Riccardo Venturini
Cultura Europea e Religiosità in Giappone
Ho avuto, di recente, occasione di tornare a pormi l’interrogativo con cui tutti quelli che Hermann Hesse chiamava “pellegrini d’Oriente” («sempre in marcia attraverso i secoli, incontro alla luce e al prodigio ») si sono inevitabilmente venuti a confrontare, e cioè se sia in qualche modo possibile individuare una dimensione, o almeno il prevalere di una dimensione, a cui ricondurre la diversità, e quindi il confronto, tra Oriente e Occidente, tra Europa e Asia. Questo, ovviamente, non allo scopo di rovesciare l’eurocentrismo in un improponibile asiacentrismo, ma per superarli entrambi nella prospettiva di una futura, auspicata, civiltà planetaria.
È ben noto, ormai, che parlare di Oriente come di una realtà omogenea e indifferenziata non possa essere considerato nulla più di un pregiudizio, anche se di nobili origini e ancora largamente diffuso . Tuttavia, pur con l’attenzione tesa ad evitare ogni banale e gratuito riduzionismo, credo sia possibile tentare di offrire qualche orientamento su quello che a me sembra un punto di estremo interesse, uscendo dall’ambiguità di un Oriente generico e circoscrivendo l’analisi alla concreta realtà della cultura giapponese, essa stessa di grandi complessità e diversificazioni nel tempo. Il Giappone, da un lato, è parte del nostro immaginario, specchio di desideri e di timori; dall’altro, è concretamente presente tra noi coi suoi prodotti e le sue soluzioni, più vicino di quanto la geografia e la storia ci abbiano abituati a sentire. Questa grande società, che oggi vediamo capace di coniugare una millenaria tradizione con un processo di ultra-modernizzazione, ha sempre sorpreso i suoi osservatori e studiosi per le caratteristiche della sua cultura, capaci di suscitare – a un tempo – fascino e sconcerto.
Mi sembra esemplare quanto è accaduto allo stesso Lafcadio Hearn (1850-1904; noto anche col nome giapponese di Koizumi Yagumo), scrittore metà greco e metà irlandese, che ha dedicato la sua vita al tentativo di capire la verità del Giappone, tanto da essere addirittura considerato come l’autore di quel “mito Giappone”, che gli stessi giapponesi hanno finito per far proprio. Acutamente, in un suo saggio intitolato Strangeness and Charm, egli afferma:
La civiltà giapponese è tanto peculiare che non c’è forse [per essa] alcun parallelo occidentale, perché essa ci offre lo spettacolo di molte stratificazioni successive di culture straniere sovrapposte alle semplici basi indigene e formanti un insieme di sconcertante complessità […]. Il fatto peculiare e sorprendente è che, a dispetto di tutte le sovrapposizioni, il carattere originario delle persone e la loro società possa rimanere riconoscibile». E conclude: «Questo carattere, benché immediatamente riconoscibile in alcuni dei suoi aspetti, ci presenta molti enigmi che sono molto difficili da spiegare ».
Elusivo come una presenza invisibile, questo carattere è sempre sul punto di sfuggire all’osservatore, anche a un osservatore come Lafcadio Hearn, il quale, in alcune sue lettere ancora inedite, rivela una incredibile contraddizione con ciò che andava scrivendo nelle sue opere, in quanto finisce per criticare in esse il mito da lui stesso creato. Alla fine della sua vita confessava, infatti, a un amico: «Ho speso anni della mia vita a svelare il mistero del Giappone: ora mi rendo conto che forse il mistero non c’è» . Aveva dunque tutto sbagliato e non restava che prendere atto del fatto che quella giapponese era solo una piccola realtà di gente senz’anima? La domanda continua a riproporsi periodicamente e anche oggi ricompare nelle domande di saggisti e corrispondenti , chiedendo una risposta non tanto sul se esista, quanto sul dove risieda questa peculiarità e sul come rilevarla. Ebbene, io credo che essa possa essere individuata nel concetto buddhista di Vacuità (sanscr. sunyata; giap. ku), concetto peculiare del buddhismo dell’Estremo Oriente o del Grande veicolo (Mahayana). Secondo questo concetto, non v’è alcuna entità che possa essere considerata dotata di esistenza inerente, essendo tutte le cose prive di realtà assoluta ed esistenti solo in relazione a cause e condizioni, e dotate tutte di una natura relazionale: se esistesse qualcosa dotata di esistenza inerente essa esisterebbe, infatti, in modo indipendente da altri fenomeni, avrebbe caratteristiche permanenti e sarebbe pertanto non soggetta a divenire, né a nascita né a decadimento.
Il pensiero occidentale, attraverso la teoria atomica, la critica delle qualità, il criticismo kantiano e la dialettica hegeliana, il principio antropico di cui oggi parla la fisica , può sembrare che abbia raggiunto anch’esso, attraverso un itinerario diverso, lungo millenni di tentativi metafisici, lo stesso approdo; tuttavia, la nostra cultura è, nel suo insieme, ben lungi dall’aver prodotto una realizzazione consapevole e operante di esso, laddove il concetto di Vacuità impregna così fortemente la cultura e la spiritualità orientale influenzata dal buddhismo, che non ritengo si possa trovare modo più efficace del riferirsi a esso per rispondere alla domanda iniziale. Il filosofo giapponese Yoshinori Takeuchi sottolinea che «la nozione centrale da cui l’intuizione e il credo religioso orientale come pure il pensiero filosofico si sono sviluppati è l’idea di “nulla”. Per evitare una grave confusione, tuttavia, bisogna notare che l’Oriente e l’Occidente intendono il non-essere o nulla in modi completamente diversi » e, infatti, ogni discorso buddhista tende a rimarcare il carattere positivo della Vacuità, pur impiegando espressioni negative, perché della Vacuità come Realtà ultima è possibile parlare solo in termini negativi, secondo quanto la mistica e la teologia apofatica hanno, in Oriente e Occidente, insegnato.
Anche il più illuminato tra gli illuminati – dice il padre W. Johnston, della Sophia University di Tokyo – non coglie pienamente il nulla orientale: chi afferma di essere sceso nelle profondità del mu [= nulla], lungi dall’essere un saggio, è un folle. Poiché il nulla è veramente un mistero, un mistero nel senso più stretto della parola […]. Tutte le grandi religioni indicano un mistero che incombe sulla vita umana e giace al di là di una nuvola di non-conoscenza. Ed è precisamente questo senso del mistero o dell’ineffabile che tutti abbiamo in comune .
Forse per questo, all’osservatore occidentale, la Vacuità, con la sua presenza sottile nella vita giapponese, tende quasi sempre a sfuggire, finendo spesso per essere negata, col rischio di non poter comprendere i caratteri peculiari di quella cultura e di omologarla, quindi, alla cultura occidentale. La comprensione di questo concetto richiede, infatti, una di quelle lotte culturali che il grande economista J. M. Keynes definiva lotte di evasione: «lotta di evasione da modi abituali di pensiero e di espressione», per comprendere idee che magari «sono estremamente semplici e dovrebbero essere ovvie»; tuttavia, come egli concludeva, «la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie, le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente ».
Si è soliti dire che l’India ha dato al buddhismo il pensiero, la Cina la pratica, il Giappone la sensibilità estetica. Dovremo cercare allora di verificare come il concetto di Vacuità sia presente nella cultura e nella sensibilità giapponese e come – se il buddhismo è parte così notevole dell’identità culturale giapponese – esso abbia contribuito alla costruzione di quella particolare identità.
Come è noto, la sensibilità ritenuta tipica della mentalità e dell’estetismo giapponese è stata denominata aware o mono no aware. Senza entrare nelle innumerevoli disquisizioni sulle sfumature di significato di tale espressione, per altro assai difficilmente traducibile, vorrei limitarmi a ricordare, usando le parole di I. Morris, profondo conoscitore della cultura giapponese, che con essa si vuole
esprimere il pathos insito nella bellezza del mondo esterno, bellezza ineluttabilmente destinata a svanire insieme con chi la osserva. Le dottrine buddhiste sulla evanescenza di tutto ciò che è materia influirono sicuramente su questo particolare significato […]. Lo spettatore sensibile si commuove fino alle lacrime di fronte alla bellezza della natura o al suo materializzarsi nell’arte […], non solo perché ne subisce tutto l’impeto, ma perché essa gli fa prender più che mai coscienza della natura effimera di ogni cosa vivente .
L’opera che più di tutte ha attualizzato questa sensibilità è probabilmente il Genji Monogatari, massimo capolavoro della letteratura giapponese, scritto nell’XI secolo . Dato il peso che quest’opera ha avuto nella storia culturale giapponese, va osservato che essa è anche stata, a sua volta, un importante veicolo per l’affermarsi e il diffondersi di questo tipo di sensibilità. In esso, scrive W. J. Puette, «la più importante di tutte le virtù, la pietra di paragone mediante la quale gli uomini e le donne di corte venivano in definitiva misurati, era essenzialmente la loro sensibilità al pathos delle cose, in particolare nelle arti tradizionali » e se l’insistenza nella descrizione della quotidianità risulta dalla «natura “terrena” della visione del mondo autoctona», l’ordine strutturale di tutta l’opera è proprio di una visione buddhista: «in questo senso, si può dire che il Genji monogatari è un’opera che scaturisce dal buddhismo così come era stato rielaborato dai giapponesi ». Infatti, osserva lo storico della letteratura Shuichi Kato, ciò che rende unico il Genji monogatari, lungo i suoi 54 capitoli,
è la consapevolezza del trascorrere del tempo; la percezione che la realtà del tempo è un qualcosa di inevitabile che rende relative tutte le attività e emozioni dell’uomo. Il Genji monogatari è lo specchio della coscienza umana di essere su questa terra solo per una volta: «La vita non è lunga, quindi bisogna viverla come se avessimo solo uno o due giorni» .
E, dice ancora Morris,
Ogni episodio della Storia di Genji raggiunge il suo culmine emotivo in questo intreccio di godimento estetico e di sofferenza. E così, quando Genji va di notte a trovare in convento l’ex imperatore Reizei, e i due gentiluomini seduti nella veranda discorrono nostalgicamente dei vecchi tempi e delle persone ormai da tanto scomparse mentre un cortigiano suona il flauto accompagnato dai grilli fra i pini e la scena è illuminata dalla luna, il senso di mono no aware è quasi insopportabile .
Del pari, quando nell’ambito della filosofia buddhista, ci si interrogava sul corretto significato da dare al concetto di dharmata o dharma-dhatu (giapp.: shohojisso), ossia la base noumenica dei fenomeni, la “vera realtà” di tutte le cose, Dogen (1200-1253), primo patriarca del Buddhismo Soto Zen giapponese, seguendo l’insegnamento del fenomenismo assoluto della Scuola Tendai, affermava:
L’aspetto reale è tutte-le-cose. Tutte-le-cose sono la forma della realtà, la natura della realtà – la realtà del corpo, la realtà della mente, la realtà del mondo, la realtà delle nubi e della pioggia; la realtà del [quotidiano] andare, levarsi, sedersi e sdraiarsi; la realtà [del succedersi] della malinconia e della gioia, del movimento e della calma; la realtà di un bastone e di un hossu , la realtà del sollevare un fiore e del sorridere ; la realtà della trasmissione del Dharma e dell'illuminazione, la realtà dello studio e della pratica, la realtà del pino [sempreverde] e del bambù [che non si spezza mai] .
Il carattere fluido e impermanente dei fenomeni diviene il loro aspetto assoluto: l’impermanenza è, per Dogen, la natura buddhica stessa.
Pertanto, poiché l’erba, gli alberi, le foreste sono impermanenti essi sono la natura buddhica. L’impermanenza del corpo e della mente dell’uomo è la natura buddhica. L’illuminazione suprema e il parinirvana, poiché sono impermanenti, sono la natura buddhica .
Che questo modo di sentire non appartenga soltanto alla storia letteraria e religiosa di un lontano passato, ma sia proprio anche di un’attuale, diffusa sensibilità popolare, basterebbe a provarlo il modo in cui viene vissuta l’hanami, la contemplazione dei ciliegi in fiore, simbolo della primavera. Chi ha avuto occasione di trovarsi in aprile in Giappone sa come, ad esempio nella metropoli di Tokyo, il grande parco di Ueno, per circa una settimana, accolga ogni giorno centinaia di migliaia di persone che vivono l’hanami sì come festa ed emozione estetica, ma non meno come cerimonia religiosa e una forma di meditazione su una meraviglia impermanente, destinata a svanire col primo vento e che, pertanto, attualizza e ricorda il misterioso legame tra vita, morte e bellezza.
Nel buddhismo mahayana la Vacuità è il fondamento stesso della pratica religiosa, codificata nel sistema delle paramita, cioè delle sei “perfezioni” o pratiche alle quali un bodhisattva (l’essere che aspira all’illuminazione, al raggiungimento della buddhità) adegua la sua vita. Le paramita sono rappresentate dal donare, dalla moralità o rispetto dei precetti e delle regole, dalla tolleranza o pazienza, dall’impegno, dalla meditazione e, infine, dalla saggezza. Ed è proprio la saggezza, intesa come realizzazione della Vacuità, a dare valore di perfezione alla pratica delle virtù, trasformandone il significato e liberando il bodhisattva anche dall’attaccamento alle perfezioni stesse, ove esse manchino di richiamarsi, e di richiamare, alla vacuità dei particolari momenti di pratica.
Perché questo discorso non sembri un’astrazione concettuale o sia da ritenere pertinente solo nel contesto della vita monastica, tentiamo, attraverso qualche esempio tratto dalla realtà della vita quotidiana giapponese, di interpretare in termini di paramita alcuni aspetti, anche tra i più “laici”, della cultura in cui si esprime la particolare sensibilità che abbiamo sopra cercato di delineare.
Cominciamo dalla pratica del donare. Può aiutarci in questo esame una pagina di uno dei più bei libri che siano stati scritti sul Giappone, L’impero dei segni di Roland Barthes, in cui vengono confrontati il saluto occidentale e l’inchino giapponese.
Poiché – scrive R. Barthes – se davvero esiste una “persona” umana (densa, piena, dotata di un centro e consacrata), è senza dubbio lei che, di primo acchito, si pretende di salutare (con il capo, le labbra, il corpo); ma la mia stessa persona, entrando inevitabilmente in lotta con la pienezza dell’altro, non potrà farsi riconoscere che scacciando ogni mediazione dell’artefatto, affermando l’integrità (termine coerentemente ambiguo, fisico e morale) del proprio “interiore”: così, in un secondo tempo, io ridurrò il mio saluto, fingerò di renderlo naturale, spontaneo, depurato, purificato da ogni codice […]: come sono semplice, come sono gentile, come sono franco, come sono qualcuno, ecco che cosa rivela la scortesia dell’Occidentale. L’altra cortesia, a causa della minuzia dei suoi codici, del grafismo nitido dei suoi gesti, anche quando ci appare rispettosa (cioè, ai nostri occhi, “umiliante”) perché noi la decifriamo secondo le nostre abitudini, a partire da una metafisica della persona, questa cortesia è una sorta di esercizio del vuoto (come ci si può attendere da un codice forte, ma significante “nulla”). Due corpi s’inchinano molto profondamente l’uno al cospetto dell’altro (le braccia, le ginocchia, la testa rimangono sempre in una posizione stabilita), secondo una gerarchia di profondità sottilmente codificata. O ancora (come si deduce da una stampa antica): per offrire un dono mi appiattisco, curvo sino a rientrare nella terra, e per corrispondermi il mio interlocutore fa altrettanto: una stessa linea bassa, quella del suolo, unisce colui che offre, colui che riceve e l’oggetto del protocollo, un involucro che può anche non contenere nulla – o comunque ben poca cosa; in questo modo una forma grafica (inscritta nello spazio della stanza) è offerta all’atto di scambio nel quale, grazie a questa forma, s’annulla ogni tipo di avidità (il regalo resta sempre sospeso tra due disparizioni). Il saluto può essere così sottratto ad ogni forma di umiliazione o di vanità, perché letteralmente non saluta nessuno; non è il segno di una comunicazione sorvegliata, condiscendente o cauta tra due autarchie, due imperi personali (ognuno regnante sul proprio Io, piccolo dominio di cui possiede la “chiave”); il saluto non è che il tratto d’unione di una rete di forme in cui nulla è stabilito, legato, profondo. Chi saluta chi? .
In un passo del suo famoso Mahaprajnaparamitasastra [Trattato sulla grande perfezione di saggezza], il filosofo buddhista indiano Nagarjuna (II-III sec.) scrive:
Vi sono due specie di donatori: il donatore mondano e il donatore sopramondano. Il donatore mondano abbandona le sue ricchezze, ma non abbandona il dono, mentre il donatore sopramondano abbandona insieme le ricchezze e il dono […]. Nella Danaparamita è detto che tre cose: l’oggetto donato, il donatore e il beneficiario, non esistono .
Ecco, dunque, come possiamo “interpretare” i comportamenti a cui si riferiscono le osservazioni di Barthes e molti altri fatti che si incontrano nella vita giapponese: l’arte del pacchetto (segno vuoto, quasi il vero oggetto del dono, che finisce per sostituire e depotenziare ciò che racchiude e cela, e di cui autorizza il rinvio della fruizione), il dono di denaro o di un frutto raro e costoso (entrambi oggetti che mutano o scompaiono e, non ingombrando con un presenza duratura, faranno dimenticare la sottile dimensione di arroganza insita nel regalo), etc.
Anche per la seconda paramita, riguardante il rispetto delle norme etiche e dei precetti, la vita giapponese è un terreno di verifica infinitamente ricco per la quantità di regole che presiedono a quasi tutti i fatti della vita sociale, dominata da una non esplicita, ma onnipresente morale confuciana, base dei sistemi politico, legale, educativo. Volendo qui sottolineare il richiamo alla Vacuità, sia consentito un accenno al sistema imperiale, argomento indubbiamente difficile, quasi tabù in Giappone, ma nondimeno centro della vita nazionale di quel Paese. Costituitosi sulla base ideologica dello scintoismo, che ha fatto dell’imperatore non solo un grande re, ma un dio rivelato, il potere imperiale è venuto a trovarsi paradossalmente forte proprio per la sua debolezza politica, collocato su un trono troppo poco influente e quindi al riparo dalle bramosie degli individui politicamente ambiziosi, ricco, potremmo dire, più di vuoto che di pieno. Un sistema dunque che ha, come la città di Tokyo, un cuore vuoto, una città che pertanto ne diviene lo specchio e il simbolo. Sentiamo ancora quest’osservazione di Roland Bathes
La città di cui parlo presenta questo paradosso prezioso: essa possiede sì un centro, ma questo centro è vuoto. Tutta la città ruota intorno a un luogo che è insieme interdetto e indifferente, dimora mascherata dalla vegetazione, difesa da fossati d’acqua, abitata da un imperatore che non si vede mai, cioè letteralmente da non si sa chi. Quotidianamente, con la loro andatura rapida, energica, spedita come la traiettoria di un proiettile, i taxi evitano questo cerchio la cui cima bassa, forma visibile dell’invisibile, nasconde il “nulla” sacro .
Ancora, potremmo ricordare che l’innumerevole quantità di regole dei comportamenti di purificazione, che lo shintoismo richiede come obblighi religiosi, ha trovato nel buddhismo un ulteriore rinforzo, in quella sorta di sincretismo o almeno di alleanza che queste due religioni hanno saputo realizzare. E questo può anche essere preso proprio come uno dei migliori esempi di pratica di un’altra paramita: quella della tolleranza, alla base dell’atteggiamento che tende non a contrapporre, ma ad armonizzare, non a dire questo o quello, ma questo e quello. Poiché ciascuna paramita è illuminata dalla luce delle altre, e soprattutto dalla realizzazione della Vacuità, si deve concludere, seguendo ancora Nagarjuna, che
guardando con l’occhio della saggezza il peccato non esiste; se il peccato non esiste neppure l’assenza di peccato esiste
e, dunque, non c’è né peccatore da disprezzare né santo da esaltare.
Lo zelo, la solerzia e la disciplina che i giapponesi manifestano in tutte le forme di vita individuale e collettiva, da quella scolastica a quella lavorativa, da quella familiare a quella religiosa, credo siano tra gli aspetti più noti in Occidente, trovandosi alla base anche dell’attuale “successo” giapponese e possano validamente illustrare la paramita dell’impegno.
Per quanto riguarda la quinta paramita, la concentrazione meditativa, va sottolineato che essa è praticata a livelli di estremo rigore quando è all’interno del curriculum formativo monastico, come ad esempio quello seguito dai monaci della scuola Tendai, sul monte Hiei, nei pressi di Kyoto: cicli di meditazione di 90 giorni senza dormire o di 90 giorni camminando continuamente o periodi di astinenza dal bere acqua per 9 giorni, rimanendo in silenziosa contemplazione dell’acqua stessa. Si tratta di pratiche che non hanno paragone anche con le più severe austerità religiose occidentali e sono certamente delle formidabili vie di penetrazione dei misteri della mente e della Realtà ultima. Tornare a bere dopo 9 giorni significa riscoprire la sacralità dell’acqua e di tutti i fenomeni della vita, in un modo che nessuna comprensione intellettuale può eguagliare. Ma, anche a questo proposito, vorrei ricordare pratiche più largamente diffuse, nelle quali gli elementi estetici e religiosi sono così intimamente fusi da farne un unicum che non ha analoghi in altre culture. Intendo riferirmi a quelle che si chiamano “arti”, ma che più propriamente sono da definire “vie” (di realizzazione): la cerimonia del tè, la disposizione dei fiori, la calligrafia, la cerimonia dell’incenso, il tiro con l’arco, etc. Ognuna di queste pratiche meriterebbe una illustrazione particolare, ma qui debbo limitarmi a sottolineare che esse non possono essere comprese nella loro vera natura se non vengono viste come forme dinamiche di concentrazione meditativa, illuminate dalla realizzazione della Vacuità che tutte le sottende. Il legame tra queste “arti” e lo zen, più volte giustamente sottolineato, risiede infatti nell’estetica dell’intervallo (ma, in giapp.), quello che giustifica lo spazio vuoto nella pittura, le pause del teatro No, il silenzio nella musica, le zone vuote nella casa: tutte occasioni in cui la “realtà” cede il posto alla “verità”, occasioni attraverso le quali è possibile
sentire le pulsazioni dell’invisibile in cui sono immerse tutte le cose. Solo allora ogni singolo essere può entrare in comunione con la totalità delle cose. La leggenda non dice forse che Wu Tao-tzu (701-792) scomparve nella nebbia di un paesaggio che aveva appena dipinto?
La sesta ed ultima paramita, la vera saggezza trascendentale, la realizzazione della Vacuità, non come nulla, ma come infinita potenzialità del pleroma e universale interrelazione, quella che conferisce significato religioso a tutte le virtù e a tutte le azioni, è dunque proprio quella in cui – a mio avviso – risiedono la peculiarità e il fascino della cultura giapponese. Dimenticando questo ci resterà di fronte il paese della tecnologia, degli affari, del pachinko, delle lattine, degli incubi scolastici… Se, viceversa, ci lasceremo assorbire dal fascino della Vacuità potremo avere molte cose da imparare e molti insegnamenti su cui riflettere.
Sentiamo di vivere in un’Europa che cambia, e ancor più profondamente cambierà, perché esposta a una serie di incontri, confronti e fecondazioni possibili, un’Europa che certamente si interroga-su e vuole proteggere-la sua preziosa identità. Anche in Giappone il tema dell’identità è in primo piano. Si sono scritti e si scrivono molti libri su questo argomento, e, volendo qui fare solo una considerazione sintetica, le tesi che mi sembrano più convincenti sono proprio quelle che, in qualche modo, utilizzano il concetto di vacuità, per cui tendono a caratterizzare l’identità giapponese come identità “vuota”, capace di dar ragione di una continuità che convive con un continuo rinnovamento.
Le culture troppo rigide sono sempre venute in crisi nell’incontro con ciò che è straniero e diverso, mentre la cultura giapponese sembra capace di lasciar fluire, assimilare, fondere, risolvere motivi diversi in sempre ulteriori unità, ritrovando poi sé stessa non nonostante, ma attraverso il cambiamento. È, infatti, quanto il Giappone ha sperimentato nelle tre “modernizzazioni” che ha affrontato nella sua storia, tre momenti critici rappresentati dalla riforma Taikwa o Grande innovazione (645), dalla “restaurazione” Meiji (1868), dal periodo successivo alla seconda guerra mondiale, tre momenti in cui lo stimolo al processo di modernizzazione è stato rappresentato dal confronto con realtà politico-sociali esterne, costitute rispettivamente dalla Cina, dai paesi occidentali, dagli USA. Se è vero che il Giappone ha nipponizzato il buddhismo è anche vero che il buddhismo ha buddhizzato il Giappone e possiamo vedere proprio come risultato della sua influenza questa capacità di essere fermo nel mezzo del movimento, fisso e in continua trasformazione. Proprio il buddhismo, religione importata dall’Occidente, ha finito per costituirsi come «garante della continuità sociale e dell’unità e identità culturale del popolo giapponese ».
Per l’Europa, ritengo che le difficoltà per la comprensione profonda e per la pratica della Vacuità non risiedano soltanto nelle difficoltà proprie di ogni confronto e dialogo interculturale: esse risiedono soprattutto nella nostra resistenza a mettere in gioco il nostro ego, a passare dalla cultura del narcisismo a quella della solidarietà , a passare dal piccolo io separato a un più grande io transpersonale; a passare, in altri termini, da una identità rigida a una identità “vuota”, “debole”, dialogica, mobile .
Potrà essere utile tornare ad attingere ai profondi giacimenti sapienziali presenti nel nostro continente, poiché, come osserva il già citato p. Johnston,
c’è un vecchio detto buddhista che dice che la Vacuità è uguale alla compassione (ku soku jhi). Questa è una Vacuità che è affine a ciò che gli antichi scrittori cristiani chiamavano umiltà. Quando sono umile e totalmente vuoto posso accogliere gli altri nel mio cuore; quando l’io è dimenticato ho posto per tutti gli uomini e per Dio .
Questo è un invito a ripensare in termini totalmente nuovi, sia a livello individuale che a livello sociale, i possibili rapporti tra identità e tradizione, da un alto, e universalità e globalizzazione, monismo e pluralismo, dall’altro. Secondo le profetiche parole di Thomas Merton, monaco benedettino aperto a tutti i messaggi culturali e spirituali, l’uomo che ha raggiunto una completa integrazione
non è più limitato dalla cultura in cui è cresciuto […]. L’integrazione finale è uno stato di maturità transculturale, molto al di là del puro adattamento sociale, che sempre comporta parzialità e compromesso. L’uomo che è “compiutamente nato” ha una completa “esperienza interna della vita”. Egli comprende la sua vita pienamente e completamente da un fondamento interno che è, ad un tempo, più universale dell’io empirico e tuttavia interamente suo. Egli è in un certo senso un uomo “cosmico” e “universale”. Egli ha conquistato una più profonda, più piena identità di quella del suo limitato ego, che è solo un frammento del suo essere […]. Lo stato di insight dell’integrazione finale implica un’apertura, una “vacuità”, una “povertà” simile a quelle descritte in dettaglio non solo dai mistici renani, da S. Giovanni della Croce, dai primi francescani, ma anche dai Sufi, dai primi maestri taoisti e dal buddhismo zen. L’integrazione finale implica il vuoto, la povertà e la non-azione che lascia l’individuo interamente disponibile per lo “Spirito” e pertanto strumento potenziale per una inusuale creatività .
L’attualità della cultura post-moderna nella quale ci troviamo sembra offrirci nuove realtà che possono aiutarci alla comprensione diretta di questi concetti, a partire proprio da ciò che sembra più caratteristico del nostro tempo. Vorrei dare solo due esempi. Da un lato, l’importanza sempre crescente delle tecnologie informatiche, caratterizzate da quella che non esiterei a chiamare la loro “vacuità”. L’“identità” di un computer risiede, infatti, proprio nella sua flessibilità e programmabilità. Esso è sì un oggetto, una macchina, ma una macchina che ha – in comune con la nostra mente – caratteri di disponibilità ed elusività che lo differenziano da tutti gli altri oggetti. D’altra parte, anche nel campo delle arti figurative e della musica l’affermarsi dell’astratto, dell’informale, del ripetitivo, del minimale… sembrano andare nella direzione di una riscoperta e di un recupero di spazi e di intervalli dimenticati e, quindi, di una possibile riaffermazione della mistica presenza del vuoto.
Un confronto e uno scambio più ravvicinati con la cultura giapponese, e con i suoi modi di coniugare il tradizionale con l’attuale, credo possano molto aiutarci ad attualizzare l’assimilazione e la pratica della Vacuità e stimolarci a darne una particolare e attuale lettura europea (non dimenticando, d’altra parte, che, pur se riproposte dall’Estremo Oriente, ci troviamo di fronte a concezioni nate in quella che biene chiamata cultura indo-europea!). La costruzione di una cultura della complessità e della diversità non può realizzarsi che attraverso il contatto con la diversità e la complessità delle culture, un processo questo indispensabile e reso oggi urgente dall’esigenza di sviluppare tutta l’attenzione e la consapevolezza necessarie per affrontare i profondi mutamenti che, come europei, ci attendono.
da (modificato) Paradigmi-Rivista di critica filosofica, 10, 1992, n. 30
H. Hesse, Il pellegrinaggio in Oriente, tr. it., Milano, Adelphi, 1980.
Cfr. H. Nakamura, Ways of Thinking of Eastern Peoples, Honolulu, The University Press of Hawaii, 1964 e C. Pensa, L’incontro tra Oriente e Occidente oggi: problemi e significati con particolare riguardo al Buddhismo e all’Induismo, Atti Convegno Soc. it. storia delle religioni e Ist. Univ. Orientale di Napoli, suppl. n°2 agli Annali, 1975, 35, fasc.1.
L.Hearn, Japan: an Interpretation, Tokyo, Charles E. Tuttle Company, 1984, pp. 17-19.
T. Terziani, L’uomo che inventò il Giappone - Firma inglese per la leggenda del Sol Levante, in «Corriere della sera», 1990.
Cfr. la polemica tra E. Zolla e B. Placido; di quest’ultimo: Il Paese che non c’è, in La Repubblica, 20 ott. 1988.
J. D. Barrow e F.J.Tipler, The Anthropic Cosmological Principle, New York, Oxford University Press, 1986.
Cit. in W. Johnston, L’occhio interiore, tr. it., Roma, Città nuova Editrice, 1987, p. 123.
W. Johnston, op. cit., pp. 132-133
J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, tr. it., Torino, UTET, 1971.
I. Morris, Il mondo del principe splendente, tr. it., Milano, Adelphi Edizioni, 1984, p. 259.
S. Murasaki, Storia di Genji, il principe splendente, tr. it., Torino, Einaudi, 1957.
W. J. Puette, Guide to The Tale of Genji, Tokyo, Charles E. Tuttle Company, 1983, p. 42.
S. Kato, Storia della letteratura giapponese, tr. it., Venezia, Marsilio Editori, vol. I, 1987, p. 170.
Ibidem.
I. Morris, op. cit., p. 259.
Keisaku o kyosaku (bastone) e hossu (corto bastone con parte di una coda di cavallo a una estremità) sono strumenti tipici dei maestri zen.
Allusione all’episodio dell’insegnamento dato dal Buddha mostrando un fiore.
Dogen, Shobogenzo - The Eye and Treasury of the True Law, tr. ingl., IV, Tokyo, Nakayama Shobo, 1983, p. 56.
Natura buddhica o natura-di-Buddha (giapp.: bussho, ingl.: Buddha-nature), intesa come il substrato di perfezione proprio di tutti i fenomeni, di tutti gli esseri senzienti e non-senzienti.
Id., ivi, p. 128.
R. Barthes, L’empire des signes, Parigi, Skira e Flammarion, 1970, p. 85 ss.; L’impero dei segni, tr. it., Torino, Einaudi, 1984, p. 75 ss.
É. Lamotte, Le traité de la Grande vertu de sagesse de Nagarjuna, Louvain-la-Neuve, Université de Louvain, Institut Orientaliste, 1981, tomo II, p. 724.
R. Barthes, op. cit., pp. 39-42.
É. Lamotte, op. cit., p. 861.
N. Niwano, The Importance of “Interval”, in «Dharma World», 1987, 14, n° 1, pp. 2-3.
F. Cheng e N. Tadjadod, Il suono del silenzio, in «Il Corriere UNESCO», 1991, n°2, p.25.
S. D. B. Picken, Buddhism: Japan’s Cultural Identity, Tokyo, Kodansha International, 1982, p. 9.
Cfr. C. Lasch, La cultura del narcisismo, tr. it., Milano, Bompiani, 1981 e A. Catemario, La contraddizione culturale nelle società complesse, Roma, Edizioni Kappa, 1990.
R. VENTURINI, Il vuoto mentale nelle psicologie tradizionali e nella psicologia sperimentale, in «Dharma», II, n°2, marzo 2000, pp. 62-80;
W. Johnston, The Inner Eye of Love, Glasgow, Collins, 1978, p.114.
T. Merton, Final Integration, in W. E. Conn (Ed.), Conversion, New York, Alba House, 1978, p. 268 s.
G. Dorfles, L’intervallo perduto, Torino, Einaudi, 1980.
Cultura Europea e Religiosità in Giappone
Ho avuto, di recente, occasione di tornare a pormi l’interrogativo con cui tutti quelli che Hermann Hesse chiamava “pellegrini d’Oriente” («sempre in marcia attraverso i secoli, incontro alla luce e al prodigio ») si sono inevitabilmente venuti a confrontare, e cioè se sia in qualche modo possibile individuare una dimensione, o almeno il prevalere di una dimensione, a cui ricondurre la diversità, e quindi il confronto, tra Oriente e Occidente, tra Europa e Asia. Questo, ovviamente, non allo scopo di rovesciare l’eurocentrismo in un improponibile asiacentrismo, ma per superarli entrambi nella prospettiva di una futura, auspicata, civiltà planetaria.
È ben noto, ormai, che parlare di Oriente come di una realtà omogenea e indifferenziata non possa essere considerato nulla più di un pregiudizio, anche se di nobili origini e ancora largamente diffuso . Tuttavia, pur con l’attenzione tesa ad evitare ogni banale e gratuito riduzionismo, credo sia possibile tentare di offrire qualche orientamento su quello che a me sembra un punto di estremo interesse, uscendo dall’ambiguità di un Oriente generico e circoscrivendo l’analisi alla concreta realtà della cultura giapponese, essa stessa di grandi complessità e diversificazioni nel tempo. Il Giappone, da un lato, è parte del nostro immaginario, specchio di desideri e di timori; dall’altro, è concretamente presente tra noi coi suoi prodotti e le sue soluzioni, più vicino di quanto la geografia e la storia ci abbiano abituati a sentire. Questa grande società, che oggi vediamo capace di coniugare una millenaria tradizione con un processo di ultra-modernizzazione, ha sempre sorpreso i suoi osservatori e studiosi per le caratteristiche della sua cultura, capaci di suscitare – a un tempo – fascino e sconcerto.
Mi sembra esemplare quanto è accaduto allo stesso Lafcadio Hearn (1850-1904; noto anche col nome giapponese di Koizumi Yagumo), scrittore metà greco e metà irlandese, che ha dedicato la sua vita al tentativo di capire la verità del Giappone, tanto da essere addirittura considerato come l’autore di quel “mito Giappone”, che gli stessi giapponesi hanno finito per far proprio. Acutamente, in un suo saggio intitolato Strangeness and Charm, egli afferma:
La civiltà giapponese è tanto peculiare che non c’è forse [per essa] alcun parallelo occidentale, perché essa ci offre lo spettacolo di molte stratificazioni successive di culture straniere sovrapposte alle semplici basi indigene e formanti un insieme di sconcertante complessità […]. Il fatto peculiare e sorprendente è che, a dispetto di tutte le sovrapposizioni, il carattere originario delle persone e la loro società possa rimanere riconoscibile». E conclude: «Questo carattere, benché immediatamente riconoscibile in alcuni dei suoi aspetti, ci presenta molti enigmi che sono molto difficili da spiegare ».
Elusivo come una presenza invisibile, questo carattere è sempre sul punto di sfuggire all’osservatore, anche a un osservatore come Lafcadio Hearn, il quale, in alcune sue lettere ancora inedite, rivela una incredibile contraddizione con ciò che andava scrivendo nelle sue opere, in quanto finisce per criticare in esse il mito da lui stesso creato. Alla fine della sua vita confessava, infatti, a un amico: «Ho speso anni della mia vita a svelare il mistero del Giappone: ora mi rendo conto che forse il mistero non c’è» . Aveva dunque tutto sbagliato e non restava che prendere atto del fatto che quella giapponese era solo una piccola realtà di gente senz’anima? La domanda continua a riproporsi periodicamente e anche oggi ricompare nelle domande di saggisti e corrispondenti , chiedendo una risposta non tanto sul se esista, quanto sul dove risieda questa peculiarità e sul come rilevarla. Ebbene, io credo che essa possa essere individuata nel concetto buddhista di Vacuità (sanscr. sunyata; giap. ku), concetto peculiare del buddhismo dell’Estremo Oriente o del Grande veicolo (Mahayana). Secondo questo concetto, non v’è alcuna entità che possa essere considerata dotata di esistenza inerente, essendo tutte le cose prive di realtà assoluta ed esistenti solo in relazione a cause e condizioni, e dotate tutte di una natura relazionale: se esistesse qualcosa dotata di esistenza inerente essa esisterebbe, infatti, in modo indipendente da altri fenomeni, avrebbe caratteristiche permanenti e sarebbe pertanto non soggetta a divenire, né a nascita né a decadimento.
Il pensiero occidentale, attraverso la teoria atomica, la critica delle qualità, il criticismo kantiano e la dialettica hegeliana, il principio antropico di cui oggi parla la fisica , può sembrare che abbia raggiunto anch’esso, attraverso un itinerario diverso, lungo millenni di tentativi metafisici, lo stesso approdo; tuttavia, la nostra cultura è, nel suo insieme, ben lungi dall’aver prodotto una realizzazione consapevole e operante di esso, laddove il concetto di Vacuità impregna così fortemente la cultura e la spiritualità orientale influenzata dal buddhismo, che non ritengo si possa trovare modo più efficace del riferirsi a esso per rispondere alla domanda iniziale. Il filosofo giapponese Yoshinori Takeuchi sottolinea che «la nozione centrale da cui l’intuizione e il credo religioso orientale come pure il pensiero filosofico si sono sviluppati è l’idea di “nulla”. Per evitare una grave confusione, tuttavia, bisogna notare che l’Oriente e l’Occidente intendono il non-essere o nulla in modi completamente diversi » e, infatti, ogni discorso buddhista tende a rimarcare il carattere positivo della Vacuità, pur impiegando espressioni negative, perché della Vacuità come Realtà ultima è possibile parlare solo in termini negativi, secondo quanto la mistica e la teologia apofatica hanno, in Oriente e Occidente, insegnato.
Anche il più illuminato tra gli illuminati – dice il padre W. Johnston, della Sophia University di Tokyo – non coglie pienamente il nulla orientale: chi afferma di essere sceso nelle profondità del mu [= nulla], lungi dall’essere un saggio, è un folle. Poiché il nulla è veramente un mistero, un mistero nel senso più stretto della parola […]. Tutte le grandi religioni indicano un mistero che incombe sulla vita umana e giace al di là di una nuvola di non-conoscenza. Ed è precisamente questo senso del mistero o dell’ineffabile che tutti abbiamo in comune .
Forse per questo, all’osservatore occidentale, la Vacuità, con la sua presenza sottile nella vita giapponese, tende quasi sempre a sfuggire, finendo spesso per essere negata, col rischio di non poter comprendere i caratteri peculiari di quella cultura e di omologarla, quindi, alla cultura occidentale. La comprensione di questo concetto richiede, infatti, una di quelle lotte culturali che il grande economista J. M. Keynes definiva lotte di evasione: «lotta di evasione da modi abituali di pensiero e di espressione», per comprendere idee che magari «sono estremamente semplici e dovrebbero essere ovvie»; tuttavia, come egli concludeva, «la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie, le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente ».
Si è soliti dire che l’India ha dato al buddhismo il pensiero, la Cina la pratica, il Giappone la sensibilità estetica. Dovremo cercare allora di verificare come il concetto di Vacuità sia presente nella cultura e nella sensibilità giapponese e come – se il buddhismo è parte così notevole dell’identità culturale giapponese – esso abbia contribuito alla costruzione di quella particolare identità.
Come è noto, la sensibilità ritenuta tipica della mentalità e dell’estetismo giapponese è stata denominata aware o mono no aware. Senza entrare nelle innumerevoli disquisizioni sulle sfumature di significato di tale espressione, per altro assai difficilmente traducibile, vorrei limitarmi a ricordare, usando le parole di I. Morris, profondo conoscitore della cultura giapponese, che con essa si vuole
esprimere il pathos insito nella bellezza del mondo esterno, bellezza ineluttabilmente destinata a svanire insieme con chi la osserva. Le dottrine buddhiste sulla evanescenza di tutto ciò che è materia influirono sicuramente su questo particolare significato […]. Lo spettatore sensibile si commuove fino alle lacrime di fronte alla bellezza della natura o al suo materializzarsi nell’arte […], non solo perché ne subisce tutto l’impeto, ma perché essa gli fa prender più che mai coscienza della natura effimera di ogni cosa vivente .
L’opera che più di tutte ha attualizzato questa sensibilità è probabilmente il Genji Monogatari, massimo capolavoro della letteratura giapponese, scritto nell’XI secolo . Dato il peso che quest’opera ha avuto nella storia culturale giapponese, va osservato che essa è anche stata, a sua volta, un importante veicolo per l’affermarsi e il diffondersi di questo tipo di sensibilità. In esso, scrive W. J. Puette, «la più importante di tutte le virtù, la pietra di paragone mediante la quale gli uomini e le donne di corte venivano in definitiva misurati, era essenzialmente la loro sensibilità al pathos delle cose, in particolare nelle arti tradizionali » e se l’insistenza nella descrizione della quotidianità risulta dalla «natura “terrena” della visione del mondo autoctona», l’ordine strutturale di tutta l’opera è proprio di una visione buddhista: «in questo senso, si può dire che il Genji monogatari è un’opera che scaturisce dal buddhismo così come era stato rielaborato dai giapponesi ». Infatti, osserva lo storico della letteratura Shuichi Kato, ciò che rende unico il Genji monogatari, lungo i suoi 54 capitoli,
è la consapevolezza del trascorrere del tempo; la percezione che la realtà del tempo è un qualcosa di inevitabile che rende relative tutte le attività e emozioni dell’uomo. Il Genji monogatari è lo specchio della coscienza umana di essere su questa terra solo per una volta: «La vita non è lunga, quindi bisogna viverla come se avessimo solo uno o due giorni» .
E, dice ancora Morris,
Ogni episodio della Storia di Genji raggiunge il suo culmine emotivo in questo intreccio di godimento estetico e di sofferenza. E così, quando Genji va di notte a trovare in convento l’ex imperatore Reizei, e i due gentiluomini seduti nella veranda discorrono nostalgicamente dei vecchi tempi e delle persone ormai da tanto scomparse mentre un cortigiano suona il flauto accompagnato dai grilli fra i pini e la scena è illuminata dalla luna, il senso di mono no aware è quasi insopportabile .
Del pari, quando nell’ambito della filosofia buddhista, ci si interrogava sul corretto significato da dare al concetto di dharmata o dharma-dhatu (giapp.: shohojisso), ossia la base noumenica dei fenomeni, la “vera realtà” di tutte le cose, Dogen (1200-1253), primo patriarca del Buddhismo Soto Zen giapponese, seguendo l’insegnamento del fenomenismo assoluto della Scuola Tendai, affermava:
L’aspetto reale è tutte-le-cose. Tutte-le-cose sono la forma della realtà, la natura della realtà – la realtà del corpo, la realtà della mente, la realtà del mondo, la realtà delle nubi e della pioggia; la realtà del [quotidiano] andare, levarsi, sedersi e sdraiarsi; la realtà [del succedersi] della malinconia e della gioia, del movimento e della calma; la realtà di un bastone e di un hossu , la realtà del sollevare un fiore e del sorridere ; la realtà della trasmissione del Dharma e dell'illuminazione, la realtà dello studio e della pratica, la realtà del pino [sempreverde] e del bambù [che non si spezza mai] .
Il carattere fluido e impermanente dei fenomeni diviene il loro aspetto assoluto: l’impermanenza è, per Dogen, la natura buddhica stessa.
Pertanto, poiché l’erba, gli alberi, le foreste sono impermanenti essi sono la natura buddhica. L’impermanenza del corpo e della mente dell’uomo è la natura buddhica. L’illuminazione suprema e il parinirvana, poiché sono impermanenti, sono la natura buddhica .
Che questo modo di sentire non appartenga soltanto alla storia letteraria e religiosa di un lontano passato, ma sia proprio anche di un’attuale, diffusa sensibilità popolare, basterebbe a provarlo il modo in cui viene vissuta l’hanami, la contemplazione dei ciliegi in fiore, simbolo della primavera. Chi ha avuto occasione di trovarsi in aprile in Giappone sa come, ad esempio nella metropoli di Tokyo, il grande parco di Ueno, per circa una settimana, accolga ogni giorno centinaia di migliaia di persone che vivono l’hanami sì come festa ed emozione estetica, ma non meno come cerimonia religiosa e una forma di meditazione su una meraviglia impermanente, destinata a svanire col primo vento e che, pertanto, attualizza e ricorda il misterioso legame tra vita, morte e bellezza.
Nel buddhismo mahayana la Vacuità è il fondamento stesso della pratica religiosa, codificata nel sistema delle paramita, cioè delle sei “perfezioni” o pratiche alle quali un bodhisattva (l’essere che aspira all’illuminazione, al raggiungimento della buddhità) adegua la sua vita. Le paramita sono rappresentate dal donare, dalla moralità o rispetto dei precetti e delle regole, dalla tolleranza o pazienza, dall’impegno, dalla meditazione e, infine, dalla saggezza. Ed è proprio la saggezza, intesa come realizzazione della Vacuità, a dare valore di perfezione alla pratica delle virtù, trasformandone il significato e liberando il bodhisattva anche dall’attaccamento alle perfezioni stesse, ove esse manchino di richiamarsi, e di richiamare, alla vacuità dei particolari momenti di pratica.
Perché questo discorso non sembri un’astrazione concettuale o sia da ritenere pertinente solo nel contesto della vita monastica, tentiamo, attraverso qualche esempio tratto dalla realtà della vita quotidiana giapponese, di interpretare in termini di paramita alcuni aspetti, anche tra i più “laici”, della cultura in cui si esprime la particolare sensibilità che abbiamo sopra cercato di delineare.
Cominciamo dalla pratica del donare. Può aiutarci in questo esame una pagina di uno dei più bei libri che siano stati scritti sul Giappone, L’impero dei segni di Roland Barthes, in cui vengono confrontati il saluto occidentale e l’inchino giapponese.
Poiché – scrive R. Barthes – se davvero esiste una “persona” umana (densa, piena, dotata di un centro e consacrata), è senza dubbio lei che, di primo acchito, si pretende di salutare (con il capo, le labbra, il corpo); ma la mia stessa persona, entrando inevitabilmente in lotta con la pienezza dell’altro, non potrà farsi riconoscere che scacciando ogni mediazione dell’artefatto, affermando l’integrità (termine coerentemente ambiguo, fisico e morale) del proprio “interiore”: così, in un secondo tempo, io ridurrò il mio saluto, fingerò di renderlo naturale, spontaneo, depurato, purificato da ogni codice […]: come sono semplice, come sono gentile, come sono franco, come sono qualcuno, ecco che cosa rivela la scortesia dell’Occidentale. L’altra cortesia, a causa della minuzia dei suoi codici, del grafismo nitido dei suoi gesti, anche quando ci appare rispettosa (cioè, ai nostri occhi, “umiliante”) perché noi la decifriamo secondo le nostre abitudini, a partire da una metafisica della persona, questa cortesia è una sorta di esercizio del vuoto (come ci si può attendere da un codice forte, ma significante “nulla”). Due corpi s’inchinano molto profondamente l’uno al cospetto dell’altro (le braccia, le ginocchia, la testa rimangono sempre in una posizione stabilita), secondo una gerarchia di profondità sottilmente codificata. O ancora (come si deduce da una stampa antica): per offrire un dono mi appiattisco, curvo sino a rientrare nella terra, e per corrispondermi il mio interlocutore fa altrettanto: una stessa linea bassa, quella del suolo, unisce colui che offre, colui che riceve e l’oggetto del protocollo, un involucro che può anche non contenere nulla – o comunque ben poca cosa; in questo modo una forma grafica (inscritta nello spazio della stanza) è offerta all’atto di scambio nel quale, grazie a questa forma, s’annulla ogni tipo di avidità (il regalo resta sempre sospeso tra due disparizioni). Il saluto può essere così sottratto ad ogni forma di umiliazione o di vanità, perché letteralmente non saluta nessuno; non è il segno di una comunicazione sorvegliata, condiscendente o cauta tra due autarchie, due imperi personali (ognuno regnante sul proprio Io, piccolo dominio di cui possiede la “chiave”); il saluto non è che il tratto d’unione di una rete di forme in cui nulla è stabilito, legato, profondo. Chi saluta chi? .
In un passo del suo famoso Mahaprajnaparamitasastra [Trattato sulla grande perfezione di saggezza], il filosofo buddhista indiano Nagarjuna (II-III sec.) scrive:
Vi sono due specie di donatori: il donatore mondano e il donatore sopramondano. Il donatore mondano abbandona le sue ricchezze, ma non abbandona il dono, mentre il donatore sopramondano abbandona insieme le ricchezze e il dono […]. Nella Danaparamita è detto che tre cose: l’oggetto donato, il donatore e il beneficiario, non esistono .
Ecco, dunque, come possiamo “interpretare” i comportamenti a cui si riferiscono le osservazioni di Barthes e molti altri fatti che si incontrano nella vita giapponese: l’arte del pacchetto (segno vuoto, quasi il vero oggetto del dono, che finisce per sostituire e depotenziare ciò che racchiude e cela, e di cui autorizza il rinvio della fruizione), il dono di denaro o di un frutto raro e costoso (entrambi oggetti che mutano o scompaiono e, non ingombrando con un presenza duratura, faranno dimenticare la sottile dimensione di arroganza insita nel regalo), etc.
Anche per la seconda paramita, riguardante il rispetto delle norme etiche e dei precetti, la vita giapponese è un terreno di verifica infinitamente ricco per la quantità di regole che presiedono a quasi tutti i fatti della vita sociale, dominata da una non esplicita, ma onnipresente morale confuciana, base dei sistemi politico, legale, educativo. Volendo qui sottolineare il richiamo alla Vacuità, sia consentito un accenno al sistema imperiale, argomento indubbiamente difficile, quasi tabù in Giappone, ma nondimeno centro della vita nazionale di quel Paese. Costituitosi sulla base ideologica dello scintoismo, che ha fatto dell’imperatore non solo un grande re, ma un dio rivelato, il potere imperiale è venuto a trovarsi paradossalmente forte proprio per la sua debolezza politica, collocato su un trono troppo poco influente e quindi al riparo dalle bramosie degli individui politicamente ambiziosi, ricco, potremmo dire, più di vuoto che di pieno. Un sistema dunque che ha, come la città di Tokyo, un cuore vuoto, una città che pertanto ne diviene lo specchio e il simbolo. Sentiamo ancora quest’osservazione di Roland Bathes
La città di cui parlo presenta questo paradosso prezioso: essa possiede sì un centro, ma questo centro è vuoto. Tutta la città ruota intorno a un luogo che è insieme interdetto e indifferente, dimora mascherata dalla vegetazione, difesa da fossati d’acqua, abitata da un imperatore che non si vede mai, cioè letteralmente da non si sa chi. Quotidianamente, con la loro andatura rapida, energica, spedita come la traiettoria di un proiettile, i taxi evitano questo cerchio la cui cima bassa, forma visibile dell’invisibile, nasconde il “nulla” sacro .
Ancora, potremmo ricordare che l’innumerevole quantità di regole dei comportamenti di purificazione, che lo shintoismo richiede come obblighi religiosi, ha trovato nel buddhismo un ulteriore rinforzo, in quella sorta di sincretismo o almeno di alleanza che queste due religioni hanno saputo realizzare. E questo può anche essere preso proprio come uno dei migliori esempi di pratica di un’altra paramita: quella della tolleranza, alla base dell’atteggiamento che tende non a contrapporre, ma ad armonizzare, non a dire questo o quello, ma questo e quello. Poiché ciascuna paramita è illuminata dalla luce delle altre, e soprattutto dalla realizzazione della Vacuità, si deve concludere, seguendo ancora Nagarjuna, che
guardando con l’occhio della saggezza il peccato non esiste; se il peccato non esiste neppure l’assenza di peccato esiste
e, dunque, non c’è né peccatore da disprezzare né santo da esaltare.
Lo zelo, la solerzia e la disciplina che i giapponesi manifestano in tutte le forme di vita individuale e collettiva, da quella scolastica a quella lavorativa, da quella familiare a quella religiosa, credo siano tra gli aspetti più noti in Occidente, trovandosi alla base anche dell’attuale “successo” giapponese e possano validamente illustrare la paramita dell’impegno.
Per quanto riguarda la quinta paramita, la concentrazione meditativa, va sottolineato che essa è praticata a livelli di estremo rigore quando è all’interno del curriculum formativo monastico, come ad esempio quello seguito dai monaci della scuola Tendai, sul monte Hiei, nei pressi di Kyoto: cicli di meditazione di 90 giorni senza dormire o di 90 giorni camminando continuamente o periodi di astinenza dal bere acqua per 9 giorni, rimanendo in silenziosa contemplazione dell’acqua stessa. Si tratta di pratiche che non hanno paragone anche con le più severe austerità religiose occidentali e sono certamente delle formidabili vie di penetrazione dei misteri della mente e della Realtà ultima. Tornare a bere dopo 9 giorni significa riscoprire la sacralità dell’acqua e di tutti i fenomeni della vita, in un modo che nessuna comprensione intellettuale può eguagliare. Ma, anche a questo proposito, vorrei ricordare pratiche più largamente diffuse, nelle quali gli elementi estetici e religiosi sono così intimamente fusi da farne un unicum che non ha analoghi in altre culture. Intendo riferirmi a quelle che si chiamano “arti”, ma che più propriamente sono da definire “vie” (di realizzazione): la cerimonia del tè, la disposizione dei fiori, la calligrafia, la cerimonia dell’incenso, il tiro con l’arco, etc. Ognuna di queste pratiche meriterebbe una illustrazione particolare, ma qui debbo limitarmi a sottolineare che esse non possono essere comprese nella loro vera natura se non vengono viste come forme dinamiche di concentrazione meditativa, illuminate dalla realizzazione della Vacuità che tutte le sottende. Il legame tra queste “arti” e lo zen, più volte giustamente sottolineato, risiede infatti nell’estetica dell’intervallo (ma, in giapp.), quello che giustifica lo spazio vuoto nella pittura, le pause del teatro No, il silenzio nella musica, le zone vuote nella casa: tutte occasioni in cui la “realtà” cede il posto alla “verità”, occasioni attraverso le quali è possibile
sentire le pulsazioni dell’invisibile in cui sono immerse tutte le cose. Solo allora ogni singolo essere può entrare in comunione con la totalità delle cose. La leggenda non dice forse che Wu Tao-tzu (701-792) scomparve nella nebbia di un paesaggio che aveva appena dipinto?
La sesta ed ultima paramita, la vera saggezza trascendentale, la realizzazione della Vacuità, non come nulla, ma come infinita potenzialità del pleroma e universale interrelazione, quella che conferisce significato religioso a tutte le virtù e a tutte le azioni, è dunque proprio quella in cui – a mio avviso – risiedono la peculiarità e il fascino della cultura giapponese. Dimenticando questo ci resterà di fronte il paese della tecnologia, degli affari, del pachinko, delle lattine, degli incubi scolastici… Se, viceversa, ci lasceremo assorbire dal fascino della Vacuità potremo avere molte cose da imparare e molti insegnamenti su cui riflettere.
Sentiamo di vivere in un’Europa che cambia, e ancor più profondamente cambierà, perché esposta a una serie di incontri, confronti e fecondazioni possibili, un’Europa che certamente si interroga-su e vuole proteggere-la sua preziosa identità. Anche in Giappone il tema dell’identità è in primo piano. Si sono scritti e si scrivono molti libri su questo argomento, e, volendo qui fare solo una considerazione sintetica, le tesi che mi sembrano più convincenti sono proprio quelle che, in qualche modo, utilizzano il concetto di vacuità, per cui tendono a caratterizzare l’identità giapponese come identità “vuota”, capace di dar ragione di una continuità che convive con un continuo rinnovamento.
Le culture troppo rigide sono sempre venute in crisi nell’incontro con ciò che è straniero e diverso, mentre la cultura giapponese sembra capace di lasciar fluire, assimilare, fondere, risolvere motivi diversi in sempre ulteriori unità, ritrovando poi sé stessa non nonostante, ma attraverso il cambiamento. È, infatti, quanto il Giappone ha sperimentato nelle tre “modernizzazioni” che ha affrontato nella sua storia, tre momenti critici rappresentati dalla riforma Taikwa o Grande innovazione (645), dalla “restaurazione” Meiji (1868), dal periodo successivo alla seconda guerra mondiale, tre momenti in cui lo stimolo al processo di modernizzazione è stato rappresentato dal confronto con realtà politico-sociali esterne, costitute rispettivamente dalla Cina, dai paesi occidentali, dagli USA. Se è vero che il Giappone ha nipponizzato il buddhismo è anche vero che il buddhismo ha buddhizzato il Giappone e possiamo vedere proprio come risultato della sua influenza questa capacità di essere fermo nel mezzo del movimento, fisso e in continua trasformazione. Proprio il buddhismo, religione importata dall’Occidente, ha finito per costituirsi come «garante della continuità sociale e dell’unità e identità culturale del popolo giapponese ».
Per l’Europa, ritengo che le difficoltà per la comprensione profonda e per la pratica della Vacuità non risiedano soltanto nelle difficoltà proprie di ogni confronto e dialogo interculturale: esse risiedono soprattutto nella nostra resistenza a mettere in gioco il nostro ego, a passare dalla cultura del narcisismo a quella della solidarietà , a passare dal piccolo io separato a un più grande io transpersonale; a passare, in altri termini, da una identità rigida a una identità “vuota”, “debole”, dialogica, mobile .
Potrà essere utile tornare ad attingere ai profondi giacimenti sapienziali presenti nel nostro continente, poiché, come osserva il già citato p. Johnston,
c’è un vecchio detto buddhista che dice che la Vacuità è uguale alla compassione (ku soku jhi). Questa è una Vacuità che è affine a ciò che gli antichi scrittori cristiani chiamavano umiltà. Quando sono umile e totalmente vuoto posso accogliere gli altri nel mio cuore; quando l’io è dimenticato ho posto per tutti gli uomini e per Dio .
Questo è un invito a ripensare in termini totalmente nuovi, sia a livello individuale che a livello sociale, i possibili rapporti tra identità e tradizione, da un alto, e universalità e globalizzazione, monismo e pluralismo, dall’altro. Secondo le profetiche parole di Thomas Merton, monaco benedettino aperto a tutti i messaggi culturali e spirituali, l’uomo che ha raggiunto una completa integrazione
non è più limitato dalla cultura in cui è cresciuto […]. L’integrazione finale è uno stato di maturità transculturale, molto al di là del puro adattamento sociale, che sempre comporta parzialità e compromesso. L’uomo che è “compiutamente nato” ha una completa “esperienza interna della vita”. Egli comprende la sua vita pienamente e completamente da un fondamento interno che è, ad un tempo, più universale dell’io empirico e tuttavia interamente suo. Egli è in un certo senso un uomo “cosmico” e “universale”. Egli ha conquistato una più profonda, più piena identità di quella del suo limitato ego, che è solo un frammento del suo essere […]. Lo stato di insight dell’integrazione finale implica un’apertura, una “vacuità”, una “povertà” simile a quelle descritte in dettaglio non solo dai mistici renani, da S. Giovanni della Croce, dai primi francescani, ma anche dai Sufi, dai primi maestri taoisti e dal buddhismo zen. L’integrazione finale implica il vuoto, la povertà e la non-azione che lascia l’individuo interamente disponibile per lo “Spirito” e pertanto strumento potenziale per una inusuale creatività .
L’attualità della cultura post-moderna nella quale ci troviamo sembra offrirci nuove realtà che possono aiutarci alla comprensione diretta di questi concetti, a partire proprio da ciò che sembra più caratteristico del nostro tempo. Vorrei dare solo due esempi. Da un lato, l’importanza sempre crescente delle tecnologie informatiche, caratterizzate da quella che non esiterei a chiamare la loro “vacuità”. L’“identità” di un computer risiede, infatti, proprio nella sua flessibilità e programmabilità. Esso è sì un oggetto, una macchina, ma una macchina che ha – in comune con la nostra mente – caratteri di disponibilità ed elusività che lo differenziano da tutti gli altri oggetti. D’altra parte, anche nel campo delle arti figurative e della musica l’affermarsi dell’astratto, dell’informale, del ripetitivo, del minimale… sembrano andare nella direzione di una riscoperta e di un recupero di spazi e di intervalli dimenticati e, quindi, di una possibile riaffermazione della mistica presenza del vuoto.
Un confronto e uno scambio più ravvicinati con la cultura giapponese, e con i suoi modi di coniugare il tradizionale con l’attuale, credo possano molto aiutarci ad attualizzare l’assimilazione e la pratica della Vacuità e stimolarci a darne una particolare e attuale lettura europea (non dimenticando, d’altra parte, che, pur se riproposte dall’Estremo Oriente, ci troviamo di fronte a concezioni nate in quella che biene chiamata cultura indo-europea!). La costruzione di una cultura della complessità e della diversità non può realizzarsi che attraverso il contatto con la diversità e la complessità delle culture, un processo questo indispensabile e reso oggi urgente dall’esigenza di sviluppare tutta l’attenzione e la consapevolezza necessarie per affrontare i profondi mutamenti che, come europei, ci attendono.
da (modificato) Paradigmi-Rivista di critica filosofica, 10, 1992, n. 30
H. Hesse, Il pellegrinaggio in Oriente, tr. it., Milano, Adelphi, 1980.
Cfr. H. Nakamura, Ways of Thinking of Eastern Peoples, Honolulu, The University Press of Hawaii, 1964 e C. Pensa, L’incontro tra Oriente e Occidente oggi: problemi e significati con particolare riguardo al Buddhismo e all’Induismo, Atti Convegno Soc. it. storia delle religioni e Ist. Univ. Orientale di Napoli, suppl. n°2 agli Annali, 1975, 35, fasc.1.
L.Hearn, Japan: an Interpretation, Tokyo, Charles E. Tuttle Company, 1984, pp. 17-19.
T. Terziani, L’uomo che inventò il Giappone - Firma inglese per la leggenda del Sol Levante, in «Corriere della sera», 1990.
Cfr. la polemica tra E. Zolla e B. Placido; di quest’ultimo: Il Paese che non c’è, in La Repubblica, 20 ott. 1988.
J. D. Barrow e F.J.Tipler, The Anthropic Cosmological Principle, New York, Oxford University Press, 1986.
Cit. in W. Johnston, L’occhio interiore, tr. it., Roma, Città nuova Editrice, 1987, p. 123.
W. Johnston, op. cit., pp. 132-133
J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, tr. it., Torino, UTET, 1971.
I. Morris, Il mondo del principe splendente, tr. it., Milano, Adelphi Edizioni, 1984, p. 259.
S. Murasaki, Storia di Genji, il principe splendente, tr. it., Torino, Einaudi, 1957.
W. J. Puette, Guide to The Tale of Genji, Tokyo, Charles E. Tuttle Company, 1983, p. 42.
S. Kato, Storia della letteratura giapponese, tr. it., Venezia, Marsilio Editori, vol. I, 1987, p. 170.
Ibidem.
I. Morris, op. cit., p. 259.
Keisaku o kyosaku (bastone) e hossu (corto bastone con parte di una coda di cavallo a una estremità) sono strumenti tipici dei maestri zen.
Allusione all’episodio dell’insegnamento dato dal Buddha mostrando un fiore.
Dogen, Shobogenzo - The Eye and Treasury of the True Law, tr. ingl., IV, Tokyo, Nakayama Shobo, 1983, p. 56.
Natura buddhica o natura-di-Buddha (giapp.: bussho, ingl.: Buddha-nature), intesa come il substrato di perfezione proprio di tutti i fenomeni, di tutti gli esseri senzienti e non-senzienti.
Id., ivi, p. 128.
R. Barthes, L’empire des signes, Parigi, Skira e Flammarion, 1970, p. 85 ss.; L’impero dei segni, tr. it., Torino, Einaudi, 1984, p. 75 ss.
É. Lamotte, Le traité de la Grande vertu de sagesse de Nagarjuna, Louvain-la-Neuve, Université de Louvain, Institut Orientaliste, 1981, tomo II, p. 724.
R. Barthes, op. cit., pp. 39-42.
É. Lamotte, op. cit., p. 861.
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