Amélie Nothomb, Métaphysique des tubes, Parigi, Albin Michel, 2000;
tr. it. col tit. Metafisica dei tubi, Roma, Voland, 2002
È possibile concepire una metafisica dei tubi? Sembrerebbe di sì, anche se preferiremmo parlare piuttosto di una psicologia archetipica di queste entità in qualche modo paradossali:
I tubi sono delle singolari mescolanze di pieno e di vuoto, materia cava, membrana d'esistenza che protegge un fascio di non esistenza.
Nella sua nobiltà geometrica il tubo può essere visto come immagine di Dio stesso:
Dio aveva la morbidezza del flessibile ma restava tuttavia rigido e inerte, confermando così la sua natura di tubo. Egli conosceva la serenità assoluta del cilindro. Filtrava l'universo e non tratteneva nulla.
Tubo come sinonimo di assenza di ogni desiderio e attaccamento, ma anche di morte, tubo la bambina affetta da inerzia patologica come l'Autrice si descrive nei primi due anni di vita (se il termine "vita" è consentito!). Stiamo parlando di Amélie Nothomb, trentaduenne scrittrice di origine belga, francofona, già al suo ottavo romanzo, questo - autobiografico - intitolato appunto Methaphysique des tubes, insignita del Grand prix du roman dell'Académie française (1999) per quello precedente, Stupeur et tremblement.
Figlia di un diplomatico giapponese in servizio a Kobe, viene risvegliata alla vita dalla nonna paterna che compie il miracolo portandole del cioccolato bianco dal Belgio. La descrizione del suo terzo anno di vita (il romanzo si conclude col compimento del terzo anno), la conquista del linguaggio, la contrapposizione del ricco mondo interiore di bambina alla superficiale considerazione che gli adulti hanno di lei, le esperienze di interpretazione della realtà, la costruzione di un ordine simbolico in cui collocare genitori, fratelli e altri, costituiscono un'affascinante opera di psicologia dell'infanzia e, in particolare, di un'infanzia troppo felice, passata in Giappone, in quella età in cui il bambino è considerato una divinità ("Handicappata da un'infanzia troppo felice, sono abbonata alla nostalgia", dice di sé l'A.). Felicità che viene presto al suo termine quando le viene annunciato quello che non avrebbe mai creduto possibile: un prossimo trasferimento in un altro Paese (lei che si sentiva e parlava giapponese), il dover sottostare a eventi che seguono una logica estranea e incomprensibile, comprendere ciò che ogni essere umano un giorno o l'altro comprende: che ciò che ami lo perderai.
"Ciò che ti è stato dato ti sarà ripreso": è così che mi formulavo il disastro che doveva diventare il leitmotiv della mia infanzia, della mia adolescenza e delle peripezie susseguenti. "Ciò che ti è stato dato ti sarà ripreso": la tua vita intera sarà ritmata dal dolore.
La perdita della felicità si tramuta in un improvviso lasciarsi andare, un apparecchiarsi alla morte nel laghetto di casa, ove ha il compito di nutrire le carpe che la disgustano, tubi anch'esse, dalle bocche (lacaniane!) sempre beanti. Così, improvvisamente, sente di cedere alla tentazione di tornare a essere tubo senza reattività, scivolando nell'acqua:
La cosa che diviene sempre meno vivente si sente ridivenire il tubo che non ha mai cessato d'essere. Presto il corpo non sarà più che un tubo. Si lascerà invadere dall'elemento adorato che dona la morte. Infine, sgombra delle sue funzioni inutili, la canalizzazione consentirà il passaggio all'acqua - e a nient'altro.
Amélie si vive giapponese tanto da condividere, perfino il vecchio principio nipponico di non salvare mai la vita di qualcuno, perché ciò lo costringerebbe a una gratitudine troppo grande per lui.
In una precedente situazione, in cui aveva già rischiato di annegare, era rimasta atterrita guardando delle persone che, fedeli a quel principio, a loro volta la guardavano morire con attenzione. Ma la seconda volta, sentendosi nella calma che precede la morte "scelta", la bambina vede attraverso le acque il volto della cameriera Kashima-san che le sembra sorridere mentre la osserva annegare, per poi andarsene senza fretta. Adesso le sembra di capire:
Ora, grazie a te, io li comprendo. Erano calmi come te. Non volevano perturbare l'ordine dell'universo, il quale esigeva la mia morte per acqua. Sapevano che non serviva a nulla salvarmi. Colui che deve annegare annegherà. [...] Tu hai ragione di sorridere. Quando il destino di qualcuno si compie, bisogna sorridere. Sono felice di sapere che non andrò più a nutrire le carpe e che non lascerò mai il Giappone.
Nella casa lavorano due cameriere giapponesi: una, Kashima-san, ostile agli stranieri, chiusa nella sua superbia nazional-tradizionalistica , e una seconda, Nishio-san, in umile adorazione della piccola "divinità" che ricambia il suo amore: sarà lei la salvatrice. Se, in termini psicologici, possiamo vedere nelle due cameriere la scissione kleiniana tra "seno buono" e "seno cattivo", in termini spirituali siamo spinti a tornare alla "scissione" tra saggezza (per cui tutto è composto e compiuto) e compassione (per cui i giochi non sono mai fatti e il mondo è sempre e tutto da salvare). La cameriera che si allontana senza fretta dal luogo in cui sta per compiersi la tragedia, non ci può non ricordare l'aneddoto di Joshu che finge di cadere nel pozzo e di Nanzen che, contando lentamente, si accinge a "salvarlo". E, ancora, libertà e dipendenza, accidentato confine tra aiuto e crescita indipendente...
La felicità totale e la successiva violenta perdita dell'innocenza di fronte al male hanno segnato la vita dell'Autrice. La famiglia viene trasferita prima a Pekino (vivendo da stranieri supercontrollati e dove era vietato parlare con la gente: "Se si discute con un cinese non lo si rivede mai più. Sono piccola, ma realizzo che qualcosa non va"), poi a New York ("formidabilmente eccitante" e dove si può cammianare liberamente!) e, infine, nel Bangladesh (con i cadaveri dei morti per fame nelle strade, la miseria allo stato puro): Amélie si nutre di tristezza e di rabbia, attraversa l'esperienza dell'anoressia, perde i capelli e pesa 36 kg. Poi a Bruxelles, studia filosofia e ottiene l'agrégation nella disciplina, torna in Giappone nel tentativo di integrarvisi, ma non rivivrà il paradiso infantile. Comincia la "carriera" di scrittrice: il successo è immediato e travolgente (Stupeur et tremblement supera le 300.000 copie), uno scrivere che se non le restituisce la felicità perduta si rivela essere il suo modo di combattere contro il "nemico interno", contro la morte ("Per me la scrittura è il momento del combattimento, il solo in cui mi sento abbastanza forte"). Lo aveva capito già da bambina, quando si ripeteva:
Poiché tu non vivrai sempre in Giappone, poiché sarai cacciata dal giardino, poiché perderai Nishio-san e la montagna, poiché quel che ti è stato dato ti sarà ripreso, tu hai il dovere di rievocare questi tesori. Il ricordo ha lo stesso potere della scrittura.
Scrittura come ricordo, rievocazione dell'oggetto perduto, ritorno attraverso il "fantasma" alla pienezza inattingibile degli eventi infantili di "fondazione". Perché, come dicono le parole con cui il libro si chiude:
In seguito, niente è più successo.
Riccardo Venturini
(pubbl. in Dharma, 2001, n. 6)
tr. it. col tit. Metafisica dei tubi, Roma, Voland, 2002
È possibile concepire una metafisica dei tubi? Sembrerebbe di sì, anche se preferiremmo parlare piuttosto di una psicologia archetipica di queste entità in qualche modo paradossali:
I tubi sono delle singolari mescolanze di pieno e di vuoto, materia cava, membrana d'esistenza che protegge un fascio di non esistenza.
Nella sua nobiltà geometrica il tubo può essere visto come immagine di Dio stesso:
Dio aveva la morbidezza del flessibile ma restava tuttavia rigido e inerte, confermando così la sua natura di tubo. Egli conosceva la serenità assoluta del cilindro. Filtrava l'universo e non tratteneva nulla.
Tubo come sinonimo di assenza di ogni desiderio e attaccamento, ma anche di morte, tubo la bambina affetta da inerzia patologica come l'Autrice si descrive nei primi due anni di vita (se il termine "vita" è consentito!). Stiamo parlando di Amélie Nothomb, trentaduenne scrittrice di origine belga, francofona, già al suo ottavo romanzo, questo - autobiografico - intitolato appunto Methaphysique des tubes, insignita del Grand prix du roman dell'Académie française (1999) per quello precedente, Stupeur et tremblement.
Figlia di un diplomatico giapponese in servizio a Kobe, viene risvegliata alla vita dalla nonna paterna che compie il miracolo portandole del cioccolato bianco dal Belgio. La descrizione del suo terzo anno di vita (il romanzo si conclude col compimento del terzo anno), la conquista del linguaggio, la contrapposizione del ricco mondo interiore di bambina alla superficiale considerazione che gli adulti hanno di lei, le esperienze di interpretazione della realtà, la costruzione di un ordine simbolico in cui collocare genitori, fratelli e altri, costituiscono un'affascinante opera di psicologia dell'infanzia e, in particolare, di un'infanzia troppo felice, passata in Giappone, in quella età in cui il bambino è considerato una divinità ("Handicappata da un'infanzia troppo felice, sono abbonata alla nostalgia", dice di sé l'A.). Felicità che viene presto al suo termine quando le viene annunciato quello che non avrebbe mai creduto possibile: un prossimo trasferimento in un altro Paese (lei che si sentiva e parlava giapponese), il dover sottostare a eventi che seguono una logica estranea e incomprensibile, comprendere ciò che ogni essere umano un giorno o l'altro comprende: che ciò che ami lo perderai.
"Ciò che ti è stato dato ti sarà ripreso": è così che mi formulavo il disastro che doveva diventare il leitmotiv della mia infanzia, della mia adolescenza e delle peripezie susseguenti. "Ciò che ti è stato dato ti sarà ripreso": la tua vita intera sarà ritmata dal dolore.
La perdita della felicità si tramuta in un improvviso lasciarsi andare, un apparecchiarsi alla morte nel laghetto di casa, ove ha il compito di nutrire le carpe che la disgustano, tubi anch'esse, dalle bocche (lacaniane!) sempre beanti. Così, improvvisamente, sente di cedere alla tentazione di tornare a essere tubo senza reattività, scivolando nell'acqua:
La cosa che diviene sempre meno vivente si sente ridivenire il tubo che non ha mai cessato d'essere. Presto il corpo non sarà più che un tubo. Si lascerà invadere dall'elemento adorato che dona la morte. Infine, sgombra delle sue funzioni inutili, la canalizzazione consentirà il passaggio all'acqua - e a nient'altro.
Amélie si vive giapponese tanto da condividere, perfino il vecchio principio nipponico di non salvare mai la vita di qualcuno, perché ciò lo costringerebbe a una gratitudine troppo grande per lui.
In una precedente situazione, in cui aveva già rischiato di annegare, era rimasta atterrita guardando delle persone che, fedeli a quel principio, a loro volta la guardavano morire con attenzione. Ma la seconda volta, sentendosi nella calma che precede la morte "scelta", la bambina vede attraverso le acque il volto della cameriera Kashima-san che le sembra sorridere mentre la osserva annegare, per poi andarsene senza fretta. Adesso le sembra di capire:
Ora, grazie a te, io li comprendo. Erano calmi come te. Non volevano perturbare l'ordine dell'universo, il quale esigeva la mia morte per acqua. Sapevano che non serviva a nulla salvarmi. Colui che deve annegare annegherà. [...] Tu hai ragione di sorridere. Quando il destino di qualcuno si compie, bisogna sorridere. Sono felice di sapere che non andrò più a nutrire le carpe e che non lascerò mai il Giappone.
Nella casa lavorano due cameriere giapponesi: una, Kashima-san, ostile agli stranieri, chiusa nella sua superbia nazional-tradizionalistica , e una seconda, Nishio-san, in umile adorazione della piccola "divinità" che ricambia il suo amore: sarà lei la salvatrice. Se, in termini psicologici, possiamo vedere nelle due cameriere la scissione kleiniana tra "seno buono" e "seno cattivo", in termini spirituali siamo spinti a tornare alla "scissione" tra saggezza (per cui tutto è composto e compiuto) e compassione (per cui i giochi non sono mai fatti e il mondo è sempre e tutto da salvare). La cameriera che si allontana senza fretta dal luogo in cui sta per compiersi la tragedia, non ci può non ricordare l'aneddoto di Joshu che finge di cadere nel pozzo e di Nanzen che, contando lentamente, si accinge a "salvarlo". E, ancora, libertà e dipendenza, accidentato confine tra aiuto e crescita indipendente...
La felicità totale e la successiva violenta perdita dell'innocenza di fronte al male hanno segnato la vita dell'Autrice. La famiglia viene trasferita prima a Pekino (vivendo da stranieri supercontrollati e dove era vietato parlare con la gente: "Se si discute con un cinese non lo si rivede mai più. Sono piccola, ma realizzo che qualcosa non va"), poi a New York ("formidabilmente eccitante" e dove si può cammianare liberamente!) e, infine, nel Bangladesh (con i cadaveri dei morti per fame nelle strade, la miseria allo stato puro): Amélie si nutre di tristezza e di rabbia, attraversa l'esperienza dell'anoressia, perde i capelli e pesa 36 kg. Poi a Bruxelles, studia filosofia e ottiene l'agrégation nella disciplina, torna in Giappone nel tentativo di integrarvisi, ma non rivivrà il paradiso infantile. Comincia la "carriera" di scrittrice: il successo è immediato e travolgente (Stupeur et tremblement supera le 300.000 copie), uno scrivere che se non le restituisce la felicità perduta si rivela essere il suo modo di combattere contro il "nemico interno", contro la morte ("Per me la scrittura è il momento del combattimento, il solo in cui mi sento abbastanza forte"). Lo aveva capito già da bambina, quando si ripeteva:
Poiché tu non vivrai sempre in Giappone, poiché sarai cacciata dal giardino, poiché perderai Nishio-san e la montagna, poiché quel che ti è stato dato ti sarà ripreso, tu hai il dovere di rievocare questi tesori. Il ricordo ha lo stesso potere della scrittura.
Scrittura come ricordo, rievocazione dell'oggetto perduto, ritorno attraverso il "fantasma" alla pienezza inattingibile degli eventi infantili di "fondazione". Perché, come dicono le parole con cui il libro si chiude:
In seguito, niente è più successo.
Riccardo Venturini
(pubbl. in Dharma, 2001, n. 6)