Riccardo Venturini
La lotta con l’angelo
La fede è pace, rassicurazione, riposata unità o inquietudine, lotta, agonia? E, se è lotta, lotta con chi? E perché? Se l’antagonista è Dio stesso non sarà retorico domandarsi chi sarà il vittorioso? La Torah racconta una storia, quella di Giacobbe, parabola di tutti i combattimenti della fede.
Giacobbe figlio di Isacco e nipote di Abramo è il terzo dei grandi patriarchi di Israele. La sua vita è segnata dall’attenzione di Dio e da eventi miracolosi. Egli nasce infatti da Rebecca, la moglie fino ad allora sterile di Isacco, alla quale il Signore concede di divenire madre di due gemelli: Esaù (il primogenito) e Giacobbe (Ya’qob-El, cioè «Che Dio protegga!»). I due formano una nuova coppia di fratelli rivali. Già prima della nascita essi si urtavano nel ventre di Rebecca, a significare che, come Dio disse a lei: «Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grembo si disperderanno», presagendo l’ostilità degli idumei (discendenti di Esaù) e degli israeliti (discendenti di Giacobbe). Alla nascita, Giacobbe, secondonato, teneva in pugno il calcagno (‘aqueb) di Esaù e da questo l’etimologia popolare volle derivare il suo nome. Per assicurarsi la primogenitura, come primo atto egli la “comprò” da Esaù in cambio della famosa minestra di lenticchie e poi, con l’inganno e la complicità della madre, cercò di farla valere assicurandosi la bendizione paterna che lo consacrò erede della promessa divina fatta alla discendenza di Abramo. Mentre Esaù era «abile nella caccia, un uomo delle steppe», Giacobbe «era un uomo tranquillo, che dimorava sotto le tende» (Gen., 25, 27), ma per sottrarsi alla collera del fratello fu costretto a migrare. Temperamento mistico, cercatore di Dio, durante un viaggio, ebbe, in sogno, la visione (nota ormai come “la scala di Giacobbe”) di una scala che «poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa» (Gen. 28, 12-13). Il Signore gli stava davanti e gli disse: «Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco», rinnovandogli così tutte le note promesse.
Quando, dopo molti anni, venne il tempo del ritorno, accadde l’episodo più significativo della sua carriera mistica, la lotta con Dio. In Gen. 32, leggiamo che durante una notte:
«Egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”. Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. Giacobbe allora gli chiese: “Dimmi il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome? ”. E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel “Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”. Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca. Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico».
Giacobbe dunque ingaggia con Dio, apparsogli in forma di uno sconosciuto (ma certo uno di quegli Angeli a lui già familiari), una lotta che gli consente un vero corpo a corpo con l’Assoluto. Quando ci confrontiamo con una situazione e con gli altri, conosciamo sempre qualcosa delle nostre risorse e delle nostre debolezze, ma quando ci confrontiamo con Dio, per ottenere la salvezza dal terrore dell’incalzare del tempo e dall’annientamento per l’assenza di significato, quando l’interlocutore è l’Assoluto, la messa in gioco è totale e l’uomo stesso assolutizza. Lui, l’Assoluto, è là, “totalmente altro”, al di là delle determinazioni e dei dualismi, quasi nemico nella sua diversità, e noi invece qui, avvinghiati ai nostri attaccamenti, innamorati delle nostre passioni, orgogliosi delle nostre costruzioni, e tuttavia supplici. Fede come conflitto, fede come lotta; tutti, con Giacobbe, stretti all’Assoluto, mai tanto vicino come in certe notti di angoscia. «Lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora», dice il racconto. Al venire del giorno il Dio misterioso vuole slacciarsi da quel confronto oscuro, ma Giacobbe non molla la presa e, deciso a sacrificare il suo io separato, chiede di essere benedetto. Il conflitto infine si placa e Giacobbe è benedetto, trasformato nella sua realtà e nel nome: assumendo la dimensione transpersonale del suo intero popolo, diverrà Israele.
Giacobbe è solo come è solo Siddhartha (“colui che ha raggiunto la meta” e che diverrà il Buddha). La grazia e l’illuminazione sono da loro ottenute come risultato della lotta (ascetica) per liberare la parte santa o natura buddhica dentro di noi e la sfida è quella di vedere Dio e rimanere salvi, vivere il non-dualismo del dualismo, non soffrire di soffrire, tornare nel mondo e conservare il segno di una ferita, la spina nella carne lasciata dall’incontro con l’Assoluto: perché non ci accada di dimenticare. Siddhartha quando concluse il suo agone assoluto con la vittoria su tutte le illusioni, divenuto l’Illuminato, avvertì che «i disattenti sono già come morti» (Dhp., 21).
Giacobbe vuole sapere il nome, conoscere l’essenza del suo antagonista. Non riceve risposta: come racchiudere quell’essenza in una parola? Il Dharma inesprimibile, che sostiene e governa il mondo, dirà il Buddha, è al di là delle parole e dei segni: «La Legge non è qualcosa che può essere compresa attraverso la riflessione o l’analisi» (Sutra del Loto, cap. 2); Dio si può vivere, non conoscere.
Giacobbe ha vinto, il Buddha ha vinto. Ma può un uomo fiaccare l’Assoluto, essere più forte di Dio? Due celebri dipinti che ritraggono la lotta di Giacobbe ci suggeriscono qualche idea di risposta. Uno è di Delacroix (Parigi, chiesa di St-Sulpice) e ci mostra Giacobbe curvo e teso con il braccio destro che vuole piegare quello dell’Angelo: è il momento massimo dell’impegno e del conflitto. Nell’altro, di Rembrandt (Berlino, Staatliche Museen), siamo al momento successivo, quando la lotta è finita e scorgiamo l’abbandono nell’abbraccio con la dolcezza femminile e la complicità amorevole dell’Angelo. È la tenerezza di Dio (il volto compassionevole del Dharma): Giacobbe ha saputo evocarla con la violenza della sua richiesta di benedizione, nel dolore e nelle lacrime. Il totalmente altro diviene il “totalmente dentro”, la Vacuità si fa forma, la mente può vivere l’Equanimità. Non è la forza che vince Dio, ma il potere irresistibile della preghiera, la pietas della debolezza dichiarata, quella che fa dire a S. Paolo «quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor. 12, 10). Ce ne dà giustificazione un altro libro sapienziale con una frase che potrebbe valere come didascalia dei due momenti rappresentati nei dipinti; dice: Dio «gli assegnò la vittoria in una lotta dura, perché sapesse che la pietà è più potente di tutto» (Sap. 8, 10).
(Delacroix)
(Rembrandt)
(da Appunti di viaggio, n. 65, 2003)
La lotta con l’angelo
La fede è pace, rassicurazione, riposata unità o inquietudine, lotta, agonia? E, se è lotta, lotta con chi? E perché? Se l’antagonista è Dio stesso non sarà retorico domandarsi chi sarà il vittorioso? La Torah racconta una storia, quella di Giacobbe, parabola di tutti i combattimenti della fede.
Giacobbe figlio di Isacco e nipote di Abramo è il terzo dei grandi patriarchi di Israele. La sua vita è segnata dall’attenzione di Dio e da eventi miracolosi. Egli nasce infatti da Rebecca, la moglie fino ad allora sterile di Isacco, alla quale il Signore concede di divenire madre di due gemelli: Esaù (il primogenito) e Giacobbe (Ya’qob-El, cioè «Che Dio protegga!»). I due formano una nuova coppia di fratelli rivali. Già prima della nascita essi si urtavano nel ventre di Rebecca, a significare che, come Dio disse a lei: «Due nazioni sono nel tuo seno e due popoli dal tuo grembo si disperderanno», presagendo l’ostilità degli idumei (discendenti di Esaù) e degli israeliti (discendenti di Giacobbe). Alla nascita, Giacobbe, secondonato, teneva in pugno il calcagno (‘aqueb) di Esaù e da questo l’etimologia popolare volle derivare il suo nome. Per assicurarsi la primogenitura, come primo atto egli la “comprò” da Esaù in cambio della famosa minestra di lenticchie e poi, con l’inganno e la complicità della madre, cercò di farla valere assicurandosi la bendizione paterna che lo consacrò erede della promessa divina fatta alla discendenza di Abramo. Mentre Esaù era «abile nella caccia, un uomo delle steppe», Giacobbe «era un uomo tranquillo, che dimorava sotto le tende» (Gen., 25, 27), ma per sottrarsi alla collera del fratello fu costretto a migrare. Temperamento mistico, cercatore di Dio, durante un viaggio, ebbe, in sogno, la visione (nota ormai come “la scala di Giacobbe”) di una scala che «poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa» (Gen. 28, 12-13). Il Signore gli stava davanti e gli disse: «Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco», rinnovandogli così tutte le note promesse.
Quando, dopo molti anni, venne il tempo del ritorno, accadde l’episodo più significativo della sua carriera mistica, la lotta con Dio. In Gen. 32, leggiamo che durante una notte:
«Egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”. Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”. Giacobbe allora gli chiese: “Dimmi il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome? ”. E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel “Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”. Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all’anca. Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico».
Giacobbe dunque ingaggia con Dio, apparsogli in forma di uno sconosciuto (ma certo uno di quegli Angeli a lui già familiari), una lotta che gli consente un vero corpo a corpo con l’Assoluto. Quando ci confrontiamo con una situazione e con gli altri, conosciamo sempre qualcosa delle nostre risorse e delle nostre debolezze, ma quando ci confrontiamo con Dio, per ottenere la salvezza dal terrore dell’incalzare del tempo e dall’annientamento per l’assenza di significato, quando l’interlocutore è l’Assoluto, la messa in gioco è totale e l’uomo stesso assolutizza. Lui, l’Assoluto, è là, “totalmente altro”, al di là delle determinazioni e dei dualismi, quasi nemico nella sua diversità, e noi invece qui, avvinghiati ai nostri attaccamenti, innamorati delle nostre passioni, orgogliosi delle nostre costruzioni, e tuttavia supplici. Fede come conflitto, fede come lotta; tutti, con Giacobbe, stretti all’Assoluto, mai tanto vicino come in certe notti di angoscia. «Lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora», dice il racconto. Al venire del giorno il Dio misterioso vuole slacciarsi da quel confronto oscuro, ma Giacobbe non molla la presa e, deciso a sacrificare il suo io separato, chiede di essere benedetto. Il conflitto infine si placa e Giacobbe è benedetto, trasformato nella sua realtà e nel nome: assumendo la dimensione transpersonale del suo intero popolo, diverrà Israele.
Giacobbe è solo come è solo Siddhartha (“colui che ha raggiunto la meta” e che diverrà il Buddha). La grazia e l’illuminazione sono da loro ottenute come risultato della lotta (ascetica) per liberare la parte santa o natura buddhica dentro di noi e la sfida è quella di vedere Dio e rimanere salvi, vivere il non-dualismo del dualismo, non soffrire di soffrire, tornare nel mondo e conservare il segno di una ferita, la spina nella carne lasciata dall’incontro con l’Assoluto: perché non ci accada di dimenticare. Siddhartha quando concluse il suo agone assoluto con la vittoria su tutte le illusioni, divenuto l’Illuminato, avvertì che «i disattenti sono già come morti» (Dhp., 21).
Giacobbe vuole sapere il nome, conoscere l’essenza del suo antagonista. Non riceve risposta: come racchiudere quell’essenza in una parola? Il Dharma inesprimibile, che sostiene e governa il mondo, dirà il Buddha, è al di là delle parole e dei segni: «La Legge non è qualcosa che può essere compresa attraverso la riflessione o l’analisi» (Sutra del Loto, cap. 2); Dio si può vivere, non conoscere.
Giacobbe ha vinto, il Buddha ha vinto. Ma può un uomo fiaccare l’Assoluto, essere più forte di Dio? Due celebri dipinti che ritraggono la lotta di Giacobbe ci suggeriscono qualche idea di risposta. Uno è di Delacroix (Parigi, chiesa di St-Sulpice) e ci mostra Giacobbe curvo e teso con il braccio destro che vuole piegare quello dell’Angelo: è il momento massimo dell’impegno e del conflitto. Nell’altro, di Rembrandt (Berlino, Staatliche Museen), siamo al momento successivo, quando la lotta è finita e scorgiamo l’abbandono nell’abbraccio con la dolcezza femminile e la complicità amorevole dell’Angelo. È la tenerezza di Dio (il volto compassionevole del Dharma): Giacobbe ha saputo evocarla con la violenza della sua richiesta di benedizione, nel dolore e nelle lacrime. Il totalmente altro diviene il “totalmente dentro”, la Vacuità si fa forma, la mente può vivere l’Equanimità. Non è la forza che vince Dio, ma il potere irresistibile della preghiera, la pietas della debolezza dichiarata, quella che fa dire a S. Paolo «quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor. 12, 10). Ce ne dà giustificazione un altro libro sapienziale con una frase che potrebbe valere come didascalia dei due momenti rappresentati nei dipinti; dice: Dio «gli assegnò la vittoria in una lotta dura, perché sapesse che la pietà è più potente di tutto» (Sap. 8, 10).
(Delacroix)
(Rembrandt)
(da Appunti di viaggio, n. 65, 2003)