al potere del leader militare Toyotomi Hideyoshi, Senno Rikyu acquistò una notevole influenza politica, cosa che segnò anche la sua disgrazia, poiché, per motivi appunto non del tutto chiari, Hideyoshi nel 1591 lo esiliò e gli inviò l’ordine di compiere il suicidio rituale mediante l’apertura del ventre (seppuku). L’interesse del libro di Yasushi Inoue/diario di Honkakubo sta dunque proprio nell’inseguire i vari possibili motivi di questo sopruso e della mancata richiesta di grazia da parte di Senno Rikyu. Non possiamo addentrarci qui nell’analisi della indagine condotta da Honkakubo attraverso la ricerca di allievi o persone che avevano interagito col Maestro, specie nell’ultimo periodo di vita, ma due aspetti vogliamo evidenziare, quelli che rendono il libro di Inoue non solo una narrazione di alto valore letterario (il suo capolavoro?) ma anche un’opera di notevole spessore culturale e spirituale. Il primo si riferisce alla storia della cermonia del tè, una pratica estetico-mistica che, nel tempo, ha conosciuto accentuazioni ora della dimensione mistica ora di quella estetica. La via del tè di Senno Rikyu era improntata al principio del tè “semplice e sano” (v. Masao Shoshin Ichishima, Illuminazione originaria e mente wabi, in Dharma, n° 15, nov. 2003), una pratica diffusa in tutti gli strati della società ma particolarmente adatta all’aspro mondo dei samurai, in stretto contatto con l’impermanenza della vita e la morte in battaglia. Di fronte alle morti per seppuku dei maestri Rikyu, Soji e Oribe, Honkakubo/Inoue ci porta a riflettere non solo sui possibili eventi contingenti (rapporti dei maestri col potere di Hideyoshi), ma soprattutto sul cambiamento che era in atto verso un uso più politico-estetico che spirituale della pratica. Non finiva questo nuovo stile per risultare incompatibile con la vita dei maestri del tè “semplice e sano”? Rievocando quel mondo, uno dei personaggi dice infatti: “È un peccato, ma non è più possibile assistere a questo genere di cerimonie: i tempi sono cambiati. Il mondo del tè è dovuto sopravvivere. D’altronde, continua a cambiare […]; a partire dal momento in cui le grida di guerra si sono spente, il tè doveva necessariamente cambiare… Da questo punto di vista è vero che Rikyu e Soji non potevano rimanere in vita. Tutto cambia: il guerriero e l’uomo del tè”. E qui viene il secondo aspetto, quello più propriamente spirituale. Honkakubo, frugando tra i suoi ricordi fa riemergere quello di un incontro tra Senno Rikyu e i due allievi Soji e Oribe in cui si discuteva della calligrafia appesa nel tokonoma della stanza del tè: “Niente scompare se si appende una calligrafia con la parola ‘nulla’, mentre se è la parola ‘morte’, tutto si annienta: ‘nulla’ non elimina niente, è la morte che abolisce tutto”.
Solo dopo molti anni Honkakubo comprende che si era trattato di un giuramento di morte che i tre si stavano scambiando, accordandosi ciascuno con gli altri due nel silenzio del proprio cuore, tutti “entrando” nella calligrafia della morte. La pratica mistica del tè rappresentata da Rikyu, sembra suggerire Inoue attraverso le parole di un altro personaggio, Uraku Oda (fratello di Nobunaga Oda, primo “unificatore” del Giappone), era dunque un perenne combattimento nel quale chi, come lo stesso Hideyoshi, frequentava la sala da tè del Maestro sperimentava ogni volta una “piccola morte”, simbolica ma tuttavia dolorosa, tanto da portarlo a desiderare di “far conoscere la morte a colui che gliela aveva fatta gustare” ripetutamente. E non morire nel suo letto non era forse una sorta di pagamento del debito contratto da parte di Rikyu che, nel “tè di guerra”, aveva assistito a tante morti di samurai andati in battaglia dopo aver degustato il suo tè? La cerimonia del tè diviene così la cerimonia della propria decisione di morire, dell’accettazione della propria morte: Rikyu “aveva fatto del tè di piacere qualcosa di più serio. Questo non vuol dire che aveva fatto della sala da tè un tempio zen, ma un luogo per darsi la morte”. La semplicità cercata per tutta la vita nello stile del tè “semplice e sano” sarebbe dunque approdata a un diverso livello di realtà a patto di tramutarsi, alla fine, in “sostanza della morte”. Anche Honkakubo, pur confessando la sua inadeguatezza, giunge a comprendere quella che era stata la lezione di quei maestri: “scoprirono quella che è la cosa più importante per l’uomo del tè: preparare serenamente il tè, lasciar fare al destino e non tentare di sottrarsi a esso”.Per Inoue, il racconto del tè diviene l’occasione di presentare, sommessamente ma decisamente, il più profondo interrogativo che attraversa la pratica spirituale buddhista: la pratica (della meditazione, delle cosiddette arti zen, della compassione…) è un modo di vivere simbolicamente la propria morte, per poi essere pronti a realizzare il vero non-attaccamento nella morte reale, ovvero - se il nirvana coincide col samsara - non c’è più niente da eliminare e nessuna meta da raggiungere, perché il Tutto è già qui, ora, nella universale ierofania del mondo?
Ciascun lettore, nel confronto con questa narrazione, tenterà la sua intima risposta, lasciandosi permeare dalla domanda suscitata dalla bellezza rievocativa di Inoue. Ricordiamo che il racconto ha fatto anche da soggetto per lo stupendo film Morte di un maestro del tè di Kei Kumai (1989, con Toshiro Mifune nel ruolo di Senno Rikyu). La sola traduzione del libro di Inoue attualmente disponibile risulta quella in francese, di Tadahiro Oku e Anna Guerineau: non possiamo che augurarcene una anche nella nostra lingua.
Riccardo Venturini
(da Dharma, 2006, n. 24)